Il protezionismo non è il male assoluto, Gianni Petrosillo

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C’è un testo molto interessante di Paul Bairoch del 1993, Economia e Storia mondiale, che mi sento di consigliare. Il saggio dell’economista belga smonta, come dice il sottotitolo, i miti e i paradossi delle leggi dell’economia che impropriamente tradiscono la scienza, convertendosi in ideologia o falso senso comune. Uno su tutti quello del protezionismo visto come causa di arretramento se non addirittura quale anticamera di conflitti, anche mondiali. È il solito mantra della scuola liberista che occorre demolire. Dati alla mano Bairoch dimostra, innanzitutto, che non è sempre vero che sono gli scambi a determinare la crescita, anzi può essere proprio il contrario, ovverosia è la crescita (meglio sarebbe parlare di sviluppo) a favorire gli scambi ma, soprattutto, lo studioso evidenzia che, essendo le politiche economiche protezionistiche orientate a difendere imprese strategiche o ad alto impatto industriale, la conversione del modello produttivo che ne scaturisce migliora le performance del sistema produttivo in generale stimolando quindi anche gli scambi. Insomma, i numeri dimostrano che sotto il protezionismo, determinate compravendite internazionali, di prodotti ad alto valore aggiunto (e non solo), aumentano anziché decrescere. Bairoch però si spinge oltre e fa capire che nel trend storico da lui considerato che abbraccia quasi due secoli, il protezionismo è stato la norma nei paesi mentre il cosiddetto liberismo viene da lui definito un’isola circondata da questo mare nelle varie epoche. I paesi più inclini al liberismo sono quasi sempre quelli dominanti a livello economico ed industriale ( vedi l’Inghilterra del XIX secolo, o gli Stati Uniti del XX-XXI, quest’ultimi hanno abbandonato, almeno a parole, il loro iperprotezionismo esclusivamente quando hanno conquistato la supremazia mondiale) oppure quelli totalmente sottomessi (come le colonie o le ex colonie che restano ugualmente dipendenti dalla madrepatria anche dopo il processo di decolonizzazione, e il cosiddetto terzo mondo).
Importantissimo allora che questo ragionamento conduca Bairoch a far risaltare la figura di un economista come List, ripreso anche negli studi di Gianfranco la Grassa (Finanza e poteri, Manifestolibri, libro che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi List oltre Marx, però l’editore decise per un titolo differente) e che entrambi gli studiosi giungano a riflessioni simili. Mi piace qui riportare i due passi, tratti da La Grassa e Bairoch che segnalano dette relazioni:

La Grassa, Finanza e Poteri:

‘List è considerato il predecessore della scuola storica in economia, ma si tratta di tesi ampiamente contestata da altri e, secondo la mia opinione, con ragione. Così pure, alcuni vedono in lui un inizio di teorizzazione degli stadi di sviluppo, ma anche in tal caso mi sembra ci siano delle forzature. Diciamo che Adam Smith distingueva molto sommariamente nella storia della società una “fase originaria che precede l’appropriazione della terra e l’accumulazione del capitale” (la società rude e primitiva di cacciatori di cervi e di castori), in cui “tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore”, e una fase successiva, e per lui definitiva, che è quella della società dello scambio mercantile, dell’appropriazione della terra e dell’accumulazione del capitale, in cui il prodotto si distribuisce in salario, rendita e profitto. List appare più articolato a proposito dei diversi gradini di sviluppo di una nazione, ma per un semplice motivo: come sostenne giustamente Mori nella sua introduzione al Sistema nazionale ecc., Smith forgia lo strumento teorico (e ideologico) adatto al primo paese postosi sulla via dell’industrializzazione, mentre List lo fornisce ai second comers, con particolare riguardo alla Germania, ma certamente con un occhio rivolto anche agli USA (un bel po’ dopo vi si aggiunse il Giappone e in seguito, via via, altri ancora fra cui il nostro paese).
List, come ho già rilevato, non contesta in toto la teoria del libero commercio internazionale; ed è probabilmente per questo che non prende in specifica considerazione la ricardiana teoria dei costi (e vantaggi) comparati giacché in fondo l’accetta con una piccola modifica: prima di arrivare ad un effettivo libero scambio tra i vari paesi, che sia profittevole per tutti i partecipanti, è necessario pas-sare per un periodo intermedio in cui questi ultimi abbiano potuto raggiungere lo stesso grado di sviluppo industriale del first comer; altrimenti è da “temere che le nazioni più forti usino lo stru-mento della ‘libertà di commercio’ per ridurre in stato di dipendenza il commercio e l’industria delle nazioni deboli”. Va intanto rilevato che tesi del genere si dovevano scontrare, già in Germania (come negli USA), con le classi dominanti di tipo mercantile e agrario, interessate al libero commercio così come lo intendeva la scuola classica inglese: alla Gran Bretagna la specializzazione in manufatti industriali (da esportare in tutto il mondo), agli altri paesi l’assicurazione di uno sviluppo dell’agricoltura e delle miniere – implicanti una concomitante espansione del settore commerciale – indispensabili a fornire al paese industriale le derrate alimentari e le materie prime necessarie, ma con ampie ricadute utili anche per mercanti e proprietari terrieri degli altri paesi.
List si opponeva a questa concezione, che individuava correttamente come la consacrazione della dipendenza di tutti i paesi rispetto all’Inghilterra. Tuttavia, l’indipendenza nazionale che egli pro-pugnava, legata all’impulso da imprimere al potenziamento delle industrie nascenti, non andava oltre i paesi della cosiddetta zona temperata; poiché “per quanto riguarda la produzione industriale è evidente che tutti i grandi popoli della zona temperata, quando sono assecondati dalla loro condi-zione intellettuale, morale e politica, vi sono ugualmente portati ed ugualmente adatti”. Diversa sa-rebbe la condizione di quelli delle aree calde o torride, cui sarebbe spettato, con pieno rispetto delle tesi ricardiane (all’Inghilterra i manufatti tessili, al Portogallo il vino), di dedicarsi alle produzioni agricole e minerarie; tali paesi, sosteneva infatti List, “faranno meglio per il momento ad occuparsi esclusivamente di agricoltura, ammesso tuttavia che siano in grado di esportare liberamente e senza intralci i loro prodotti negli stati industriali e che non ostacolino l’importazione di prodotti industriali fissando dazi elevati”.
I paesi venivano quindi divisi in “industrializzabili” e in necessariamente – per ragioni ambientali, climatiche e culturali – obbligati alle produzioni “altre”, di fatto complementari allo sviluppo industriale (e quindi allo sviluppo tout court) dei primi. Credo, innanzitutto, che si possa vedere in questa divisione l’embrione di una possibile teoria dell’imperialismo, identificato con il colonialismo. Si impone quindi qui una interessante digressione, non prima di aver ricordato ancora una volta che secondo List, quando si fossero infine sviluppati uniformemente in termini industriali i paesi dell’area temperata (oggi diremmo quelli capitalisticamente avanzati del primo mondo), sarebbero dovute cadere le barriere doganali tra di essi creando così una larga area di libero scambio, secondo quanto sosteneva la scuola classica inglese (che avrebbe solo voluto anticipare i tempi, onde favorire quella che List indicò subito come nation prédominante dell’epoca).’

Bairoch, Economia e Storia mondiale:

‘Il protezionismo per List ( e per la corrente principale della scuola protezionistica) non era un obiettivo in sé ma una politica temporanea con lo scopo di consentire ad un paese di edificare una economia robusta attraverso l’industrializzazione. Qui sta il punto principale: un paese deve industrializzarsi senza essere soverchiato, nelle prime fasi di questo processo, dalla concorrenza di più mature industrie straniere. Perciò dovrebbero essere prese in considerazione le esigenze di ciascun paese, e soprattutto il suo livello di sviluppo. Anche se la fase protettiva comporta risultati negativi, questi dovrebbero essere considerati come costi di apprendimento del l’industrializzazione. È quella che fu chiamata più tardi la tesi delle “industrie bambine”. Per List, una volta che le industrie fossero cresciute a sufficienza per sostenere la concorrenza internazionale, il libero scambio sarebbe diventato la regola. Era anche convinto che l’industrializzazione fosse possibile solo nelle regioni temperate, e che i paesi tropicali dovessero concentrarsi sulla produzione di beni primari di cui avevano un monopolio naturale (e su questa conclusione di List possiamo ben dissentire perché il diritto ad industrializzarsi coincide con l’autonomia e la sovranità una nazione che non vuole subire la forza altrui)’.

Avremmo tanto da imparare da queste suggestioni, in un Paese come l’Italia dove i tromboni del liberismo hanno sostenuto tesi ideo(dietro)logiche a supporto di svendite di tesori statali e aperture indiscriminate dei nostri mercati che hanno sopito delle eccellenze industriali. Ciò non significa però che la protezione del Made in Italy (brutte parole inglesi che nascondono una sottomissione persino linguistica) debba riguardare prodotti agricoli o beni di rivoluzioni industriali passate e ormai obsolete (auto, salotti et similia). No, questo è servilismo mascherato da sovranismo. Quindi altro che riso o nutella. Lo stesso List raccomandava di lasciare agire liberamente il mercato nel settore agricolo. Il fattore determinante deve essere la difesa dell’industria strategica, nascente o consolidata. Così i Paesi assurgono alla potenza in ogni campo sociale e possono affrontare le crisi e i cambiamenti della storia

Spero di essere stato stimolante anche se, per motivi di spazio, pochissimo esaustivo.

Dunque, i miei consigli di lettura per le feste di Natale.

La Grassa, Finanza e Poteri, manifesto libri.

Bairoch, Economia e Storia Mondiale, Garzanti

nonché naturalmente l’ultimo uscito di La Grassa, da me introdotto, Denaro e forme sociali, di Avatar