MANI PULITE AVEVA LE MANI SPORCHE
Vergognoso, questa volta, l’articolo di Feltri su Di Pietro. L’ex direttore di Libero, al tempo di Tangentopoli alla direzione dell’Indipendente, prese cantonate grosse e grossolane sul golpe giudiziario, verso le quali non mostra ancora resipiscenza ad anni di distanza. Suo l’epiteto di “Cinghialone” contro Craxi anche se di ciò si è scusato in seguito e forse anche vergognato. Era lui a parlare di Di Pietro e Borrelli come uomini di lodevole attività. Eppure già al tempo circolavano pesanti voci dei rapporti tra il primo e la C.I.A. Il secondo, da uomo intelligente qual era, più probabilmente, fiutò l’aria e non ostacolò quei modi da psicologia terroristica verso i vari imputati. Qui, al contrario dei numerosi smemorati o tetragoni della legge ad orologeria, non intendiamo arrenderci ad una verità storica ancora egemone ma completamente contraffatta.
Tangentopoli fu il pretesto per liberarsi di un’intera classe dirigente la quale, per quanto non “innocente” ed estremamente spregiudicata nel maneggiare il denaro pubblico, aveva, perlomeno, un’idea precisa degli interessi nazionali e della sovranità, cioè dei capisaldi non svendibili dello Stato. La vecchia dirigenza DC-PSI, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia, non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitco dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. Tutto ciò verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni. Vi ripropongo qui un florilegio di brani tratti da un libro di Tiziana Maiolo del 2011, Tangentopoli, in cui si evidenziano alcune stranezze non insignificanti sull’azione del Pool di Milano, il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte. In secondo luogo, pure la Maiolo, riprende la tesi del complotto della Cia nell’affaire Tangentopoli, anche se non arriva a comprendere come gli americani potessero fidarsi dei comunisti, cresciuti sotto l’ala di Mosca, per raggiungere i loro scopi. Le sfuggono importanti spostamenti di campo che il PCI iniziò ad operare sin dalla fine degli anni ’60 e che diventarono sempre più evidenti con il compromesso storico, le dichiarazioni berlingueriane favorevoli alla Nato ed i viaggi d’oltreoceano di Giorgio Napolitano. L’onda lunga del tradimento si completerà, in seguito alla caduta dell’URSS, con la svolta occhettiana della bolognina che porterà la ditta a cambiare apertamente nome e ragione sociale. E’ vero che la gioiosa macchina da guerra del PDS s’ingripperà sul più bello, mentre dava l’assalto al potere, ma occorre sapere che anche il complotto meglio pianificato può incontrare un inghippo che ne impedisce la riuscita perfetta, quella più aderente alla sua progettazione. Ma la storia come il diavolo usa pentole senza coperchi. Dal nulla uscì un Cavaliere venuto da Arcore, catalizzatore del bacino elettorale dei partiti distrutti dai giudici, il quale bloccò i piccìsti da tempo filo-occidentali. Poi anche lui si ricordò, pressato dai magistrati, di avere vita e famiglia e si inginocchiò davanti ad Obama. Il disastro del presente viene da lontano ed è figlio di molti protagonisti, deuteragonisti e comparse a diverso titolo, alcuni morti altri viventi, purtroppo ancora osannati.
Le mani pulite dei comunisti
Il pool di Milano intanto procedeva come un carro armato. E tutti aspettavano che finalmente andasse a colpire anche il Pci-Pds, che andasse a fondo, che facesse una pulizia totale. Non era previsto che quella del pool fosse guerra chirurgica, selettiva. Grande stupore destarono quindi le parole del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio che in un’intervista rilasciata al quotidiano «l’Unità» il 26 maggio 1993 annunciò che a grandi linee l’inchiesta su tangentopoli era finita. Lo annuncia nel momento in cui le indagini hanno colpito in tutta Italia esponenti locali e nazionali del Psi e della Dc. D’Ambrosio spiega: «Finita, nel senso che ciò che doveva emergere nel filone politico-affaristico è venuto fuori». Il che significa esplicitamente,
improvvisamente che il nuovo codice, entrato in vigore da soli quattro anni, imponeva al pm di raccogliere anche prove in favore dell’imputato. Fu un fatto eccezionale, infatti non si ricordano molti altri casi in cui il rappresentante dell’accusa sia andato in soccorso della difesa.
D’Ambrosio lo fece, fece quel che l’avvocato di Greganti non aveva fatto. E scoprì che, nella stessa giornata in cui Greganti aveva prelevato denaro da un conto svizzero che si chiamava Gabbietta, aveva acquistato una casa a Roma. «Ecco la prova – disse – che il funzionario rubava per sé e non per il partito». Benché il gip Italo Ghitti non fosse convinto, e men che meno Tiziana Parenti, la cosa finì così, cioè si sposò la tesi che Greganti si era fatto tre mesi di galera per non confessare di aver comprato una casa in nero. Una cosa da ridere, ma nessuno rise. Il partito di Occhetto era salvo.
Questa storia della casa di Greganti non verrà mai chiarita, anche perché, ogni volta che le indagini andranno a lambire i vertici dell’ex Partito comunista, la Procura di Milano andrà in tilt. Ma un paio di anni dopo, quando il quadro politico è radicalmente cambiato e non esistono più la Dc né il Psi, ma esiste ancora l’ex partito di Occhetto, il ministro di Giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, avvierà un’ispezione nei confronti del pool di Milano, e la questione di quella casa salterà di nuovo fuori. Mancuso illustra i capi d’accusa nei confronti del pool, e parla di un «rifiuto da parte di un qualificato esponente della Procura, a ricevere un rapporto che un ufficiale della guardia di finanza avrebbe dovuto depositare». Che cosa è successo? È successo semplicemente che questo ufficiale, che si era occupato delle indagini su Greganti, ha notato un’incongruenza nella ricostruzione di quell’acquisto della casa romana. La sequenza avrebbe dovuto essere questa; nella stessa giornata Greganti va in Svizzera, preleva i soldi dal conto Gabbietta, poi va a Roma, si incontra con il venditore della casa e stipula il rogito.
Difficile che le cose siano andate così, scrive l’ufficiale nella sua relazione, perché l’atto di acquisto della casa è stato siglato a Roma, in un’agenzia del Monte dei Paschi di Siena alle 9.30 del mattino. A che ora dunque Greganti era andato nella banca di Lugano e con che supersonico mezzo di trasporto si era poi trovato alle 9.30 a Roma? Chiaro che i soldi per l’acquisto dell’appartamento non erano gli stessi del conto svizzero. E dove sono finiti questi ultimi? Nelle casse del Pci-Pds. La relazione, chiarissima, era stata però accolta con indifferenza dai magistrati di Milano, che non vollero indagare più.
Poco dopo alla giovane magistrata che aveva osato sfidare i vertici della Quercia l’inchiesta fu tolta. Tiziana Parenti non era «allineata» con la Procura, si disse. E si concluse il suo rapporto con la sinistra, tanto che nel 1994 si unirà ai tanti di noi che andranno in Parlamento con la lista di Forza Italia.
Ci sarà
Ci sarà un altro magistrato la cui inchiesta sul Pci-Pds si infrangerà su un muro di omertà complici e di «aiutini», il procuratore di Venezia Carlo Nordio, cui a un certo punto furono trasferiti anche atti provenienti da Milano. L’interrogatorio di Luigi Carnevale, che chiamava in causa esplicitamente Stefanini, Occhetto e D’Alema non arrivò mai. Si disse che era stata una «dimenticanza». E così l’inchiesta di Venezia, come tante altre che si snodarono in tutta Italia, si risolse con le condanne dei pesci piccoli. E che dire di quel miliardo di lire che Raul Gardini, patron di Enimont, consegnò a Botteghe Oscure, su cui esistono diverse testimonianze e per il quale Sergio Cusani fu condannato a sei anni di carcere? Sparito nelle stanze buie della grande federazione del Pci-Pds. Nessun magistrato, né Di Pietro né in seguito i diversi tribunali individuarono in quali mani il denaro fosse finito. Per D’Alema e Occhetto non è mai valso il principio del «non poteva non sapere» o della «responsabilità oggettiva» con cui fu colpito Bettino Craxi. Eppure c’era stato il racconto (indiretto) di Sergio Cusani che aveva riferito di aver consegnato un miliardo nelle mani di Achille Occhetto. Il tribunale che condannò Cusani scrisse:
Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico.
Non si ricordano urla e strepiti del pubblico ministero Antonio Di Pietro (anche se chiederà timidamente di interrogare D’Alema), che dopo quel processo gettò la toga. Occhetto e D’Alema non furono neppure sentiti e il miliardo passò alla storia come finanziamento illegale «a un partito», che sarà stato popolato di fantasmi e non di persone fornite di lingua per chiedere e di mani per ricevere. Raul Gardini non sarà un povero «concusso» dall’avidità vorace di politici citati con nome e cognome. Questa è la guerra chirurgica.
Toghe rosse in frantumi
Francesco Misiani (per noi amici Ciccio), pubblico ministero romano di sinistra aderente alla corrente più radicale di Magistratura democratica, ha spiegato in un libro molto sincero e appassionato3 quale fosse lo stato d’animo suo, e forse di alcuni suoi colleghi «compagni», quando scoprirono che il Pci-Pds, lungi dal rappresentare quella «diversità» su cui tanto si era appassionato Enrico Berlinguer, era invece assolutamente omologo (un terzo un terzo un terzo) ai partiti di governo e, proprio come aveva denunciato l’inascoltato Craxi, si era sempre finanziato in modo illecito o illegale. Anzi, avendo anche ricevuto finanziamenti dall’Unione sovietica (come racconterà con franchezza in un altro libro Gianni Cervetti) aveva molte maggiori disponibilità. Lo stato d’animo di Misiani e altri suoi compagni era di lacerazione. Tanto che anche a loro apparve nuda e cruda la verità, e cioè che i magistrati di sinistra non avevano voluto processare né D’Alema né Occhetto. Avevano avuto la realtà dei fatti davanti agli occhi e avevano preferito chiuderli.
Seguiamo il racconto di Misiani alle prese con un filone, forse minore, di «tangenti rosse»: «Ero convinto che quei soldi erano arrivati a Botteghe Oscure, ma rimasi ammirato dalla solidità delle argomentazioni difensive, anche nella loro verisimiglianza». Aveva fatto arrestare una persona che veniva definita «il collettore rosso» di tangenti. Così ne parla:
Ebbene quest’uomo, di cui ricordo lo sguardo impenetrabile e la modestia nel vestire, ebbe il coraggio di sostenere che i soldi che aveva raccolto dalle imprese se li era intascati. Che le sue erano state semplici millanterie per convincere gli altri imprenditori a versare tangenti che in realtà non sarebbero poi mai arrivate a Botteghe Oscure.
Che cosa conclude il magistrato? «Naturalmente non credetti a una sola delle sue parole. Ma mi accontentai e chiusi lì l’indagine». È una scelta processuale, ma è anche una scelta politica. E Misiani non la nasconde:
Non sono un ipocrita e so perfettamente che se avessi insistito, forse prima o poi, sarei riuscito a dimostrare in un’aula di tribunale che il Pci al pari degli altri partiti non era estraneo al circuito del finanziamento illecito da parte delle imprese. Ma non lo feci.
Qui si pongono due questioni. La prima dimostra come le inchieste di tangentopoli siano state gestite in gran parte da magistrati di sinistra i quali, un po’ per ideologia un po’ per convenienza, hanno operato la guerra chirurgica e selettiva. E se si pensa che, insieme alle sanzioni per i singoli, si è prodotta quella grande punizione nei confronti di alcuni partiti fino a farli sparire dalla scena politica mentre altri, ugualmente prosperati nell’illegalità, si sono salvati, forse è poco parlare di ingiustizia. Forse si capisce che all’inizio degli anni novanta ci si è avvicinati pericolosamente a una presa del Palazzo d’inverno da parte di un settore della magistratura. E la cosa grave è che qualche giovanotto che aveva vinto un concorso determinò mutamenti politici che non è esagerato definire storici. La seconda questione la pone esplicitamente lo stesso Misiani nelle pagine successive all’episodio che abbiamo raccontato, nel suo libro. Ed è il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Il magistrato sa di averlo violato, ciononostante con franchezza afferma che lo rifarebbe:
Non ho difficoltà a dire quello che anche i muri sanno. Nelle scelte di ogni Pubblico ministero esiste un elemento di forte discrezionalità. I magistrati sono uomini in carne e ossa, con le loro idee politiche, la loro formazione culturale. Far finta del contrario significherebbe voler aggirare il problema. L’importante è esserne coscienti.
Non penso proprio che sia sufficiente «essere coscienti». La verità è che questi magistrati agiscono ogni giorno forzando il principio del «libero convincimento». E questo non significa forse che in certi comportamenti c’è arbitrio? Con la conseguenza di creare puniti e impuniti, singoli arrestati e scampati, ma soprattutto partiti distrutti, partiti che non esistono più e partiti (in realtà solo uno, il Pci-Pds-Ds-Pd) che, pur essendosi finanziati in modo irregolare e illegale come gli altri, hanno cambiato nome (ma non gli uomini) e soprattutto esistono ancora.
L’uomo della Cia
Nel 1994, quando ero ministro del primo governo Berlusconi, fui avvicinato da alcuni professori miei amici, che erano legati alla Cia, i quali mi misero in guardia da Di Pietro, mi suggerirono di diffidare della persona. Mi dissero con certezza che Di Pietro nella costruzione di tangentopoli era stato aiutato dai servizi segreti americani.
Chi mi parla non è un esponente della Prima Repubblica, ma uno dei fondatori della Seconda, al fianco di Silvio Berlusconi: Giuliano Urbani. Lui a questa versione dei fatti crede da quando quegli amici gli spiegarono che il desiderio di vendetta degli Stati Uniti nei confronti di Craxi, Spadolini e Andreotti per i fatti di Sigonella ebbe diversi strumenti operativi, tra cui appunto l’uso di Tonino Di Pietro. Il quale in effetti arrivò, distrusse e se ne andò. Su mandato dei servizi segreti americani.
Il racconto di Urbani, proprio perché proviene da un liberale che arrivò nei palazzi del potere «dopo» e che quindi non aveva nessun motivo di «revanchismo» nei confronti del Pm di Mani pulite, quasi quasi mi convince: «Quegli amici mi hanno avvicinato per avvertirmi della doppiezza dell’uomo, che era stato protagonista di una pagina oscura. E mi hanno proprio cercato loro, appositamente». Vengono con facilità alla memoria quelle trattative, poi saltate, per far entrare Di Pietro nel governo Berlusconi. Viene alla memoria tutto. E i dubbi aumentano. Sappiamo come è cominciata, ma non sappiamo perché. Perché una colossale retata giudiziaria a strascico abbia rivoluzionato la fisionomia politica del Paese. Perché la Democrazia cristiana, il partito che dal 1948 al 1993 aveva governato e raccolto il consenso della maggioranza degli italiani, non esista più. Vorremmo apere perché Bettino Craxi, lo statista del riformismo laico che aveva osato sfidare i due colossi della politica italiana, il partito unico dei cattolici e quello comunista sostenuto dall’Unione sovietica, sia morto esule e il suo partito, il Psi di Turati e Anna Kulisciof, non esista più. Vorremmo sapere perché tutta la cultura laica e riformista che consentiva di andare all’urna e di votare i liberali, i repubblicani o i socialdemocratici sia stata spazzata via. E vorremmo sapere infine perché, di tutte le possibilità di scelta dei partiti tradizionali che dal dopoguerra fino all’inizio degli anni novanta hanno avuto gli elettori nell’urna, è rimasta solo l’opzione comunista, in qualunque modo si chiami il partito che la rappresenta, quello che fu di Longo, Togliatti e Berlinguer, il Pci, poi Pds, Ds, e oggi Pd.
Certo, nel frattempo è arrivato Silvio Berlusconi a ereditare l’intero pentapartito e a portare quel valore aggiunto che prenderà il nome di Forza Italia, è cresciuta la Lega ed è stato sdoganato l’inesistente Movimento sociale (poi Alleanza nazionale), l’unico piccolo partito che, insieme al Partito radicale, un po’ per merito un po’ per emarginazione, non aveva partecipato al finanziamento illecito. Tutto questo è storia che si riverbera sul presente. Ma rimane quella domanda: perché? Perché è accaduto? È stato casuale o l’ha voluto qualcuno? Propenderei per la prima ipotesi. Per me l’assalto al Palazzo aveva avuto un inizio casuale. Però…
Il complotto internazionale
Non tutti la pensano così. C’è chi ha sposato la teoria del «complotto internazionale». Sostenuta da molti esponenti governativi prestigiosi della Prima Repubblica (capofila di questo pensiero fu Bettino Craxi), questa ipotesi parte dal presupposto, in parte fondato, che la magistratura fno al 1992 rispetto al finanziamento illecito e illegale dei partiti aveva più o meno sonnecchiato. Se c’era stata qualche indagine, questa aveva riguardato (come è giusto e come prescrive il codice) singoli casi e singole persone. Situazioni circoscritte, che non avevano influenzato le cadenze della politica. Come mai, si domandano i sostenitori del «complotto internazionale» e anche quelli del complotto nostrano, a un certo punto c’è stata l’improvvisa accelerazione che ha messo in crisi l’intero sistema dei partiti? La prima cosa da capire è proprio questa: per quale motivo a un certo punto l’inchiesta di Milano partita con l’arresto di Mario Chiesa sia diventata il processo al «sistema». Qualcuno, si dice, aveva interesse ad annientare l’intera classe politica al governo e sostituirla con un’altra. Chi? Perché?
L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha fatto parte di coloro che hanno creduto al complotto internazionale. In una delle sue ultime interviste, in occasione del suo ottantesimo compleanno1, Cossiga attribuisce alla Cia e agli Stati Uniti un ruolo importante sull’inizio di tangentopoli, così come sulle «disgrazie» di Craxi e anche di Andreotti. Proprio loro due, dice, «sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei». Ricorda anche che, dal 1992 in avanti, gli Stati Uniti sono stati governati da amministrazioni del Partito democratico, «le più interventiste e implacabili». Una ritorsione, dunque, giocata sullo scacchiere mediorientale, secondo me un po’ contraddittoria. Qualora, infatti, distrutto il pentapartito e non prevedendo l’inatteso arrivo di Berlusconi, avesse trionfato nel 1994 la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, gli Stati Uniti avrebbero di nuovo avuto interlocutori marcatamente filopalestinesi, come sempre sono stati gli esponenti della sinistra italiana. A maggior ragione essendo il Pci-Pds-Ds costretto a governare con la sinistra più radicale, per poter avere una maggioranza, come hanno dimostrato le tante difficoltà dei due governi Prodi. A meno che gli Stati Uniti non avessero messo gli occhi proprio sull’area cattolica dossettiana rappresentata dall’ex Presidente dell’Iri. Ma anche in questo caso avrebbero dimostrato di non conoscere bene gli affari interni al nostro Paese, le nostre leggi elettorali e la possibilità di costruire maggioranze che avessero la speranza di poter governare senza alleanze allargate.
Un altro personaggio significativo della Prima Repubblica, l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, ha elaborato in modo più accurato la sua teoria su Cia e Stati Uniti, tanto da parere ben informato sulla «manina americana». Racconta2 che il «complotto» iniziò proprio nel 1992, la data fatidica di Mani pulite. In quei giorni il capo della Cia, Woolsey, tenne una conferenza in California e spiegò che l’amministrazione Clinton aveva disposto un vero spionaggio industriale per difendere le imprese americane nel mondo. In quel periodo, dice ancora Cirino Pomicino, a Milano sbarcò l’agenzia privata di investigazioni Kroll. E fu così che, attraverso le aziende, gli americani raccolsero corposi dossier sul finanziamento illecito e illegale ai partiti, ma anche su singoli casi di corruzione. Il capo della Cia fece sapere al suo governo che c’era la possibilità di far scoppiare scandali in Europa, se fosse servito. Resta da capire meglio quale fosse l’interesse degli americani in quel momento, oltre al fatto che fossero indispettiti fin dai tempi di Reagan per la guerra di Sigonella e la resistenza del governo italiano (non a caso guidato dal presidente del Consiglio Craxi e con ministro degli Esteri Andreotti) oltre che per la questione di Israele e dei palestinesi. Nell’analisi di Cirino Pomicino non esiste solo l’Italia, ma anche ad esempio la Gran Bretagna, dove «la Tatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro», oltre che una certa attenzione ai problemi avuti da Chirac in Francia e Kohl in Germania. Resta il fatto che, secondo l’ipotesi del «complotto internazionale», in quel momento sarebbe stata scelta l’Italia, come luogo dove far scoppiare lo scandalo. L’ipotesi è interessante, e anche le motivazioni che avrebbero determinato i fatti. Il punto debole è la strategia che gli americani avrebbero avuto sul «dopo». Chi assaltò il Palazzo d’inverno, chi prese la Bastiglia aveva un progetto per il giorno dopo la rivoluzione. I servizi segreti americani avevano dunque un accordo con Occhetto? Oppure con quei «poteri forti» che cercavano la discontinuità e che non ameranno mai Berlusconi, trattato sempre come un Maradona, geniaccio arrivato d’improvviso dalle favelas?