La tecnocrazia non esiste
La supremazia della tecnica sull’uomo è un tema ricorrente del secolo passato e di quello in corso. Forse viene da ancor prima che nascesse la tecnica moderna (vi consiglio il breve romanzo “il più grande uomo scimmia del pleistocene”). Da Heidegger in poi è stato lanciato l’ennesimo allarme filosofico che annuncia la fine dell’umanità, per come l’abbiamo sempre conosciuta, a causa dell’inadeguatezza e “antiquatezza” di quest’ultima, al cospetto di apparati tecnici complessi, articolati e molteplici (tanto da divenire persino oscuri per il singolo intelletto, perché esito di intelligenze plurime) i quali, tuttavia, velocizzano le operazioni della vita, svolgono fatiche e funzioni al posto degli uomini o al loro fianco, ma che, secondo i filosofi, la fagocitano e la espellono come un residuo, approfondendo la sua alienazione. La contraddizione è già evidente. Alienazione rispetto a cosa? Ad una natura primigenia? Ad uno stato di natura che è un mito dell’origine? La tecnica serve all’uomo e non viceversa, quindi noi non siamo servitori della tecnica, benché gli individui, presi singolarmente, possano sentirsi sovrastati e usati dai sistemi tecnici avvertendone una sensazione di minorità psicologica. L’operaio di Charlot che veniva trascinato negli ingranaggi e stritolato dagli stessi è una figurazione ormai arcaica perché l’evoluzione tecnica medesima ha garantito nuovi e ulteriori miglioramenti, i quali hanno trasformato le fabbriche, garantendo condizioni di più elevata sicurezza, salubrità e risparmio di energie vive. Non voler vedere questi sviluppi e procedere evidenziando esclusivamente la sproporzionalità tra macchina e singolo soggetto, anziché mettere in luce i vantaggi collettivi ottenuti, è operazione fatta in malafede da parte di intellettuali, loro sì, sovrastati da piccole idee e mastodontici pregiudizi.
Leggo su La Verità un articolo de “Il Pedante” il quale scrive:
“La tecnocrazia è uno sterzo che guida, una scarpa che corre, ultimamente una scienza che parla, è la misera licenza della miseria progressista, di un cammino (gressus) che si dice proiettato in avanti (pro) senza però darsi la pena di distinguere il davanti dal dietro, l’alto dal basso, la tecnica di Hiroshima da quella di Fleming…La digitocrazia contemporanea si specchia nell’informatica e nella telematica per attingervi non soltanto i mezzi, ma prima la visione e lo stile. Immagina le comunità come macchine da programmare, dischi vergini su cui far «girare» le istruzioni della norma giuridica, e i decisori pubblici come onnipotenti admin di sistema che possono accedere a tutti i file, anche i più critici e delicati, per sovrascrivere consuetudini, mentalità, diritti e costituzioni con la bacchetta magica di un click. L’affondo del silicio nella carne produce ferite e sepsi”.
Questa è la narrazione di una narrazione perché non esiste una tecnocrazia come quella descritta, se non come racconto ideologico che tale sedicente tecnocrazia può fare si sé stessa o come discorso oppositivo dei suoi detrattori, i quali volendo contestarne i dettami li determinano. E’ la solita opposizione antitetico-polare tra pensieri capovolti che si sorreggono a vicenda.
La tecnica non genererà mai una tecnocrazia per il suo animo particellare e settoriale che, tutt’al più, concepisce millanta corporazioni di esperti e specialisti, concentrati sui loro campi, i quali sanno quasi tutto del loro ambito e quasi nulla di quello viciniore. Uno o più tecnici che vengono cooptati o scelgono di propria sponte la politica, come accade volentieri dalle nostre parti, non fanno la tecnocrazia e spesso nemmeno la politica. Diventano meramente dei servitori di menti e contesti ben più potenti di quelli tecnocratici. Una composizione politica di simile tipologia tecnocratica, atta ad inglobare tutto il potere sociale, è dunque un logaritmo giallo.
Bisogna capire bene cos’è la tecnica per non farsi intimorire dai lasciti di cervelli eccelsi che purtroppo a volte si sono impigriti o per non farsi irretire dai blateramenti dei finti filosofi odierni, i quali speculano sulla credulità generale per intenti poco nobili e troppo suggestivi. I veri pensatori sono quelli che rifuggono gli slogan e le soluzioni facili (non quelle semplici che sono sempre difficili) e lasciano lavorare il cervello invece del sedere. Esattamente come quello di cui riporto la sottostante citazione:
“….quando l’uomo non può soddisfare i bisogni della sua vita, poiché la natura circostante non gli fornisce i mezzi indispensabili, l’uomo non si rassegna. Se, in mancanza di un incendio o di una caverna non può riscaldarsi o, per mancanza di frutti, di radici, di animali, non riesce ad alimentarsi, allora l’uomo mette in moto una seconda serie di atti: crea il fuoco, crea un edificio, crea l’agricoltura o la caccia. Questo repertorio di attività che soddisfa i bisogni in modo diretto a partire dai mezzi reperibili sul momento, è comune all’uomo e all’animale…l’animale, quando non può esercitare un’attività del suo elementare repertorio per soddisfare un bisogno – ad esempio, quando non ha a disposizione né il fuoco né una caverna – non fa niente e si lascia morire. L’uomo invece dà inizio a un nuovo tipo di atti che consiste nel produrre ciò che non è presente in natura, sia ciò che è assente in assoluto, sia ciò che è assente nel momento del bisogno. Qui natura significa semplicemente ciò circonda l’uomo, la circostanza [circunstancia]. Così produce il fuoco quando non c’è fuoco, crea una caverna, vale a dire un edificio, quando non ne trova uno lì attorno, monta a cavallo o fabbrica un’automobile per sopprimere lo spazio e il tempo. Ebbene, si noti che accendere il fuoco è un fare molto diverso dal riscaldarsi, che coltivare un campo è un’azione molto diversa dall’alimentarsi e che costruire un’automobile non equivale a correre. Ora si comincia a vedere perché prima ci siamo ostinati a fornire la definizione lapalissiana dell’atto di riscaldarsi, di alimentarsi e di spostarsi.
Riscaldamento, agricoltura e fabbricazione di carri o di automobili non sono attività con cui soddisfiamo i nostri bisogni, ma piuttosto, nell’immediato, implicano il contrario: una sospensione di quel repertorio primitivo di atti con cui riusciamo a soddisfarli in modo diretto. Questo secondo repertorio in fin dei conti mira anch’esso alla soddisfazione dei bisogni, ma – questo è il punto – presuppone precisamente una capacità che manca all’animale. A mancargli non è tanto l’intelligenza – di ciò parleremo più avanti, se ne avremo il tempo – quanto la capacità di separarsi temporaneamente da tali bisogni vitali, di staccarsi da essi e di tenersi libero in modo da occuparsi di attività che, di per sé, non soddisfano dei bisogni. L’animale, diversamente dall’uomo, rimane sempre e immancabilmente preso da attività di soddisfacimento diretto dei bisogni. La sua esistenza non è nient’altro che il sistema di bisogni elementari da noi chiamati organici o biologici e il sistema di atti che li soddisfano. L’essere dell’animale coincide con tale doppio sistema o, detto in altro modo, l’animale non è nient’altro che questo. In ciò consiste la vita nel senso biologico o organico del termine…mentre tutti gli altri esseri coincidono con le proprie condizioni oggettive – natura o circostanza – l’uomo non coincide con quest’ultima, ma è piuttosto qualcosa di estraneo e diverso dalla propria circostanza piuttosto è immerso in essa e può uscirne in qualche momento ed entrare in sé, raccogliersi, astrarsi e, solo con se stesso, occuparsi di cose che non consistono nel soddisfare direttamente e immediatamente gli imperativi e i bisogni della propria circostanza. In questi momenti, extra o soprannaturali, di raccoglimento o ritiro in sé, inventa ed esegue il secondo repertorio di atti: accende un fuoco, costruisce una casa, coltiva un campo e fabbrica un’automobile.
Notiamo che tutte queste attività possiedono una struttura comune. Esse presuppongono e portano con sé l’invenzione di un procedimento che ci permette, entro certi limiti, di ottenere con sicurezza, a nostro piacere e convenienza, ciò che non è presente nella natura, ma di cui abbiamo bisogno. Non importa che nell’ambiente circostante, qui ed ora, non ci sia fuoco. Lo facciamo, vale a dire, eseguiamo qui ed ora una certa sequenza di atti che abbiamo inventato in precedenza una volta per tutte. Questo procedimento consiste spesso nella creazione di un oggetto, cioè lo strumento o il congegno, il cui semplice funzionamento ci procura ciò di cui abbiamo bisogno. Tali sono i due bastoncini e l’esca con cui l’uomo primitivo accende il fuoco, o la casa che erige per proteggersi da un ambiente estremamente freddo.
Da ciò risulta che questi atti modificano e migliorano la circostanza o la natura, facendo sì che in essa si trovino cose che non ci sono – sia che esse manchino qui ed ora quando se ne ha bisogno, sia che esse manchino in assoluto. Dunque: questi sono atti tecnici, specifici dell’uomo. L’insieme di questi atti, costituisce la tecnica, che possiamo pertanto definire come i cambiamenti che l’uomo impone alla natura in vista della soddisfazione dei propri bisogni. Questi, come abbiamo visto, erano imposte all’uomo dalla natura. L’uomo risponde imponendo a sua volta un cambiamento alla natura. La tecnica è dunque una reazione energica contro la natura o la circostanza, che finisce con il creare tra queste ultime e l’uomo una nuova natura, una sovranatura [sobrenaturaleza].
Si noti, dunque: la tecnica non è ciò che l’uomo fa per soddisfare i propri bisogni. Questa espressione è equivoca e varrebbe anche per il repertorio biologico degli atti animali. La tecnica è la riforma della natura, di quella natura che ci rende poveri e bisognosi. Una riforma tale per cui i bisogni possano venire possibilmente annullati, in modo che la loro soddisfazione smetta di essere un problema. Se, ogni volta che sentiamo freddo, la natura ponesse accanto a noi il fuoco, è evidente che non sentiremmo il bisogno di riscaldarci, come normalmente non sentiamo il bisogno di respirare, ma piuttosto ci limitiamo a farlo senza che ciò sia per noi un problema. Questo è proprio ciò che fa la tecnica; precisamente questo: fornirci il calore non appena proviamo la sensazione di freddo e annullare quest’ultima in quanto bisogno, mancanza, negazione, problema e angoscia…La tecnica è il contrario dell’adattamento del soggetto all’ambiente, visto che consiste nell’adattamento dell’ambiente al soggetto. Ciò basterebbe per farci sospettare che si tratti di un movimento in direzione contraria a tutti quelli di tipo biologico…
Se ci sforzassimo di capire quali tra i nostri bisogni siano rigorosamente necessari, inevitabili, e quali superflui, ci troveremmo in grande difficoltà. Ci troveremmo infatti a scoprire: 1) Che di fronte ai bisogni che a priori sembrano più elementari e inevitabili – ad esempio cibo e calore – l’uomo possiede un’elasticità incredibile. Egli può ridurre – non solo per costrizione, ma anche per piacere – al limite estremo la quantità di cibo assunta, e può addestrarsi a sopportare un freddo intensissimo. 2) Al contrario, gli costa molta fatica, o più semplicemente non riesce a fare a meno di certe cose superflue e, quando queste gli mancano, preferisce morire. 3) Da ciò si deduce che gli sforzi dell’uomo per vivere, per stare al mondo, sono inseparabili dai suoi sforzi per stare bene. Di più: per lui la vita non significa semplicemente stare, ma stare bene, ed egli sente come bisogni le condizioni oggettive dello stare solo in quanto queste sono il presupposto dello stare bene…Pertanto, per l’uomo è necessario solo ciò che è oggettivamente superfluo. Tutto ciò sembrerà paradossale, ma è la pura verità. Dunque i bisogni biologicamente oggettivi non sono, per lui, bisogni. Quando si trova a dipendere da essi, si rifiuta di soddisfarli e preferisce soccombere. Si trasformano in bisogni solo quando appaiono come condizioni dello «stare al mondo», necessario a sua volta solo in forma soggettiva; ossia perché rende possibile lo «stare bene al mondo» e il superfluo. Da ciò risulta che perfino ciò che è oggettivamente necessario, per l’uomo è tale solo se fa riferimento al superfluo. Non c’è dubbio: l’uomo è un animale per cui solo il superfluo è necessario…vedrete che arriverete inevitabilmente alle medesime conclusioni. Questo è essenziale per capire la tecnica. La tecnica è la produzione del superfluo: oggi come nell’epoca paleolitica.
La tecnica è di certo il mezzo per soddisfare i bisogni umani; ora possiamo accettare questa formula che prima rifiutavamo, perché ora sappiamo che i bisogni umani sono oggettivamente superflui e che si trasformano in bisogni veri e propri solo per chi ha bisogno di stare bene e per cui vivere è, essenzialmente, vivere bene. Ecco perché l’animale è a-tecnico: si accontenta di vivere, di ciò che è oggettivamente necessario per il semplice esistere. Dal punto di vista del semplice esistere l’animale è insuperabile e non ha bisogno della tecnica. Però l’uomo è uomo perché per lui esistere significa sempre e comunque stare bene; perciò è a nativitate tecnico, creatore del superfluo”. Ortega y Gasset