SQUILIBRIO CONTRO EQUILIBRIO (fine novembre 2010)
di Gianfranco La Grassa
1. Nei modelli teorici si parte spesso da una presupposta situazione di equilibrio, che si sa bene servire soltanto da base per studiare poi i processi di non equilibrio. Ad es. Marx (libro II de IlCapitale, redatto da Engels sui manoscritti di Marx) prende le mosse dalla riproduzione semplice, con crescita nulla del sistema, che resterebbe di ciclo in ciclo sempre eguale a se stesso. Schumpeter immagina invece un flusso circolare, che in genere prevede una crescita ma sempre secondo eguale proporzione tra le varie parti del sistema. Nel modello marxiano dalla riproduzionesemplice si passa a quella allargata con il reinvestimento di una quota del plusvalore ottenuto da parte dei capitalisti/proprietari (dei mezzi produttivi, non certo di consumo); mentre dallo schumpeteriano flusso circolare si passa allo sviluppo grazie all’attività innovativa di specifici imprenditori.
Nella riproduzione allargata si può pensare alla semplice crescita, con allargamento del sistema produttivo secondo le medesime proporzioni dei vari settori o branche; allargamento consentito anche da una semplice accumulazione del capitaleinvestito secondo quote sempre percentualmente eguali in questi vari settori e senza un particolare processo innovativo o, quanto meno, con innovazioni di processo che innalzino la produttività(del lavoro) in modo uniforme nelle varie branche del sistema complessivo. Nello sviluppo in quanto fenomeno di rottura del flusso circolare è invece impossibile che non si verifichino processi innovativi di vario genere – fra cui le innovazioni di prodotto che complicano il reticolo intersettoriale – poiché è proprio la proporzione tra i vari settori ad uscirne alterata, con avanzamento di quelli interessati da innovazioni o addirittura del tutto nuovi a scapito degli altri più tradizionali (di passate epoche innovative, ormai divenuti di routine o maturi).
E’ però possibile affrontare il problema da una prospettiva diversa, in un certo senso opposta: presupporre lo squilibrio come processo fondante il sistema. Senza lo squilibrio in quanto basedell’analisi relativa all’evolversi di dati processi (ad esempio quello produttivo), non sarebbe possibile una corretta individuazione e valutazione prospettica circa il verificarsi degli stessi. Si badi bene: non si tratta affatto di una supposizione che pretenderebbe di riprodurre più esaurientemente la realtà così com’essa è. In ogni caso, il teorico è consapevole di stare“costruendo” mappe interpretative che con il “reale” intrattengono sempre un rapporto di ipotesi di certi andamenti con verifica dellestesse, correzione delle mappe mediante nuove ipotesi, e così via in un processo senza fine mai in grado di attingere la realtà così com’essa è. Tuttavia, si ritiene preclusa la strada di un’analisi che serva all’azione (alla pratica) nel mondo “reale” se non si pone all’inizio la presenza dello squilibrio.
E’ la strada percorsa da Lenin (non so con quale consapevolezza teorica) nell’analisi della fase imperialistica, assai poco produttivadi effetti “pratici” se non fosse stata basata sullo sviluppo inegualedelle diverse potenze capitalistiche (e imperialiste), tesi che in un certo senso assegna primaria rilevanza allo squilibrio. Proprio per questo, io credo, fu possibile la previsione circa l’“anello debole”della “catena imperialistica”; previsione che alimentò pure la grande duttilità del dirigente bolscevico nella prassi politica da lui seguita con la ricerca di alleanze tra raggruppamenti sociali (operai e contadini, soprattutto poveri) adeguate al fine di concentrare l’azione trasformativa (rivoluzionaria) su detto “anello debole”.
2. Per quanto non sia immediatamente visibile, il problema dell’alternarsi di epoche monocentriche e policentriche(l’imperialismo fu una di queste) può essere trattato con modalità assai diverse a seconda della priorità assegnata all’equilibrio o allosquilibrio nel “modello” teorico utilizzato per l’interpretazione della “realtà”. Vi sono correnti, penso alla scuola dell’economia-mondo (e annessi e connessi), che di fatto fondano l’analisi sul passaggio dal predominio di una grande potenza alla supremazia di un’altra (Spagna, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, solo come elementare esempio). I periodi di passaggio (policentrici), pur non studiati certo con modalità deterministiche, restano in definitiva subordinati a quelli (monocentrici) di preminenza di una nazione, di uno Stato, di un paese. L’attenzione del teorico è soprattutto attratta dalla potenza preminente, d’epoca in epoca, e questo non può non influenzare la ricostruzione storico-teorica delle epoche di transizione che, appunto, non è la riproduzione della realtà così com’essa è, ma solo un’interpretazione in grado poi di promuovere, sia pure tramite molte mediazioni, una determinata prassi oppure un’altra, ecc.
Non è chi non si accorga che l’epoca monocentrica corrisponde, grosso modo, a quella detta da Kautsky ultraimperialistica. In effetti, la potenza predominante ha – e non solo per ragioni economiche, ma di assai varia natura (quindi anche politico-militari, ideologico-culturali, ecc.) – possibilità di realizzare una certa regolazione dell’insieme. Chi analizza l’epoca di una predominanza – fosse anche limitata ad un’area mondiale, come lo fu la supremazia del capitalismo statunitense tra il 1945 e il 1989-91 nel mondo detto “occidentale” – ha l’impressione di un qualche ordine esistente in quell’area; non a caso si suppose, nel periodo storico considerato, la fine delle “grandi crisi” capitalistiche e l’affermarsi, pur nel “libero” mercato, di una economia regolata, in potenziale continuo sviluppo solo interrotto da brevi crisi sistemiche (recessioni), tutto sommato normali e controllabili.Non vi è dubbio che il mondo bipolare – la Cina vi restava estranea, malgrado la rilevanza del suo peso politico – è stato la fonte di questa interpretazione.
Esisteva, da una parte, il “socialismo” – per i suoi critici un mondo comunque ostico da decifrare, tanto da semplificarsi il compito con l’ormai evidentemente errata tesi del “capitalismo di Stato” – e, dall’altra, il capitalismo tout court, che veniva criticato e magari combattuto, ma sempre a partire dalla sua considerazione quale blocco unico; o visto (questo l’errore più grave, ancora perdurante in cervelli poco pensanti) come transnazionale o subordinato al centro regolatore statunitense. Non appena uno dei “poli” crollò e sembrò essere riassorbito nel sistema complessivo, ci fu chi pensò ad un’epoca imperiale (dominata dagli Usa) di durata indeterminata, chi invece preconizzò il declino di questo paese, subito passando però ad immaginare quale sarebbe stata la nuova potenza predominante: prima fu il Giappone, errore marchiano, poi si è scommesso sulla Cina. Che questa lo diventi fra alcuni decenni oppure no è proprio ciò che interessa di meno. L’importante è capire – via ipotesi aperte all’errore/verifica/correzione in un processo ininterrotto – come si andrà atteggiando lo sviluppo ineguale nella nuova epoca che sarebbe per il momento meglio definibile come multipolare.
Spero non ci sia bisogno di spendere altre parole affinché il lettore attento afferri le maggiori possibilità di incorrere in errori(da correggere poi con grande difficoltà), accettando l’idea che l’aspetto fondamentale dell’evolversi degli eventi storici sia rappresentato dal monocentrismo, versione (internazionale) della priorità analitica dell’equilibrio. Mentre lasciare in sospeso quale sarà la nuova potenza che dovrà sostituire gli Stati Uniti in declino (proprio inarrestabile? Per il momento sembra di sì pur rimanendo la più forte) vuol dire porre in primo piano, anche dal punto di vista metodologico, le epoche multipolari, cioè le fasi dello squilibrio. Da questo squilibrio, che è lo sviluppo ineguale, si originano – certamente dopo opportuna maturazione del processo – le crepe in grado di fessurare il sistema in dati punti (non prevedibili all’inizio del processo, che non è deterministico, maprevalentemente caotico): gli anelli deboli di una catena di rapporti internazionali come definiti da Lenin.
Ecco perché sistemi teorici, tipo quelli dell’economia-mondo,vanno a mio avviso superati. Non dico che non abbiano avuto i loro meriti; e che non possano essere ancora utili in singoli punti dell’analisi, in specie empirica. Tuttavia, è l’impostazione generale che va accantonata. Oggi deve prevalere l’attenzione per le epoche multipolari, cioè per lo squilibrio come prioritariorispetto all’equilibrio. Lo ribadisco: non prioritario semplicementeperché più vicino alla “realtà”, ma soprattutto perché abbiamo bisogno di seguire le alterne vicende mondiali – con i lenti o rapidi mutamenti di presunti “equilibri” (dei rapporti di forza) –riassunte nella denominazione di sviluppo ineguale dei diversi paesi capitalistici, senza più concessioni a coloro che blaterano di fine degli Stati nazionali, cioè di fine delle potenze proprio mentre alcune sono in crescita e ci si avvia intanto al multipolarismo, fasestorica che in genere sfocia poi nell’epoca del policentrismoconflittuale acuto (tipo guerre mondiali ad es.).
3. Puntare sulla priorità dell’equilibrio, e dunque delle fasi di monocentrismo, ha ulteriori effetti negativi. Indubbiamente Lenin, tutto preso dalle necessità della fase storica in cui visse e in cui riuscì con il gruppo dirigente bolscevico ad approfittare della rottura della catena imperialistica nell’anello debole russo, non poté portare a compimento la necessaria “rivoluzione” anche in campo teorico. La tesi dello sviluppo ineguale si arrestò alle soglie di quest’ultima in omaggio alla pretesa del dirigente bolscevico di essere l’ortodosso del marxismo in lotta contro il revisionismo kautskiano (socialdemocratico), mentre era proprio il contrario, essendo lui l’effettivo revisionista. Solo che Lenin non volle rischiare di esserlo per eccellenza e così si fermò a mezza via(ovviamente non si trattò di scelta consapevole; diciamo pure, per semplificarci i compiti, che “i tempi non erano maturi”).
Resta il fatto che la tesi dell’imperialismo quale ultimo stadiodel capitalismo gli precluse l’altra “mezza via”. Per molto tempo, imarxisti hanno cercato infantilmente di sostenere che “ultimo” non significava finale, bensì ultimo in ordine di tempo. Non èvero, ogni marxista ha sempre stabilito analogie tra l’organismo sociale e quello biologico, con le sue fasi di nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia e infine morte per rinascere in altra forma.L’imperialismo è stato sempre trattato quale senescenza, vecchiaia, del capitalismo. L’errore fondamentale non era però questo; non a caso ho sottolineato “stadio” e non “ultimo”. Era necessario abbandonare proprio l’idea degli stadi. Negli anni ’90 e inizio di questo secolo, ho più volte formulato la tesi dellericorsività e non degli stadi, per evitare di pensare sempre alla fine di date formazioni sociali in una visione unilineare dell’evoluzione storica, tesa ineluttabilmente verso le ben note “magnifiche sorti e progressive”.
In realtà, la ricorsività andrebbe meglio intesa quale fase di transizione a nuove forme dei rapporti sociali, senza però pensare alla fine di una sorta di capitalismo sempre considerato nella forma analizzata da Marx e che riguarda soltanto il capitalismo inglese (quello borghese) al suo apogeo nella fase monocentricada esso dominata. Va data priorità allo squilibrio, che persiste anche durante l’epoca della predominanza centrale di una data potenza, squilibrio che “lavora” il sistema apparentemente “regolato”. Il suo lavorio appare “in superficie” nelle crisi “sistemiche” sia pure di non drammatica intensità. Alla fine esso inizia a dissolvere la coesione tra le varie parti del sistema (in definitiva le diverse formazioni particolari, i paesi, nazioni, ecc.);e ci si avvia allora verso la fase multipolare dove il conflitto, sempre unito (ma in funzione subordinata) all’alleanza e cooperazione (appunto per la conduzione del conflitto), diventa via via più acuto fino alla necessità della resa dei conti – policentrismo conflittuale acuto – tra blocchi di “alleanze”, stabilite per pura convenienza e che quindi lasciano sempre sussistere la tensione che è squilibrio.
Tuttavia, le ricorsività di mono e multipolarismo/policentrismoappaiono nelle loro forme più generali, ma ogni fase multipolare(di crescente acuirsi dello squilibrio) è anche di specifica transizione ad una nuova forma dei rapporti sociali. L’epoca definita dell’imperialismo – grosso modo tra guerra franco-prussiana (1870-71, che vede alla fine del confronto bellico la nascita della Germania) e prima guerra mondiale (1914-18) – fuinfatti passaggio dalla supremazia del capitalismo borghese (di matrice inglese) a quella della formazione sociale dei funzionari del capitale specificamente caratteristica degli Stati Uniti; passaggio completatosi con la seconda guerra mondiale (1939-45).Per vari motivi piuttosto economicistici, di rilevanza delle forme del mercato e dell’impresa nel sistema produttivo, parliamo sempre di capitalismo, tuttavia cominciando almeno a declinarlo al plurale (i capitalismi). Adesso, la fase multipolare in cui siamo ormai entrati è di fatto una nuova transizione le cui forme, ancora trattate da capitalismo, diverranno assai mobili e soprattutto mal conosciute per una fase storica non breve. Sembrano attualmente in gioco soprattutto il capitalismo statunitense (detto manageriale, ma da me definito dei funzionari o, ancor meglio, strateghi del capitale) e i sistemi sociali delle formazioni particolari russa e cinese, tutto sommato risultato – pur attraverso le complesse vicende di quasi un secolo e con l’estensione territoriale in paesi e quindi società diverse – della Rivoluzione d’ottobre, che si conferma perciò, ma con modalità di impossibile comprensione mediante il marxismo ossificato, un evento storico di rilevanza abbastanza simile a quella della Rivoluzione francese del 1789. La prima non ha mai dato nemmeno inizio – oggi lo dobbiamo finalmente capire – alla sedicente “costruzione del socialismo”; la seconda, però, non ha certo minimamente realizzato le conclamate liberté, égalité, fraternité. Restano comunque punti di svolta storica di evidente decisività.
Quando, liberatici infine degli “ismi” del XX secolo ancora per null’affatto superati, riusciremo a capire meglio le transizioni rappresentate dalle fasi multipolari/policentriche – e in particolare quella fondamentale tra capitalismo borghese e formazione socialedegli strateghi del capitale, realizzatasi tra ultimi decennidell’ottocento e prima metà del novecento, giacché quella attuale è in fondo agli inizi – saremo pure in grado di decidere se vale ancora la pena di usare il termine capitalismo (declinato però al plurale) oppure se, superando l’economicismo dettatoci dalle forme mercantili e imprenditoriali, ci si dovrà decidere per una diversa opzione. Non è però questo il problema che ci assilla oggi. Si deve cominciare con il superamento di teorie vergognosamente cristallizzate, sterili, ormai giocattoli per bambini utilizzati da adulti che si limitano ai birignao della loro infanzia.
A questo serve la tesi della priorità dello squilibrio, non a pretendersi capaci di riprodurre la realtà così com’essa è. La marxiana “riproduzione del concreto nel cammino del pensiero” (Introduzione del 1857) lasciamola tra le ipotesi (teoriche) di 150 anni fa; importante ma che va a mio avviso riposta in un suodegno posto nella storia del pensiero scientifico. E’ chiaro il discorso o si devono sempre ripetere le stesse cose? Certo molti continueranno a non voler accettare tesi del genere di quelle che sto qui formulando; pazienza, resto fermamente convinto di quanto sto esponendo.
4. Ancora alcune considerazioni conclusive. Bisogna ben capire il senso della priorità dello squilibrio. Nessuna menzogna relativa al fatto che saremmo più vicini alla Verità (o almeno alla verità) rispetto a coloro che partono dal presupposto “iniziale” dell’equilibrio. La scelta è solo relativa alla maggiore utilità dellostrumento interpretativo (del passato) e di previsione atta a sviluppare una determinata prassi (politica), che non ne discende tuttavia in modo immediato e con filiazione diretta. Lunga, anche in termini temporali, è la catena dei passaggi intermedi tramite i quali si sviluppa il processo di ipotesi/prova/errore/nuova ipotesi, ecc. Lo squilibrio, inoltre, vieta di pensare ai secoli futuri poiché ci obbliga ad accorciare il tiro dei nostri “obici teorici”. In più, ci impedisce di fissarci su una sola conclusione – ad esempio, quale sarà la nuova potenza centrale, predominante: il Giappone, poi la Cina, ecc. come si fece alla caduta del “polo socialista” del 1989-91 – poiché l’importante è seguire l’evoluzione dello sviluppo ineguale assai più da vicino, con atteggiamento di grande flessibilità e adattamento a situazioni estremamente mutevoli, quali sono quelle dell’odierna fase multipolare.
Vi è però un cambiamento ancor più sostanziale, che esito a definire metodologico, termine che mi sembra assai limitativo.Chiamatelo come volete. Se si parte dalla riproduzione semplice, dal flusso circolare, ciò che viene pensato come passaggio a quella allargata o alla innovazione di prodotto lo è sempre quale attività razionalmente tesa ad uno scopo di efficienza, di “economico” impiego delle risorse. Una parte del plusvalore viene reinvestita (accumulata), ma seguendo il criterio del conseguimento del massimo profitto, il che implica l’applicazione del principio del minimo mezzo o massimo risultato (cioè minimo costo o massimo ricavo). L’innovazione implica creatività, ma sempre in vista dello stesso risultato. Il tentativo di alcuni scadenti (non) scienziati di complicare il discorso per avvicinarsi alla “vera realtà” è ben peggiore. Ad esempio, l’esistenza della “razionalità limitata”, della non trasparenza assoluta dei mercati, ecc. è semplicemente la solita manfrina di coloro che a Galilei avrebbero obiettato: ma dove mai esiste un moto senza attrito, da potersi definire “rettilineo uniforme”? A simili effettivamente limitati pensatori hanno anche assegnato premi Nobel, ma tanto sappiamo meglio adesso come questi vengono vinti (magari “per la pace” scatenando guerre e massacri). Non badiamoli nemmeno, non sanno uscire dal vero errore commesso nel valutare il carattere del capitalismo, forma particolare di una “storicamente determinata”formazione sociale.
Naturalmente, si tiene conto che il massimo profitto (come quello invece conseguibile in presenza di “attriti”) è ottenuto in una competizione (lotta) concorrenziale; tuttavia, quest’ultima èsecondaria (logicamente) rispetto al fine prioritario del profitto, è dunque un mezzo, obbligatorio nella forma capitalistica dei rapporti sociali (però di produzione), per raggiungere la finalità suprema del capitalista proprietario dei mezzi produttivi. Ecco allora che – presupponendo vera la tesi marxiana della dinamica capitalistica che condurrebbe alla scissione della società in una classe proprietaria di ormai sostanziali rentier, da una parte, e nella classe dell’intero corpo lavorativo produttivo (“dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”) in grado di controllare i mezzi di produzione, dall’altra – diventerebbe possibile pensare alla continuazione dell’impiego della razionalità produttivacapitalistica anche nel comunismo. Il “Robinson collettivo” (così definito proprio da Marx nel primo capitolo de Il Capitale, paragrafo sul “feticismo della merce”) utilizzerebbe ancora il principio del minimo mezzo per l’utilità sociale complessiva. La produzione potrebbe essere pianificata dall’insieme dei produttori in possesso dei mezzi produttivi in base allo stesso principio posto in primo piano dalla scienza economica dei dominanti, solo che in quest’ultima riguarda soltanto il singolo capitalista proprietario in competizione con i suoi “simili”.
In fondo, il “Robinson collettivo” utilizzerebbe i mezzi scarsi –adibiti alla produzione dei diversi beni utili a soddisfare i vari bisogni stabiliti dalla collettività con decisione comune – appunto in base al principio del minimo mezzo; almeno fino a quando non si fosse realizzato il pieno comunismo, che implicherebbe la fine della scarsità dei beni in relazione ai bisogni. Una volta eliminato il controllo “individuale” (anche di gruppi di capitalisti evidentemente) dei mezzi produttivi, l’uso di questi (e i bisogni da soddisfare tramite i beni con essi prodotti, utilizzando la forza lavoro fornitrice del pluslavoro/plusvalore) non dipenderebbe più dalle decisioni di singoli “individui” in base al massimo profitto (con tutte le limitazioni possibili dovute agli “attriti”).
Da simili distorte concezioni sono poi dipese le improprie conclusioni sugli extraprofitti di monopolio, in teorie che eliminano anche gli squilibri (secondari) legati alla competizione concorrenziale; e le altre concernenti il detestato consumismo, anch’esso imposto da quelle cattivone di imprese monopolistiche, magari multinazionali, ecc. Banalità su banalità, ancora diffuse con “sapienzialità” da sciamani premiati quali grandi pensatori sociali, mentre sono vecchioni (anche quando giovani d’età)rimbambiti pagati dai media di una classe dominante ormai degenerata nell’ambito della formazione dei funzionari/strateghidel capitale, forse arrivata alla sua senescenza; se così fosse, o gli Stati Uniti muteranno, nella prossima transizione policentrica, formazione sociale o declineranno di fronte alle nuove in avanzata.
Porre in prima posizione lo squilibrio spazza via tutta questa cianfrusaglia ormai odorante di stantio e perfino di putrefazione. Il profitto (plusvalore) è mezzo, non fine. Quest’ultimo è la supremazia, che viene raggiunta tramite un conflitto permanente (che sempre esige le alleanze tese a tale scopo), in cui si usa in prevalenza il “calcolo” strategico, differente per natura da quello di efficienza, di economicità. Se è possibile, e fin quando possibile, viene certo usato questo criterio calcolistico del minimo mezzo, ma solo se non contravviene alla conquista della supremazia tramite uso delle strategie di conflitto. E tali strategie appartengono al campo generale della Politica; sia che vengano impiegate nella sfera propriamente politica (Stato, partiti, ecc.) o invece economica o culturale, e in ogni dove si esplichi azione umana. Il capitalista non è il mero proprietario, è lo stratega; ciò era già in parte implicito nella teoria manageriale di Burnham (il più avanzato conoscitore della nuova formazione capitalistica affermatasi negli Usa), ma ancora con riferimento predominante alla sfera economica e restando invischiati nella problematica della lotta tra management e proprietà, in cui il primo avrebbe infine prevalso definitivamente; mentre invece le formegiuridiche, in auge nella mera sfera economica, possono essere congiunturalmente variabili perché il conflitto – nella sua realedimensione di strategia per conquistare la supremazia nella società nel suo complesso (a “più sfere”) – è l’elemento generalee cruciale.
Un simile mutamento (di paradigma? Definitelo come volete) comporta il completo rivolgimento dell’intera prospettiva teorica; sia delle teorie dei dominanti sia di quella marxista, da cui il sottoscritto prende le mosse per il semplice motivo che questa è lateoria da me coltivata lungo tutta una vita. Come sempre ho detto,esco da Marx; e la porta di uscita non ha nulla di “innocente”, segna anche il percorso da compiere una volta usciti. Quando si èfuori, tuttavia, non si può più tornare dentro, perché si sente la puzza di chiuso, di vecchie scartoffie e mobili tarlati. Ho scritto al proposito ormai vari libri, in cui è già visibile una serie di non indifferenti cambiamenti teorici. Si deve però andare ben piùavanti; e non servendosi più del solo Marx. E nemmeno del solo Lenin. Andremo avanti, almeno lo spero. Qui volevo solo far notare che questi mutamenti teorici dipendono pure dal rovesciamento della priorità tra equilibrio e squilibrio. E tanto basti, al momento.