FORZE PRODUTTIVE E RAPPORTI DI PRODUZIONE, GLG
1. Nel 1972, su Critica marxista, uscì un articolo di Emilio Sereni, improntato allo “storicismo” tipico del marxismo italiano, che di fatto lanciò un dibattito sulla centralità o meno, nel marxismo, dello sviluppo delle forze produttive, o invece della trasformazione dei rapporti di produzione, ai fini del passaggio da una formazione sociale all’altra, cioè da un modo di produzione, considerato il nocciolo fondamentale della formazione sociale, ad un altro. A Sereni rispose Luporini; e da lì iniziò appunto il dibattito che vide la partecipazione di molti studiosi marxisti, in particolare italiani e francesi, fra cui Althusser e alcuni della sua scuola. A quel dibattito partecipai anch’io, da poco tornato dal soggiorno a Parigi (all’EPHE, oggi EHESS) dove avevo studiato con Bettelheim, passato all’impostazione althusseriana dopo un periodo di maggiore ortodossia. In seguito a quel dibattito si formarono in Critica marxista alcuni gruppi di studio sui modi di produzione divisi per fase storica: quello antico (e schiavistico), quello feudale, quello capitalistico e il modo di produzione asiatico. Il terzo si sarebbe dovuto interessare anche della formazione sociale di transizione al socialismo. In definitiva, l’unico gruppo che funzionò fu quello sul modo di produzione antico (diretto da Aldo Schiavone), che pubblicò anche un volume con gli Editori Riuniti. Quel dibattito, se seguito da qualcuno ignaro di marxismo e comunismo, poteva forse apparire quasi “teologico”.
In ogni caso, non credo che la maggior parte dei “militanti di base” del Pci fosse in grado di capire che cosa si giocava in esso; anche se poi, alla fin fine, non fu giocato quasi nulla perché il Pci non era disponibile ad alcuna rimessa in discussione della propria linea, tanto più che la prevalenza nel partito stava andando alla nuova segreteria berlingueriana, addirittura interessata al “trasferimento” verso il capitalismo occidentale. Nel 1971, per un evento che non posso raccontare (sarei accusato di menzogna e diffamazione), ebbi gli elementi per giudicare simile spostamento. Rimasi perplesso per qualche tempo, ma credo alla fine di esserci arrivato prima di altri e prima del viaggio (“culturale”, sic!) di Napolitano negli USA del 1978 (poco dopo che era stato rapito Moro, le cui carte più rilevanti, tenute nella borsa, non sono mai state ritrovate). Del resto, nel recente libro di Marcello Sorgi, c’è l’indicazione di questi rapporti tra PCI e USA, tra chi erano e chi ne faceva da tramite. In ogni caso, all’epoca del dibattito di cui sto parlando il PCI non era per nulla intenzionato a disquisire su problemi riguardanti di fatto la lotta al capitalismo e la possibilità di transizione al socialismo. Tuttavia, è interessante comprendere il senso ultimo di quella discussione “teorica” poiché si tratta, da una parte, di qualcosa di non irrilevante per la storia del marxismo (e di quello che fu detto comunismo); e poi perché serve a rendersi conto come – dietro a questioni apparentemente teoriche, considerate dai più astruse – si celino precise scelte di linea politica, che guidano poi determinate pratiche delle varie forze in campo. Del resto, è invalsa l’interpretazione della frase “discussione sul sesso degli angeli” come un cianciare di cose inutili (facendo riferimento a quanto accadde nel 1453 nel mentre i turchi erano alle porte di Costantinopoli). L’amico Preve aveva una volta chiarito i veri motivi di quella discussione “dottrinale” tra teologi, ma adesso non li ricordo. So solo che si dà generalmente di quella frase l’interpretazione più dozzinale perché si ama molto anche l’altra (falsa) massima: “val più la pratica della grammatica”.
Senza grammatica, si parla in modo del tutto difettoso, a volte incomprensibile. La grammatica è la teoria, che non va considerata la Verità, ma un insieme di ipotesi necessarie ad orientare la pratica e poi, sulla base dei risultati ottenuti, ridiscuterle ancora. Altrimenti, ci si muove a casaccio e solo sulla base delle indicazioni “pratiche” di “quel minuto” e che sempre vengono rovesciate nel “minuto” successivo. Dunque anche in momenti cruciali, “con il nemico alle porte”, la teoria è sempre fondamentale. La discussione sembra solo “dottrinale” mentre in realtà indica la necessità di una scelta, eventualmente poi da ridiscutere. A quell’epoca, certamente, il PCI scelse alla fine di non trarre alcuna conclusione da quel dibattito (pubblicato sulle pagine della sua rivista “Critica marxista”), ma semplicemente perché la scelta era già stata fatta dalla nuova segreteria; Berlinguer, vicesegretario nel 1969, divenne segretario proprio in quel 1972. Allora, senza dubbio, quella discussione fu praticamente inutile. E tuttavia, a mio avviso, importante e ancor oggi da conoscere per un qualsiasi marxista. Affinché si renda più comprensibile quel dibattito ricordo brevemente, e non quindi con intenti professorali, che le forze produttive venivano distinte in soggettive ed oggettive. Le prime riguardano la capacità lavorativa umana, con le sue prerogative e abilità specifiche (se ci sono); le seconde si riferiscono alle condizioni della produzione esterne a detta capacità lavorativa: quelle su cui quest’ultima si esercita (ad es. la terra o varie materie prime da essa fornite) o che l’assistono nella lavorazione come la strumentazione e la tecnologia (e quindi la scienza che ne è pur sempre alla base), ecc. Tale “piccolo” particolare va ricordato perché la polemica contro la tesi del primato delle forze produttive si è spesso esercitata contro quelle oggettive – tutte le ciance sulla necessità di rallentare lo sviluppo e la stessa ricerca scientifica, tornando a tecnologie ritenute più blande e meno dannose per la natura – mentre esalta, in realtà relegandola al compimento di maggiori sforzi e fatica, la capacità di lavoro del “soggetto umano” (o dell’Uomo).
E’ bene tenere presente che quel dibattito era comunque condotto tra studiosi con una buona, o almeno più che discreta, conoscenza del marxismo, a differenza di quelli che seguiranno dopo l’infausto ’68 (scusate se ormai lo valuto del tutto negativamente), una vera débacle per il Marx scienziato delle formazioni sociali e, in particolare, di quella capitalistica. La conoscenza comune di allora consentiva una polemica a volte aspra, ma appunto condotta alla guisa di quelle dottrinarie interne ad un’unica religione; la discussione, cioè, avveniva in base ad una terminologia teorica in larga parte condivisa, caratterizzata soltanto da differenziazioni nell’interpretazione e nelle conseguenze pratiche che ne derivavano. In definitiva, nella polemica ci s’intendeva, si sapeva bene dove erano situati i punti di contrasto; e si era ben consci del significato politico del dissenso, non riguardante esclusivamente i “massimi sistemi”, le “alte concezioni” dell’Umanità e dei suoi “destini ultimi”.
Insomma, anche i filosofi marxisti, in quanto reali conoscitori di tale corrente di pensiero e delle sue finalità in tema di “lotta di classe”, erano ben consapevoli della posta in gioco: la linea politica adottata dalle varie organizzazioni denominate comuniste. Oggi, tutto questo non esiste più. Ci sono filosofi vaneggianti e scienziati alla ricerca di nuovi paradigmi teorici per comprendere le dinamiche dell’attuale formazione sociale (o formazioni sociali), in cui solo dei visionari pseudocomunisti (o degli incalliti vetero-anticomunisti) possono credere esista ancora qualcosa da definirsi comunismo o anche solo socialismo. Il povero Marx è stato triturato e ricondotto al minuscolo cervello dei miseri e opportunisti intellettuali dell’ultimo quarantennio. Ogni discussione con simili personaggi appare ormai sterile; allora no, il contrasto tra marxisti aveva un senso e notevoli effetti pratici.
2. Lo scopo politico della discussione, tralasciando i “tesori” di dottrina che comunque venivano esibiti, si può, credo, sintetizzare come nelle pagine seguenti. I teorici delle forze produttive – cioè del loro sviluppo in quanto molla decisiva, pur con la possibilità di qualche “azione di ritorno” (dai rapporti alle forze), della trasformazione dei rapporti sociali di produzione e dunque dell’intera società – sostenevano tale tesi per giustificare l’attendismo, l’accoccolarsi entro i meccanismi di riproduzione dei rapporti nelle società del campo capitalistico (“occidentale”), coadiuvando di fatto i loro gruppi dominanti con la scusa che non era ancora matura la trasformazione sociale per l’immaturità dello sviluppo delle forze in oggetto. Ovviamente, questa tesi centrale era contornata da tutta una serie di altre argomentazioni, che fungevano da sua cintura protettiva, soprattutto tesa però a creare una fitta nebbia in cui non si intravedesse il nocciolo centrale: l’attendismo e il ripiegamento su posizioni di sostanziale supporto (subordinato) dello sviluppo capitalistico. Vi erano i discorsi sull’utilizzo della “democrazia” parlamentare (cioè elettoralistica) per accrescere l’influenza delle “masse lavoratrici” sulle classi dominanti, considerate solo in quanto proprietarie private dei mezzi produttivi (e dei capitali monetari). Si trattava in realtà di captare i voti di queste masse per essere accettati all’interno dei gruppi di vertice e integrarsi nel sistema dei meccanismi (ri)produttivi del capitale, in modo che una parte dei dirigenti (in specie sindacali o di cooperative) potesse accedere alla proprietà capitalistica stessa, mentre l’apparato di partito sarebbe divenuto l’organo privilegiato di rappresentanza nella sfera politica di questi nuovi spezzoni di classe dominante.
Un gran battage fu sollevato intorno al fumoso discorso concernente le “riforme di struttura” (cardine dell’altrettanto imprecisata “via italiana al socialismo”), di cui mai si precisò con nettezza il significato e la portata; le proposte in merito furono appena abbozzate e tutto sommato avanzate per “fare scena”, e nascondere alla “base” il proprio progressivo cambio di casacca (si veda il mio articolo sull’argomento scritto nei primi anni ’70 e pubblicato recentemente nel blog e sito Conflitti e strategie). Infine il blaterare sull’appoggio all’industria “pubblica”, che doveva servire a contrastare, e dunque calmierare, le pretese arroganti del monopolio privato. In realtà, era più facile contrattare vie di collaborazione con i gruppi dominanti – chiedendo fra l’altro di essere accettati quale una delle loro rappresentanze nella sfera della politica – attraverso contatti con le frazioni dei partiti governativi aventi influenza sui (o che subivano l’influenza dei) gruppi manageriali delle grandi imprese “pubbliche”. Ve l’immaginate un membro del Pci, o un aderente stretto al partito, che facesse carriera nelle alte o almeno medio-alte vette delle grandi imprese private?
Fiat, Pirelli, Olivetti o che so io potevano al massimo finanziare giornali e case editrici, in cui facevano “bella mostra” di sé intellettuali pseudo-comunisti: o di stampo riformista o di quel tipo “ultrarivoluzionario” che serviva a far meglio risaltare il “buon senso” del riformismo (su cui poi del resto ripiegava anche una parte degli “ultrarivoluzionari”). Invece, nelle imprese “pubbliche” si trovava, anche ai piani alti o medio-alti del management, un certo numero di individui addestrati nell’imprenditoria “rossa” (sic!); talvolta in modo palese, altre volte copertamente, ma comunque sempre ammessi nella stanza delle decisioni dei dominanti. Questa era comunque la “cintura protettiva” – per subornare le “masse” – della più dotta tesi circa la centralità dello sviluppo delle forze produttive: tesi, però, nella versione in uso nei partiti comunisti del campo capitalistico e specialmente nel PCI.
Nel campo socialista – che tale non era mai stato, ma lo si è capito un po’ tardi, e ancora adesso buona parte degli scribacchini, di qualsiasi orientamento ideologico, nemmeno lo sospetta – la tesi in oggetto era presentata in forma diversa; in tale area si sosteneva che i rapporti sociali erano già per l’essenziale stati trasformati; non però in rapporti comunisti, come pensano alcuni ignorantissimi intellettuali odierni, bensì più semplicemente in rapporti socialisti, primo stadio del comunismo e fase di transizione ad esso. Il problema fondamentale sarebbe stato rappresentato da un certo qual avanzamento dei rapporti rispetto allo sviluppo suddetto; si riteneva quindi indispensabile adeguare quest’ultimo ai rapporti. In ogni caso, in entrambi i filoni di quel movimento comunista da noi (marxisti-leninisti) accusato di “revisionismo”, si affermava che bisognava prestare massima, e centrale, attenzione alle forze produttive. Così agendo, si sarebbe finalmente preparata la base per la trasformazione dei rapporti capitalistici; e in modo indolore, non violento, senza rivoluzione, con pieno rispetto delle forme democratico-parlamentari. Questa la tesi riformistica, gradualista, sostenuta in occidente (campo capitalistico).
A est (“socialismo reale”), la tesi serviva ai fortemente centralizzati (e del tutto verticistici) gruppi al potere per soffocare ogni critica mirante al mutamento dei rapporti; essa avrebbe provocato l’indebolimento di questi ultimi, dichiarati ormai già socialisti, che si sarebbe dovuto invece irrobustire tramite l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Negli anni ’60, in particolare nella seconda metà, pur essendomi allontanato dal Pci nel ’63, ero discretamente edotto delle pratiche del partito, “molto produttive” in fatto di poteri acquisiti nell’ambito dell’organizzazione e riproduzione dei rapporti capitalistici. Andai da Bettelheim a Parigi – e non a Cambridge od Oxford o all’MIT, ecc., mossa essenziale per la carriera accademica in un paese come l’Italia – perché interessato alla critica, non soltanto politicistica (e ideologica) ma pure teorico-dottrinale, delle tesi “revisioniste”, gradual-riformistiche, del comunismo italiano (da me sempre denominato piciismo, perché di comunista non aveva un bel nulla). Quindi, all’epoca del dibattito di cui si sta parlando, conoscevo bene la portata d’esso, che cosa si stava giocando; e che, lo ribadisco, in effetti non si giocò per il veloce tralignare del berlinguerismo in senso filo-occidentale con precisi rapporti con dirigenti USA (si veda quanto scritto recentemente in un libro di Marcello Sorgi).
Purtroppo ci fu chi nemmeno intuì, almeno a spanne, un simile sbocco e si mise di fatto nelle mani di certe “trame”, in specie elaborate dai Servizi dei paesi orientali per motivi già più volte indicati in altri miei scritti; ma che poi provocarono la reazione di quelli occidentali, appoggiati da buona parte dei “poliziotti” piciisti, con la creazione di un “caos” in cui chi non si era tirato indietro in tempo fu travolto negli anni detti “di piombo”. E che è pura menzogna descrivere come anni del “terrorismo”; soprattutto “rosso”, in misura minore “nero”. Che le BR e “Prima linea”, ecc. si siano fatte coinvolgere in attentati e atti pienamente sconsiderati è vero. Ma così hanno solo fornito (anche in buona fede spesso) copertura alle manovre dei vari Servizi. E il “caso Moro” è impressionante per la menzogna raccontata. Chi sparò per uccidere la scorta non era delle BR. E anche l’uccisione finale, con le varie modalità in altre occasioni da me illustrate, sarà forsestata eseguita (ma molto forse!), ma non veramente decisa, dai brigatisti. Inoltre, le più rilevanti carte che Moro aveva nella borsa non sono mai state trovate.
Ricordo, en passant, che molti – anche alcuni ancora in circolazione ma di cui non farò il nome (tanto capiscono di chi parlo, se mi leggono) – mi criticarono come “criptorevisionista” per aver compreso in tempo con buona approssimazione cosa stava avvenendo nel Pci e dintorni, e nel non aver mai voluto partecipare ad una lotta scriteriata e balorda – condotta senza alcuna protezione, allo sbaraglio – contro il “revisionismo”, che non poteva che condurre dove ha condotto molti: galera o tradimento o tutti e due! Il vero fatto è che io non sono un intellettuale come continuano a credere in molti. Sono un prodotto della medio-alta “classe” imprenditoriale e ho sufficiente concretezza per capire che le “idee” (se sono tali, senza adeguata analisi delle situazioni oggettive) non orientano il mondo. Purtroppo il sottoscritto è un prodotto mal riuscito che non voleva essere “padrone”, ma nemmeno servo come sono gli intellettuali (quasi tutti); e purtroppo chi sta in mezzo subisce le più malefiche conseguenze. Così non sono un miliardario (padrone) e nemmeno un “maître à penser” (servo ignobile ma ben pagato). E nemmeno un “esperto”, portaborse di qualche “Maestro” e andato ad “allenarsi” nel mondo accademico anglo-americano, giocando al ritorno per qualche anno al marxista o al critico liberal per essere infine chiamato a cianciare nei media e infilato in qualche Ministero o simile (sono decine e decine a doversi sentire chiamare in causa, perché di questi bassi opportunisti, che hanno impestato tutti i gruppetti “antirevisionisti” e “rivoluzionari” dell’epoca per procurarsi titoli di merito in ambito accademico e/o giornalistico, ne ho conosciuti in quantità superiore alle capacità di assorbimento del mio fegato).
3. La critica condotta dalla corrente, che sosteneva la centralità dei rapporti di produzione nella transizione da una formazione sociale all’altra, intendeva riprendere l’orientamento rivoluzionario contro l’ormai avvenuta pacificazione tra comunismo europeo (“eurocomunismo”) – ma anche di molti altri paesi, perfino del “terzo mondo” – e i gruppi dominanti nei paesi capitalistici dell’area a più alto sviluppo, un sistema di paesi centrato sugli Stati Uniti e la loro politica imperiale; e non semplicemente imperialistica come si diceva con linguaggio impreciso e tributario di una pseudo-ortodossia leninista o di un più generico concetto di imperialismo in quanto dominio coloniale o neocoloniale. Ci furono molte forzature: ad es. la considerazione della ben nota (ormai a pochi per la verità) Prefazione del ’59 di Marx, considerata a volte addirittura un testo non marxista. Nel mio Due passi in Marx (di ormai un bel po’ di anni fa) ho cercato di compiere una più ponderata valutazione di quel testo, considerato la base dell’economicismo delle correnti favorevoli alla tesi della centralità delle forze produttive.
In realtà, molti dei critici di questa tesi non sono veramente usciti da essa. Ci sono stati quelli che pensavano alle tecniche produttive in uso nei paesi ad alta produttività come sempre in grado di riprodurre i rapporti in esse “incorporati”, rapporti che le avrebbero dunque plasmate ai fini di questa incessante (auto)riproduzione (pure io sono caduto in posizioni simili per qualche tempo). Si arrivava così, magari inconsapevolmente, a implicite forme di luddismo poiché per distruggere i rapporti era necessario annientare una serie di tecnologie; o quanto meno si sosteneva la necessità di non importare – nei paesi in cui si voleva attuare la transizione al socialismo – le tecnologie dei paesi capitalistici se non dopo attenta analisi e trasformazione per riadattarle ai “bisogni” (del tutto imprecisati e non conosciuti) di quei paesi. La vecchia ortodossia sosteneva che i rapporti capitalistici si sarebbero ad un certo punto trasformati in catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive; sarebbero perciò state necessariamente suscitate le forze rivoluzionarie capaci di spezzarle, provocando la nascita di nuovi rapporti. Nella critica a tale tesi prendevo atto della capacità di sviluppo del capitalismo, che non ha alcun limite prefissato da nessuna “legge storica” (economica); tuttavia non accreditavo affatto l’idea che tale formazione sociale è la più adeguata allo sviluppo produttivo, accompagnato quasi sempre dall’innovazione tecnico-organizzativa (giacché sviluppo e crescita, che non richiede di per sé l’innovazione, non sono lo stesso fenomeno, ma sono di solito fra loro collegati).
Nel contempo, una parte delle critiche alla tesi dello sviluppo delle forze produttive diffondeva il timore che quest’ultimo riproducesse sempre i rapporti della società “da rivoluzionare”, per cui bisognava essere diffidenti nei suoi confronti e, in definitiva, boicottarlo. Non si usciva così per nulla dalla tesi della centralità delle forze produttive (oggettive); e il capitalismo diventava una sorta di mostruoso automa sempre in riproduzione di per se stesso, a meno di non intralciarne lo sviluppo, e dunque l’innovazione tecnica; da cui consegue in genere l’impossibilità di aumentare la produttività del lavoro, ottenuta di solito con una diversa organizzazione del processo lavorativo e l’introduzione di nuove tecnologie che ne alleviano la fatica. Peggiore ancora è stata la critica alla tesi delle forze produttive proveniente dagli “umanisti”, da coloro che piangevano (e ancora piangono) sulle sorti della “classe operaia” o delle “masse lavoratrici”, sacrificate sull’altare dei profitti capitalistici (soprattutto di quei “parassiti” dei finanzieri). Sarebbe stato invece necessario fare appello alle risorse di questa classe o delle masse, capaci (secondo i soliti cervelloni degli intellettuali di questa fatta, del tutto avulsi dal mondo così com’esso è!) d’inventività e innovazione sociale; e soprattutto in grado di ribellarsi ai soprusi del Capitale (quello ovviamente totale, che intende sopraffare e sottomettere a sé tutto l’insieme dell’Essere Umano, dell’intero suo corpo e delle sue capacità cognitive).
La Fiera delle imbecillità sessantottarde (e seguenti) è stata ricchissima di prodotti di scarto di “avanguardie” pseudo-culturali di una demenza sconosciuta, credo, in altre epoche storiche della “Umanità”. In ogni caso, in simili tesi – e in quelle del “comando” del Capitale, della “sfida operaia” con “risposta” del suddetto Capitale, e via vaneggiando – non c’è alcuna prevalenza dei rapporti sociali; semplicemente si esalta la forza produttiva dell’Uomo, o in generale o con specifico riferimento all’uomo lavoratore nella fabbrica (prima quella meccanica fordista e poi quella presunta sociale complessiva) del capitalismo.
4. Del resto, anche lo spostamento verso la centralità dei rapporti sociali non è stato scevro di limiti gravi. Nei casi di maggiore superficialità ci si è attenuti fondamentalmente ai rapporti mercantili, ai rapporti tra uomini “cosificati” nel mero scambio di prodotti del proprio lavoro in quanto merci (siamo nei paraggi del sismondismo e proudhonismo). La riduzione economicistica dei rapporti sociali è qui molto evidente; soprattutto però si fa dell’ambito di “superficie” della formazione sociale capitalistica – dove, come Marx aveva avvertito, vige una sempre maggiore libertà nello scambio ed una tendenziale eguaglianza di valore delle merci scambiate tra compratori e acquirenti, nel senso di una oscillazione dei prezzi intorno ai valori (prescindendo dalla trasformazione dei valori in prezzi di produzione, che qui non ci interessa) – il fulcro della società. Allora, ancora una volta, la lotta anticapitalistica viene ridotta a pura questione di rapporti di forza nella distribuzione del prodotto, alla ricerca di una maggiore “equità” nello “sfruttamento” (creazione ed estrazione del plusvalore come profitto) che è la vera acquisizione di Marx come scienziato e non come chiacchierone filosofico sulla sorte alienata dell’Uomo. A che cosa si poteva giungere allora? A proporre quell’aberrazione teorica e politica del “socialismo di mercato”, ultimo rifugio (ormai diroccato) di cialtroni opportunisti, che cercano di difendere il loro passato di fallimentari teorici e storici degli altrettanto falliti tentativi di transizione al socialismo.
C’è stato a mio avviso un positivo tentativo di formulare una tesi di trasformazione dei rapporti sociali (da Marx indicati quali rapporti di produzione sia pure sociali) in quanto critica ad ogni forma di attendismo gradualistico (tesi delle forze produttive) o di puro “ultrarivoluzionarismo” parolaio in favore dell’Uomo (o in generale o di quello Lavoratore o delle “masse popolari”, ecc.). Si è trattato del tentativo althusseriano. Condotto tuttavia con qualche inconsapevolezza della teoria del valore marxiana, che è teoria dello “sfruttamento” (estrazione di plusvalore, forma di valore del pluslavoro) pur nella supposizione (astrazione scientifica) di una perfetta parità di forze e quindi di eguaglianza tra venditore e acquirente di forza lavoro in qualità di merce.Nell’althusserismo tutto sembrava invece rinviare ad un rapporto di forza nella “lotta di classe” che, ad un certo punto, si trasformava così in entità piuttosto confusa e poco perspicua, un autentico deus ex machina di particolare artificiosità.
Si è dovuto accettare la tradizionale divisione della storia del capitalismo in due epoche: quella concorrenziale (sostanzialmente ottocentesca) e quella del monopolismo (trasformazione avvenuta in particolare a partire dalla lunga crisi del 1873-96). Si è anche distinto tra la determinazione d’ultima istanza (dell’economico: ulteriore omaggio all’ortodossia) e la dominanza, che può essere politica (dello Stato in particolare, come analizzato in particolare da Poulantzas). Si è allora sostenuto che nella prima epoca del capitalismo (concorrenziale) sia la determinazione d’ultima istanza che la dominanza appartenevano all’economico (alla sfera produttiva e finanziaria); mentre nella seconda epoca (mono-oligopolistica) l’economico restava determinante in ultima istanza mentre la dominanza passava alla sfera della politica e dell’ideologia, condensata nell’indicazione della presenza decisiva degli apparati ideologici di Stato.
Difficile pensare ai caratteri della determinazione d’ultima istanza, dato che non si potevano ridurre i rapporti sociali capitalistici soltanto a quelli nel mercato; e nemmeno fare semplice riferimento alla tecnologia e all’organizzazione lavorativa nelle fabbriche. Quanto alla dominanza nell’epoca del mono-oligopolismo, è ovvio che i rapporti di produzione venivano in sostanza pensati quali rapporti di potere. Interessante la distinzione tra proprietà (dei mezzi produttivi), considerata nella sua mera forma giuridica (ma né Marx né alcun marxista pensante l’hanno ridotta a questo), e potere di disposizione o di controllo sui mezzi stessi. Tale potere rinviava però appunto, in definitiva, a quello detenuto negli apparati della sfera politica e ideologica. In primo luogo, mi sembra sia venuta a mancare una più netta distinzione tra gli apparati propriamente statali, con particolare riferimento a quelli di tipo coercitivo e repressivo, e quelli esercitanti l’egemonia attraverso l’ideologia. Anche nell’ambito di questi ultimi sarebbe stato indispensabile distinguere tra la trasmissione di forme culturali di lunga durata (con le loro tradizioni, ecc.) e l’approntamento di ideologie più spicciole, spesso “di moda” per brevi periodi, e che hanno una ben più scoperta funzione di mascheramento e di menzogna circa le intenzioni dei gruppi dominanti; per cui sono spesso fonte di incultura o di “semicultura” come quella tipica di certo ceto medio “sinistrorso” odierno.
Di fatto, lo Stato è divenuto nell’althusserismo un coacervo di apparati dei più svariati tipi, tutti però raggruppati nello stesso luogo, eletto a principale campo, dunque anche oggetto (obiettivo), dello scontro tra gruppi sociali; privilegiando inoltre il conflitto “in verticale” tra dominanti e dominati, con il solito schema duale di semplificazione caratteristico del marxismo tradizionale. Lo Stato è, sì, un insieme di apparati, ma in quanto condensazione, precipitazione, di un complesso intreccio di conflitti tra più gruppi sociali, in cui si verifica, in circostanze diverse, il prevalere di uno o di alcuni d’essi o il loro accordo compromissorio, ecc. L’insieme di apparati mantiene, anche a lungo, uno “statuto legale” unitario, che tuttavia nasconde lo scontro e il mutare delle egemonie e del potere vero e proprio: sempre “corazzato di coercizione”, altrimenti non è affatto un potere. Chi crede in quello decisivo della cultura è il solito intellettuale arruffone, che fa il gioco dei dominanti, sempre ben pagato e onorato per i suoi bassi servigi di confusione mentale indotta in potenziali oppositori.
Inoltre, nella storia, i più lunghi periodi sono caratterizzati dal conflitto tra gruppi dominanti di alto e medio-alto livello; a volte ciò si traduce nella formazione dei cosiddetti blocchi sociali, in cui gruppi a più basso livello sono trascinati e orientati nella lotta da quelli dominanti. Proprio per questo, in tali periodi storici, all’interno dei gruppi a basso e medio-basso livello, quand’anche si situino in posizione d’urto con quelli dominanti, si formano nuclei dirigenti (“élites”) che vengono infine cooptati verso l’alto, verso i dominanti stessi. Solo in particolari congiunture di scontro acuto e violento tra i dominanti – con disgregazione del collante (egemonico) sociale, la paralisi del potere coercitivo (i suoi vari apparati di intralciano l’un l’altro e alla fine si sgretolano) e la conseguente crisi aperta del suddetto “statuto legale” unitario che tiene legati i vari apparati – le élites dei raggruppamenti sociali di medio e basso livello emergono in dominanza, ricreando a lungo andare altri (e diversi) gruppi egemonici e dotati di potere in una società nuovamente “normalizzata”, in genere mutata nella forma dei rapporti sociali che la caratterizzano prevalentemente (si tratta allora di una nuova formazione sociale).
5. Ho cercato di sintetizzare nel migliore (o meno peggiore) modo possibile un dibattito che ha coinvolto principi fondamentali di una teoria – poi trasformata in dottrina – all’origine di complesse pratiche di quello che è stato denominato “movimento operaio”, in specie di quello di orientamento comunista, dato che nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia ha abbandonato il marxismo. A qualcuno sembrerà forse che quel dibattito non abbia più molto da dire. Sarebbe un errore. Intanto, pur non rifacendosi al marxismo, le teorie decresciste sono pienamente dentro l’orizzonte della tesi relativa allo sviluppo delle forze produttive. Il fatto di considerarlo negativo invece che positivo non cambia in nulla l’impostazione sostanziale, che dimentica opportunamente, e opportunisticamente, il problema della trasformazione dei rapporti sociali – per la qual trasformazione occorre rifarsi alla politica del conflitto; magari non più “di classe”, ma pur sempre conflitto tra interessi di gruppi sociali differenti – mettendo così in bella evidenza la vera natura di simili tesi, non a caso sostenute (e finanziate) in molti casi da grandi gruppi capitalistici.
Criticare la tesi della centralità delle forze produttive in termini di sviluppo e trasformazione della società significa quindi prendere netta posizione anche contro le tesi dei decrescisti, metterne in luce il falso anticapitalismo, mentre essi si pongono invece al pieno servizio dei dominanti in questa formazione sociale, una parte dei quali ha perso fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” della stessa; per cui si dedica a imbrogliare le carte – servendosi anche di “ultrarivoluzionari” venduti e pronti ad ogni basso servigio – pur di distrarre l’attenzione dai veri nodi del problema capitalistico. In questo senso, i decrescisti sono dello stesso stampo di coloro che insistono nell’attribuire l’attuale crisi ai “cattivi” finanzieri o anche alla “finanza tout court” e ai banchieri o alle manovre monetarie, ivi compreso il signoraggio, ecc. Del resto, solo una parte (minoritaria) del decrescismo (e della “difesa della Natura”) dipende da perdita di fiducia nel capitalismo; la parte maggioritaria è rappresentata da consapevoli imbroglioni, pagati dalle imprese capitalistiche che lucrano ottimi affari con tutte le “mode” attuali: le energie alternative (che saranno soprattutto un modo di guadagnare lauti profitti), i commerci equosolidali, le coltivazioni “biologiche” e tutta una serie di altri imbrogli, del tutto interstiziali nel capitalismo odierno, affidati a gruppi di semidiseredati, alcuni dei quali diventano agenti discretamente ben pagati dai dominanti, trascinando dietro di sé alcuni gruppetti di totali “diseredati cerebrali”.
Il tutto fa brodo per un capitalismo che dovrà attraversare una lunga crisi quanto meno di stagnazione tendenziale, tipo quella di fine ‘800. In definitiva, si cerca di dirottare la possibile lotta e critica lontano dal centro del problema odierno: l’attuale configurazione del sistema mondiale dei rapporti capitalistici, che vede ancora in posizione preminente gli Stati Uniti. Non però perché sono in mano di questa o quell’Amministrazione presidenziale e dunque politica; e, in definitiva, di dati gruppi dominanti. E’ senz’altro indispensabile coltivare l’attenzione per la differente politica (in quanto complesso di mosse strategiche) condotta dai diversi gruppi dominanti. Tale attenzione deve però indirizzarsi all’analisi e valutazione delle possibilità di un’opposizione alle loro mosse (appunto differenti), senza mai dimenticare che certe critiche alla società attuale, fin troppo sommariamente indicata come capitalistica, servono in realtà gli interessi di dati gruppi dominanti o di altri, dimenticando il fulcro essenziale rappresentato dai rapporti sociali e dalla politica che ne consegue, celata dietro i vaneggiamenti sulla “difesa dell’ordine naturale” o della Umanità in generale.
La conoscenza del dibattito (1972-73), di cui si sta discutendo, ha pure un altro scopo precipuo. Ci sono alcuni vecchi arnesi del “rivoluzionarismo” sessantottardo (e seguenti), che sfruttano la (peraltro vaga) conoscenza della critica alle forze produttive per tentare ancora una volta di difendere, nella sostanza, la formazione sociale capitalistica nella sua peggiore configurazione storica, quella che, tanto per andare al pratico, vede la società italiana in mano ai “cotonieri” (spero ci si ricorderà da dove deriva tale termine da me affibbiato ad una classe imprenditoriale di puri servi). Gli ambigui e viscidi pseudo-pensatori del sessantottismo sviluppano il seguente argomento (l’hanno usato anche contro di me), che in realtà dimostra solo la loro ignoranza dei termini minimi di un corretto dibattito: se si è contro la decrescita, essi affermano, allora si è favorevoli alla centralità delle forze produttive; eppure, essi continuano, certi personaggi (fra cui il sottoscritto) avevano un tempo criticato simili tesi. Si tratta di individui in perfetta mala fede o di crassa ignoranza.
Come già detto, mettere il segno meno invece che più alle forze produttive non cambia la sostanza del problema; in ogni caso, si allontana l’attenzione del critico dall’analisi dei rapporti sociali costitutivi della formazione sociale capitalistica. Il fine dei vecchi arnesi di cui sopra è proprio impedire che si parli del capitale in quanto rapporto sociale. Il capitalismo sarebbe solo un Male per l’Uomo; in realtà per questi poveri di pensiero che si credono l’Uomo per antonomasia. Sono insoddisfatti e angosciati; e noi allora ci dovremmo occupare di questo loro disagio? Si arrangino come fanno tutti gli individui concreti, semplici uomini (al minuscolo), che hanno sempre al loro fianco l’orizzonte della morte. Il capitale non c’entra nulla con questo problema; non lo può risolvere, ma nemmeno lo aggrava più che tanto.
I teorici della centralità dei rapporti sociali (di produzione o più complessivamente considerati) tentavano di contrastare il gradualismo riformista di quelli che venivano considerati “i revisionisti”, gli opportunisti ormai lanciati verso la collaborazione con il sistema capitalistico e i suoi gruppi dominanti. Vi era ancora la credenza di poter rilanciare la rivoluzione e riprendere la transizione verso la nuova formazione sociale socialista (in attesa di quella comunista); ma senza mai il sogno impossibile di evitare il disagio legato alla malattia, alla morte, alle disgrazie varie che ci affannano, chi più e chi meno, per tutta la nostra vita individuale. Nessun althusseriano si è mai scagliato contro la crescita della produzione, contro l’innovazione tecnica e via dicendo. Semplicemente dicevamo: questi risultati li ottiene anche il capitalismo, i rapporti del capitale non sono affatto catene che impediscono la loro realizzazione. I “revisionisti”, per giustificare il loro cedimento opportunistico, sostenevano invece proprio che, se il capitalismo si stava sviluppando, allora i suoi rapporti sociali non erano ancora diventati le famose catene; era perciò utile non creare disordini, non avere intenti rivoluzionari, si doveva aiutarlo a svilupparsi ancora di più, cosicché si sarebbe infine (campa cavallo….) impiccato da solo a questi suoi rapporti una volta divenuti impedimenti.
Oggi, quel dibattito è stato superato – ma non è caduta in disuso l’utilità di conoscerlo, ove attentamente valutata – perché è crollata ogni prospettiva di transizione al socialismo, di lotta per il comunismo che, per alcuni sopravvissuti, è ormai una semplice aspirazione sentimentale e, di fatto, religiosa. Non vi è dubbio che il capitalismo – e fra l’altro la nostra ignoranza della società è tale che chiamiamo tutto capitalismo, senza riuscire a fare un minimo di distinzione decente tra diverse formazioni sociali – si sta dimostrando una società con molte mostruosità, soprattutto però culturali e di crollo della nostra plurisecolare civiltà. Adesso stiamo vivendo una crisi che rimette in discussione molte “conquiste” – di quelle che però i pensatori del disagio trattano da solo “materiali”, quindi da disprezzare – ma non si tratta della fine di una società “cattiva”, da cui poi sorgerà quella “migliore”. E’ una fase storica di riarticolazione dei rapporti (di potere) tra gruppi sociali e tra diverse formazioni ancora largamente sconosciute da chi insiste a caricare a testa bassa il capitalismo, e nulla più.
Ancora una volta è indispensabile mettere all’ordine del giorno l’analisi di questi rapporti sociali. Invece, chi ha ormai abdicato ad ogni intento di pensare criticamente, problematicamente, si abbandona ai lamenti sull’Uomo alienato o sulla Natura violentata. Si curassero il loro spleen in splendida solitudine e non ci seccassero! No, hanno scoperto che i gruppi dominanti – e soprattutto i subdominanti, i “cotonieri” reazionari e smaniosi di mettersi al servizio dei predominanti – li pagano bene, li ospitano nelle Università (ormai luoghi di abiezione e di paurosa ignoranza), li fanno scrivere sui giornali e occupare la TV. Inoltre vengono pubblicate tutte le più futili e ignobili aberrazioni del loro pensare da case editrici che ancora si impegnano nel distribuirle, nel finanziare convegni organizzati per rimbecillire viepiù il popolo e trasmettere il messaggio che ormai siamo alla fine della Storia, alla fine di ogni speranza; salvo quella di questi cialtroni che se la ridono fra loro e si divertono alle nostre spalle.
6. E allora noi torniamo testardamente ai rapporti sociali. Usciamo da un fallimento storico; fallimento solo se considerato in relazione all’obiettivo di trasformazione sociale che è stato l’intendimento dei comunisti per un secolo e mezzo o giù di lì. Ho già detto in altra occasione che la Rivoluzione d’ottobre (e altri eventi rivoluzionari che ne sono seguiti), considerata dal punto di vista dei suoi effetti di mutamento delle fasi storiche, non è fallita per nulla; ma non era questo l’obiettivo perseguito per tanto tempo e ormai alle spalle. Quindi su questo ragioniamo. Tenuto conto dei vari “ismi” ancora in campo, non credo proprio che il marxismo ci faccia brutta figura; rispetto al liberismo è a mio avviso all’avanguardia. Per cui solo i totalmente ignoranti della reale problematica di Marx si gonfiano il petto quando ripetono le loro stolte ricette sul libero mercato con i suoi “automatismi”, sul vantaggio per i consumatori delle liberalizzazioni che porterebbero all’abbassamento dei prezzi (ma dove mai vivono questi individui: o sono dementi o, piuttosto, dei furfantoni ben pagati da gruppi dominanti sempre più rapaci).
Quindi, in attesa che il movimento sociale effettivo stimoli nuovi pensieri e nuove ipotesi – che non s’inventano per genio di qualcuno, altrimenti dovremmo credere che da quarant’anni viviamo in un mondo di perfetti deficienti – dobbiamo sfruttare l’insegnamento del marxismo, ma anche del suo indubbio invecchiamento e logoramento. Le previsioni circa la dinamica della società capitalistica non si sono rivelate esatte; di conseguenza anche la pratica politica mossa da esse non ha minimamente conseguito gli obiettivi postisi. Secondo me, occorre intanto giungere ad alcune conclusioni da considerarsi abbastanza definitive. Innanzitutto, è indispensabile smetterla con l’idea di poter rappresentare, sia pure in schema, il reale, immaginando di esso una precisa struttura di relazioni, dotata di una dinamica che è in effetti una cinematica, un succedersi in momenti successivi di configurazioni diverse (da noi pensate e costruite via ipotesi) di detta “struttura” (inesistente nel reale). Si possono ravvicinare fin che si vuole questi successivi momenti, costruendo l’immagine di un movimento apparentemente continuo; il successo di questa nostra “rappresentazione” del reale dipende dalla posizione della configurazione iniziale e dalla supposizione di mutamento delle variabili secondo una successione che si pensa legata a specifiche leggi, deterministiche o probabilistiche.
Sempre, all’improvviso, appare una discontinuità che ci lascia “sorpresi”; non si tratta però di una vera discontinuità. Il problema è che la continuità costruita, ravvicinando quanto più possibile i momenti successivi, dipende pur sempre dalla “struttura” posta all’inizio come effettiva rappresentazione del reale. Poiché quest’ultimo è continuamente sfuggente, ci si trova ad un certo punto nella necessità di pensare una nuova struttura, che è una differente singolarità da cui riprende avvio la successione delle nostre supposizioni circa il suo movimento. La “discontinuità” dipende allora dalla nostra impossibilità di agire con efficacia nel reale continuo, fluido, oscillante, squilibrante. Siamo obbligati ad arrestarlo, stabilizzarlo, strutturarlo, ecc. per svolgere un’attività capace di produrre effetti; così comportandoci, tuttavia, i nostri schemi invecchiano e arriva il momento in cui essi non orientano più azioni dotate di senso e di incisività. Salvo i soliti discorsi “orientaleggianti” – che mai hanno risolto i problemi nelle formazioni sociali dimostratesi vincenti su scala mondiale, e che continueranno ad esserlo finché troveranno di contro a loro questi “santoni” imbelli – il nostro modo di agire nella moderna società non è in grado di discostarsi dal procedimento appena indicato.
Essenziale diventa allora prendere atto del problema e non sognare di avere rappresentato compiutamente, sia pure in schema, il reale e il suo effettivo movimento. Quel che accade nel Cosmo, dove i mutamenti possono anche riguardare decine o centinaia di milioni di anni, non ci interessa “qui ed ora”. E per favore lasciamo stare il fascino della microfisica. Atteniamoci al nostro mondo – macrofisico, da una parte, e sociale dall’altra – e consideriamoci individui agenti e pensanti in una data epoca storica della società. Se vogliamo riflettere e meditare su problemi sempre esistenti per noi umani, del tipo della vita e della morte con tutto ciò che “ci va dietro”, nessuna obiezione; è atteggiamento assai più che comprensibile, direi doveroso. Quando però pensiamo il nostro vivere nel cosiddetto “divenire storico-sociale”, cerchiamo di non perdere il buon senso e non lasciamoci andare a fantasie, che pretenderebbero di trascendere l’orizzonte spazio-temporale in cui siamo situati.
Sia nel fare storia (pensare il passato) sia nella previsione del futuro, è meglio utilizzare categorie teoriche (più o meno elaborate, talvolta perfino inconsapevoli) adatte alla formulazione di specifiche ipotesi (anche per quanto concerne il passato usiamo ipotesi); e si tratta pur sempre di teorie (e ipotesi) mediante le quali interpretiamo il presente al fine di potervi agire per giungere a determinati obiettivi. Queste categorie teoriche (e le ipotesi) sono transitorie, mostreranno infine la corda; più elastici saremo, prima riusciremo a cogliere la loro obsolescenza, la loro progressiva “riduzione di presa” sulla “realtà”. Quanto al movimento reale, lasciamolo tranquillo a svolgere il suo consueto lavoro di logoramento delle nostre pratiche, delle nostre speranze, delle nostre convinzioni di averlo fermato e poi indirizzato come piacerebbe a noi; esso se ne sbatte altamente dei nostri desideri, anzi potrebbe pure irritarsi e reagire con violenza se ci venisse in testa di averlo “imbragato”.
Non si creda che quanto appena detto abbia qualcosa a che vedere con il relativismo. Quest’ultimo è in definitiva incertezza, indecisione, soprattutto incapacità di scendere in campo prendendo posizione (partito); il tutto mascherato da capacità (molto limitata invero) di valutare vari corni del dilemma, da moderazione e tolleranza, ecc. (si pensi alla ben nota, e fastidiosa quant’altre mai, frase di Voltaire, una frase “buonista”, di piatto conformismo, perfettamente adatta al “ceto medio semicolto” odierno!). Quando si agisce veramente – dove l’azione contempla pure l’apparente inazione, il temporeggiamento, il surplace a volte assai lungo (come fanno i ciclisti velocisti) – e non semplicemente ci si dedica alle chiacchiere fatue e ideologicamente favorite dai vari gruppi dominanti per bloccare ogni azione a loro contraria, si deve assumere “partito” nel conflitto, nel contempo ponendo e analizzando nei particolari il campo in cui esso si svolge e i diversi “partiti” e interpretazioni del campo (in effetti, di campi differenti) assunti dai soggetti agenti nella lotta. Tuttavia, ci si deve preparare all’eventuale sconfitta, al riconoscimento di errori in questa lotta, ai mutamenti di fase che spiazzano alla lunga i vincitori non meno dei perdenti; ed esigono il riconoscimento, intanto in termini di principio, di nuove singolarità sopravvenienti (che sempre sopravverranno) e di cui ancora una volta occorrerà ricercare le categorie interpretative, ecc. ecc.
7. Fondamentale, nella lotta passata dei comunisti, sarebbe stata la coerentizzazione (nella teoria e nella pratica) del “modello” marxista utilizzato per interpretare, e prevedere, la dinamica sociale del capitale, l’evoluzione dei rapporti nella formazione sociale definita capitalistica; una definizione rimasta pressoché immutata da almeno due secoli a questa parte. Un conto è impiegare genericamente il termine capitale per indicare ogni dotazione – in strumentazioni produttive ed in moneta in quanto equivalente generale dei prodotti scambiati come merci – in possesso di particolari agenti (soprattutto, ma non solo, nella sfera economica della società); un altro è indicare un sistema di rapporti sociali di forma storicamente peculiare, perché questo è il capitale nella sua precisa accezione marxiana. Marx studiò il “modello” di questo capitale (sistema di rapporti, ecc.) nel suo primo luogo di definitiva affermazione, l’Inghilterra; ne trasse una serie di conclusioni e si disse convinto che esso si sarebbe esteso a tutto il mondo.
In effetti, tale “modello” fu surrettiziamente mutato in corso d’opera dai marxisti successivi, senza che nessuno si ponesse però troppi problemi in proposito. Inoltre, anche Marx ebbe incertezze; per esempio usò indifferentemente classe operaia e proletariato; e la classe in questione, quella che avrebbe dovuto emancipare tutta l’umanità emancipando se stessa dallo sfruttamento, fu da lui a volte considerata – e i marxisti successivi sempre così la considerarono – l’insieme degli operai in senso stretto, quelli addetti alle mansioni fondamentalmente esecutive (e di più basso livello, ripetitive, ecc.), mentre altre volte egli fece riferimento al lavoratore complessivo (“dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”; cap. XVII del libro III de Il Capitale). Si badi bene: proprio dai termini usati si comprende come Marx avesse in mente la dominanza, nei rapporti sociali della formazione a modo di produzione capitalistico, di quelli instauratisi nell’unità produttiva in senso stretto, nella “fabbrica”, risultato di una storica trasformazione della bottega artigiana, attraverso la fase transitoria della manifattura, descritta nelle pagine sulla accumulazione originaria del capitale; accumulazione intesa quale trasformazione di rapporti, non semplicemente crescita di “forze produttive oggettive”.
La fabbrica è il luogo della trasformazione di materie prime in prodotti finiti; si può considerare più genericamente la trasformazione di input in output, ma in ogni caso è sempre presente un preciso processo lavorativo che vede associati, in forma cooperativa, la figura dirigenziale e quella esecutiva.Bisogna allora ricostruire con maggiore precisione la dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico. Essa è innanzitutto fondata – questo il primo passo da compiere nell’analisi di detto modo (sociale, non tecnico-organizzativo) di produzione – sulla “spietata” concorrenza intercapitalistica, che mette in moto la centralizzazione dei capitali, da cui deriva non semplicemente il passaggio al capitalismo mono-oligopolistico, ma soprattuttoinvece la trasformazione di quel rapporto che è il capitale. Le “potenze mentali della produzione” – in definitiva la capacità di dirigere e innovare nei processi produttivi di fabbrica o comunque di trasformazione di input in output – spettavano nel più antico capitalismo concorrenziale al capitalista in quanto proprietario privato dei mezzi di produzione.
Con la centralizzazione dei capitali, tale capacità (detta poi, non da Marx, imprenditoriale) si sarebbe trasferita, per il Nostro, nel “primo dirigente” divenuto lavoratore salariato e facente ormai parte dell’operaio combinato (lavoratore collettivo cooperativo), mentre il capitalista sarebbe divenuto solo proprietario; una proprietà trasformata in particolare con l’affermarsi della società per azioni. Detto in termini molto più moderni, Marx avrebbe pensato una sorta di “rivoluzione dei tecnici” (in realtà un loro vero amalgama cooperativo con i lavoratori manuali ed esecutivi) e non quella “manageriale” teorizzata 70-80 anni dopo da Burnham. In ogni caso, da tutto ciò discendono le conclusioni di Marx in merito alla trasmutazione della società capitalistica in socialistica – un cambiamento da lui già creduto in atto ai suoi tempi; si legga anche soltanto l’ultimo paragrafo del capitolo sull’accumulazione originaria (il XXIV del I libro de Il Capitale)– che ho molte volte analizzata con dovizia di particolari nei miei scritti.
Una volta reso coerente il “modello” marxiano di avvento del capitalismo, del suo sviluppo e della transizione ad altra società – sempre in termini di trasformazione dei rapporti sociali e non per quanto concerne l’aspetto quantitativo dei capitali accumulati e centralizzati, con semplici modificazioni delle “forme di mercato” da concorrenziali ad oligopolistiche – si comprende più facilmente l’impasse della lotta comunista e infine il suo tramontare ed esaurirsi. Può restare la tristezza, la nostalgia, il rimpianto, sentimenti umanissimi; anche perché i sacrifici, le morti, la galera, la miseria, ecc. per conseguire quel risultato irraggiungibile sono stati immensi, altro che i crimini commessi dai comunisti come sostengono gli incalliti opportunisti (e “falsari”) che si sentono appagati in questa società! Se però da questi sentimenti si insiste a volere trarre l’indicazione di una (im)possibile ripresa della lotta per il comunismo, dobbiamo denunciare con molta chiarezza gli “zombi” incapaci di afferrare la realtà del loro essere “morti” (pur vivi) e i mascalzoni che sfruttano questa incapacità per offrire qualche piccolo servigio ben pagato da certi gruppi di dominanti.
8. Mi guardo bene dal ripercorrere qui, nelle sue varie tappe, la mia coerentizzazione del “modello” marxiano al fine di metterne in luce le manchevolezze e la necessità di superarlo, senza semplicemente ridurlo a indegni sbrodolamenti filosofici ma anzi mantenendone lo spirito scientifico e l’intento critico-problematico in merito alla “doppia faccia” della formazionecapitalistica, con la sua “superficie” (soprattutto mercantile) e le sue “viscere profonde”, dove si agitano i grandi sconvolgimenti che hanno determinato sia mutamenti non minori della suddetta formazione sociale sia l’obsolescenza della teoria con cui Marx volle rappresentarla nella sua strutturazione (in una data forma di rapporti antagonistici) e nella dinamica direzionata, oggettivamente, alla trasmutazione: prima socialistica e infine comunistica.
Mi è sembrato però non inutile riandare ad un vecchio dibattito, pur ripercorrendolo veramente a volo d’uccello. Tuttavia, m’interessava soprattutto mettere in luce alcuni aspetti salienti. Innanzitutto il come si dibatteva allora, soprattutto in campo marxista. Secondo me non esiste oggi la stessa serietà e lo stesso rigore nelle discussioni, almeno in quelle in cui continuo ad imbattermi. Bisogna inoltre ben dire che non vi è più, almeno nei settori intenzionati a criticare la moderna società, alcuna teoria comunemente condivisa. Allora ci si poteva accusare reciprocamente di “revisionismo” o di “estremismo infantile”, secondo l’abitudine invalsa da molti decenni, ma le categorie di riferimento erano comunque consolidate e ci si riusciva ad intendere nelle più aspre diatribe. Era inoltre chiara a chi partecipava al dibattito – a parte la solita “base militante”, soprattutto interessata a quello che dicevano i capi e capetti; che si trattasse di quelli del Pci o quelli dei vari gruppetti via via formatisi negli anni ’60 e ’70 – la posta politica in gioco dietro la solo apparente astrattezza di certi temi teorici, conditi anche di ampie carrellate storiche intorno alle vicende del cosiddetto movimento operaio e all’evoluzione del suo pensiero nelle diverse correnti riformiste e rivoluzionarie.
Infine, non si creda che alcune delle misere tesi attualmente alla moda – tipo la decrescita o l’eco-sostenibilità e altre piacevolezze di questi tempi di pauroso degrado intellettuale e culturale – non abbiano proprio nulla a che vedere con quel dibattito, pur se in forma di grave scadimento dell’intelligenza. Spesso si tratta di tesi che si rifanno, in modo più o meno aperto, alla totale dimenticanza della politica come campo di scontro e conflitto acuto tra gli interessi, sempre avvolti da specifiche ideologie, di dati gruppi sociali; in genere sempre quelli dominanti che ormai conducono le danze in questa fase storica. I “deboli” critici del capitalismo diventano semplici oppositori di ogni modernità e progresso (considerato un termine osceno) perché non comprendono più nulla della necessità di analizzare la forma dei rapporti sociali di ogni data fase storica, sia pure con la consapevolezza di una conoscenza mediante ipotesi sempre soggette ad errori e alla necessità di revisioni o di drastici cambiamenti di indirizzo.
Si preferisce oggi soddisfare l’orrendo ceto medio “semicolto” (quello detto anche “politicamente corretto”), il quale magari blatera di predominio di chi controlla la TV e poi ripete tutte le più stupide insulsaggini che da quelle “scatolette” sostengono, con atteggiamento da geni assoluti, i loro beniamini, intellettuali senza la benché minima ombra di un intelletto. Non credo ci sia molto altro da dire. Se volete, prendetela come una vacanza, ma credo non priva di interesse per chi capisce che la teoria scientifica è un settore rilevante del pensiero umano; ed è fondamentale anche per fornire elementi preziosi alla lotta politica. Oggi sembrano prevalere i “tecnici”, pessimi nella loro limitatezza di visione e nell’arroganza e presunzione con cui “sparano” i loro verdetti e le loro ricette. Ma non sono mai veramente dei tecnici; solo il loro linguaggio sembra tale. Dietro di loro, e da loro quindi “coperti”,vi sono ben altri poteri di cui sono i più vergognosi (e anche infami) servitori. Viviamo un’epoca di transizione, particolarmente povera di intelligenza. Insisto che, anche solo mezzo secolo fa, ci si muoveva, intellettualmente, nel “grasso che cola”. Non parliamo della prima metà del secolo XX o di ancor prima. Chiudiamo qui, senza rimpianti ma ricordando e facendo tesoro dei ricordi.