Il segnale (di Rita Simonitto)
Il segnale
Beh, un segno se lo sarebbe aspettato. Era una vita che aveva speso in quell’attesa. Molte scelte non fatte, altre invece fatte per rispondere alle emergenze di sopravvivenza. E quel segnale che non arrivava mai.
Ma perché adesso questa urgenza? Niente di preciso, in effetti. Era solo un clima di inquietudine che lo faceva sentire a disagio e, nello stesso tempo, avere la percezione del bisogno urgente di essere affiancato da una guida sicura. Era ciò che auspicava e desiderava maggiormente: ne andava della sua esistenza.
Era pervaso anche da un pensiero – se così si poteva chiamare quel rincorrersi di onde chimico-elettriche che lo attraversavano – e cioè che lui era soltanto una ‘parte’, un ‘tratto’ di qualche cosa di cui lui non aveva cognizione mentre avrebbe desiderato averla. Voleva sentirsi una creatura, degna di tale nome.
Cercava di prendere esempio da suoi parenti, più o meno prossimi ma comunque ‘consanguinei’, i quali cercavano di dare continuità alla loro esistenza cambiando continuamente aspetto onde non farsi riconoscere, farsi trovare ed essere sconfitti.
Ma alla fine quella mossa che sembrava essere così astuta non dava certo i risultati attesi. Era come se si dovesse ricominciare sempre da capo.
Sinceramente, non era ciò che voleva, oltretutto considerando gli sforzi implicati nel doversi mascherare continuamente!
Anche se a detta di molti non veniva considerato granchè intelligente però una sua intelligenza comunque ce l’aveva, e certe connessioni, magari elementari, gli venivano bene, forse più che a tanti altri che con la loro saccenza ritenevano di non dover imparare nulla da nessuno.
Ed era su quella dotazione orientata alla ricerca che intendeva muoversi.
Però lo stesso aveva bisogno che gli arrivasse un qualche segno, altrimenti, dipendente com’era, sarebbe stato condannato a rimanere al palo di un vivacchiare alla giornata, senza alcun trionfo!
Ma ora era inutile perdersi in chiacchiere e nemmeno in pensieri elevati.
Primum vivere deinde philosophari. Si complimentò con se stesso per la citazione. Non era dunque del tutto scemo. E, d’altra parte, ne aveva di Storia alle spalle, bastava solo saperla tirare fuori al momento giusto, e non a sproposito come vedeva fare in giro! La memoria storica! Come se si trattasse sempre della solita solfa! No, no. La Storia non era un fossile che se ne stava lì immutato per sempre. Quella, tutt’al più, era una prerogativa di Dio (mentalmente si genuflesse per aver chiamato il nome di Dio invano!). La Storia cambia. Ci sono le mutazioni, i salti, gli “spillover” come aveva illustrato qualcuno, uno scienziato americano, se non ricordava male (*), nel parlare di quegli equilibri che saltano così che dopo il crash, dopo il traboccamento, si riprende un vigore diverso. Nuovamente si complimentò con sé stesso per la sua capacità di cogliere al volo citazione dopo citazione. Che figurone avrebbe fatto se lo avessero chiamato in un talkshow! Ma era più che certo che lì non l’avrebbero voluto. E già. Perché a volte la verità fa male, spiazza con la sua crudezza, meglio vivere, anzi sopravvivere, nell’inganno!
Si guardò attorno.
Tutto preso dai suoi pensieri che lo stavano occupando ormai giorno e notte aveva trascurato l’ambiente attorno a sé. Non si poteva dire che fosse un porcilaio, ma poco ci mancava. A qualcuno dei suoi conoscenti poteva andare bene, perché anche lì si trovava qualcosa da raspare su. Bastava non storcere tanto il naso! Ma non era aria per lui, lui aveva bisogno di ossigeno, di aria libera sulle cui ali avrebbe potuto viaggiare e muoversi da un continente all’altro. Respirare in grande, a pieni polmoni! Che sogno! Sogno!?
Respirare! Ecco qual’era il segno che aspettava: il respiro! Tutti per vivere hanno bisogno di respirare! Bastava trovarne tanti e lì, soprattutto se messi tutti vicini vicini: avrebbe trovato modo di pascolare saltabeccando dall’uno all’altro senza fare tanta fatica! Il loro respiro sarebbe stato il nutrimento del suo respiro.
Che meraviglia! E tutto senza dannarsi nella ricerca spasmodica di trovare quell’habitat che gli avrebbe permesso di continuare a vivere. Eureka!
Certo che gli passò per la mente che tutto quel ben di Dio (“Dio mi perdoni ancora una volta per averlo nominato invano”, si disse genuflettendosi e battendosi il petto) sarebbe un giorno terminato. Né più né meno di come terminano tutte le cose terrene. Ma intanto avrebbe continuato a vivere e alla grande … e poi ci sarebbe stato un altro spillover, un’altra mutazione e un’altra avventura sarebbe cominciata.
Così il Coronavirus fece uno studio approfondito non solo riguardo al veicolo che gli avrebbe permesso di viaggiare indisturbato, cullato dalle goccioline di saliva che come spruzzi di aerosol si accompagnavano a starnuti, attacchi di tosse, sputacchi vari, ma anche sul luogo dove avrebbe potuto esercitarsi.
Visto che erano caduti i principi che regolano le frontiere, che la globalizzazione aveva reificato la canzone anarchica in cui si cantava “nostra Patria è il mondo intero” (mutuata da un pensiero di L. A. Seneca (4 a.c.- 65 d.c.), anche se quel filosofo romano intendeva tutt’altro che elogiare l’anarchia, anzi raccomandava di non correre qua e là agitandosi in continui spostamenti, indizio di una poca tranquillità interiore) e che tutti, ma proprio tutti, sentivano il bisogno di assembrarsi, di stare appiccicati l’un l’altro, forse per paura della solitudine, i luoghi furono presto trovati.
Il resto è Storia.
(*) Spillover, L’evoluzione delle pandemie, di David Quammen (Adelphi Ed.)