L’irrazionalità dei neoclassici
Gli economisti “classici” (Smith e Ricardo, soprattutto), avevano elaborato la teoria del valore lavoro. In essa si considera il valore dei beni prodotti in base al tempo di lavoro occorso nel produrli e il prezzo effettivo, in base all’andamento della domanda e dell’offerta, oscillante attorno al valore. Marx riprende questa teoria ma la rielabora in funzione di alcuni concetti determinanti, “sfuggiti” ai grandi economisti citati. In Marx vi è distinzione tra lavoro quale la fonte del valore e forza lavoro che ha essa stessa un valore/lavoro. Questa specificazione gli permetterà di elaborare la teoria del plusvalore, forma astratta del pluslavoro che realizza un plusprodotto, tratto distintivo del solo genere umano, l’unico animale ad avere una storia. Sono le forme di creazione e appropriazione di questo plusprodotto a creare la (sua) Storia. Tanto i classici che Marx ragionano su questa “storia” che una volta compiutasi si perpetua, evolvendosi, sulla testa dei singoli individui, i quali sono presi dentro rapporti economici che per Marx sono soprattutto sociali. I neoclassici, invece, abbandonano questo approccio sociale oggettivo per far discendere la stessa “socialità economica” da elementi psicologici soggettivi che essi hanno la presunzione di chiamare scelte razionali dei singoli.
Così tutta l’impalcatura economica viene ridisegnata. I neoclassici, ad esempio, pensano il valore secondo un rapporto quantitativo del bene commisurato alla richiesta e all’utilità per il consumatore. L’utilità del bene, per il consumatore, diminuisce man mano che la quantità del bene “desiderato” aumenta. L’ultima unità del bene disponibile ha quindi una utilità cosiddetta marginale. E’ questa a misurare il valore attorno a cui oscillerà il prezzo di quel bene. Gli individui si comportano tutti allo stesso modo, secondo costoro, la società è, pertanto, una mera estensione di questa “psicologia di gruppo” e partendo da questa constatazione vengono formulate, come scrive La Grassa ‘una serie di leggi economiche, eterne e immutabili, a partire dalla supposta relazione tra un individuo (un soggetto umano), dotato di bisogni, e i mezzi atti a soddisfarli. Queste leggi sono poi utilizzate per studiare la competizione nell’ambito del supposto “libero mercato”. Tale impostazione teorica… è servita a spostare l’asse della riflessione da un campo occupato dalle classi sociali – pensate quali soggetti collettivi “dominanti e dominati” (“sfruttatori e sfruttati”) fra loro in lotta antagonistica – allo spazio di una competizione (concorrenza) tra singoli soggetti “liberi ed eguali”. ‘
La formulazione neoclassica, pur essendo più superficiale della teoria classica del valore-lavoro e, ancor di più, dell’analisi marxiana del plusvalore, si è imposta come ideologia ufficiale dell’Occidente ma non solo. Tuttavia, le sue teoresi psicologiste, ammantate di scienza epidermica, si fondano su assunti indimostrabili o su aspetti estremamente selettivi, al fine di escludere tutti quelli che contrasterebbero con i suoi risultati. Per dirne una, che cos’è un comportamento economico razionale? Di quanta razionalità sono effettivamente capaci gli individui? Guardandomi intorno vedo gente davvero poco razionale ed io stesso compio scelte molto distanti da questa saggezza di “precisione”.
Ecco cosa ne pensa Hans Magnus Enzensberger, mi sento di condividere con voi la sua riflessione senza altri commenti. Buona lettura.
“Dopo la temporanea fine del comunismo, la teoria neoclassica si è offerta come surrogato dell’utopia perduta. Benché si sia presentata in forme piuttosto inconsistenti, non ha lesinato promesse, né le sono mancati i sostenitori. Verso la fine del XX secolo è stata corredata di elaboratissimi modelli matematici per la gestione del rischio. Quanto agli economisti, non sono arretrati neppure davanti alle previsioni sul futuro, e il fatto che le loro prognosi li abbiano portati a delle gran brutte figure, non li ha mai indotti a dubitare della propria smisurata competenza.
Ciò non significa tuttavia che nella corporazione manchino accaniti scontri tra ali e fazioni, comunque frequenti anche in altre discipline. Da decenni keynesiani e monetaristi lottano per la supremazia. Un analista finanziario non gradirebbe affatto di essere scambiato con un analista fondamentale o con uno studioso di cicli. Negli ultimi tempi alcuni economisti hanno addirittura notato che nella teoria classica le persone compaiono per lo piú solo come entità astratte. In questa logica, esse si riducono a un ruolo; sono salariati, oppure consumatori, contraenti di un’assicurazione oppure investitori, azionisti, imprenditori o risparmiatori, e in ognuno di questi ruoli hanno un unico interesse: massimizzare il profitto economico, nient’altro.
Su questo punto, in passato, non pochi classici erano già molto piú avanti. L’idea che le decisioni economiche si basino su una rational choice era loro completamente estranea. Nella sua Favola delle api del 1714, Mandeville afferma che sono proprio i vizi privati, come l’inganno, il lusso e l’arroganza, a rendere possibile la ricchezza pubblica. E, con toni meno polemici, Adam Smith lo seguí con la famosa immagine della «mano invisibile», che dovrebbe bilanciare l’insensata condotta individuale e volgerla verso il bene comune.
Di tutto ciò l’imperante dottrina neoclassica non ha “voluto sentir parlare. Ma da qualche tempo è insidiata da una nuova tendenza. Su questo punto il behaviourismo economico ha individuato una profonda lacuna. Vorrebbe analizzare il motivo per cui la gente non si comporta cosí come suppone la maggior parte degli economisti. In effetti detta teoria si è sí allontanata dal dogma dell’homo oeconomicus ragionevole, ma non dall’ambizione di creare modelli possibilmente ordinati. A tale scopo si riallaccia da una parte a schemi sperimentali empirici, come test e inchieste, dall’altra a metodi matematici come la “teoria dei giochi, oppure a teoremi legati all’evoluzione biologica o alla sociopsicologia.
C’è da dubitare che in questo modo essa riesca davvero a scoprire i trucchi dell’enigmatico comportamento dei «soggetti economici» immaginati. L’ambizione di emulare le scienze esatte fa sí che nei loro calcoli le persone si presentino solo come fantasmi statistici. L’amore per l’astrazione crea ai poveri studiosi continue difficoltà. Evidentemente non riescono a mostrarsi diversi da come sono, esattamente come le persone che studia come le persone che studiano.
Le quali, com’è noto, vanno soggette a umori, illusioni, ghiribizzi e abitudini di ogni tipo. Tendono al panico cosí come all’inerzia, alla cocciutaggine come all’istinto gregario. Molte sono disposte a qualunque sacrificio pur di salvare la faccia o le predilezioni sessuali, oppure di fare bella figura. All’economista tutto ciò non può che apparire deplorevole, insensato e ignorante. Ora, quantificare manie e angosce, fiducia e sventatezza, collera e ostinazione è certamente una fatica di Sisifo. Gli interrogati eludono interviste, sondaggi e test, mentendo spudoratamente non solo all’intervistatore, ma anche a se stessi. Per di piú contravvengono di solito alle piú semplici regole economiche.
Le loro transazioni quotidiane hanno spesso luogo fuori della circolazione del denaro e del credito. Allevano figli senza per questo esigere un adeguato compenso. Avviano relazioni sentimentali senza assicurarsi contro possibili sospensioni del credito, o anche senza un ragionevole calcolo di profitti e perdite. A volte lavorano semplicemente gratis, per pura alterigia lasciano cadere splendide occasioni, gettano il denaro dalla finestra, sprecano tempo prezioso, fanno affidamento sull’oroscopo o sulla fatwa di un teologo, regalano qualunque cosa senza nulla in cambio; e avanti cosí, per la disperazione dei teorici.
Per quanto riguarda le reali pratiche economiche della specie, si apre dunque un’enorme zona buia. I comuni concetti di lavoro nero, mercato nero e fondi neri si rivelano insufficienti e non rendono giustizia all’economia informale. Per fare un po’ di luce sulla questione, si dovrebbe bene o male scendere nel dettaglio, ossia rinunciare a tesi generalizzabili, lasciando la scienza agli scienziati, anche se allo specialista ciò non è consentito. Una microeconomia di questo tipo potrebbe uscirne senza grandi costi, mettendosi semplicemente a indagare nella cerchia dei familiari e dei conoscenti. Tanto per iniziare, potrebbe essere sufficiente una mezza dozzina di cavie umane per convincersi che su questo terreno prevale un’incredibile varietà.
Ci sarebbe ad esempio la tata polacca, che ogni due settimane torna a casa con settimane torna a casa con dodici ore di viaggio in autobus, per andare a occuparsi della madre affetta da emiparesi, e poi, con lo stesso autobus, rientra in Germania a fare le pulizie. Non ha mai compilato un formulario ufficiale, non possiede un conto in banca, non paga tasse e accetta solo contanti. Ma è di un’incrollabile onestà, perché sa che Gesú disapproverebbe ogni altro comportamento.
O anche l’imprenditore traboccante di idee, che fonda sempre nuove aziende, facendosi beffe di ogni tentativo d’inquadramento. Appena si comincia a guadagnare, abbandona infatti l’impresa prospera, perché la routine del successo lo annoia a morte, e perché, dichiara, «non ha bisogno di soldi».
Senza dimenticare il brillante bibliofilo, che ama invitare i conoscenti in un ristorante di classe, ma che, appena il cameriere porta il conto, constata con rammarico di aver dimenticato il portafogli.
C’è poi il medico di famiglia che s’impegna con passione in un coro amatoriale, ma una volta l’anno manca a una serie di prove, perché per settimane va in giro per il Burundi o il Congo, dove non solo lavora nel Pronto soccorso di Medici senza frontiere, ma s’impegna anche contro i bambini soldato e i signori della guerra; a quanto pare, i biglietti aerei li paga di tasca sua.
Nessuno capisce per quale motivo, malgrado le ripetute sollecitazioni, il giardiniere che viene a casa tre volte l’anno non mandi mai una fattura, sebbene la banca gli abbia bloccato il credito: come motivazione dice solo che ha pensieri piú urgenti. E com’è che il famoso romanziere non trova editori per il suo nuovo libro; com’è che è senza soldi, però dà lavoro a una cuoca e a una segretaria, che paga puntualmente; ed è proprio per questo che il negozio di alimentari all’angolo non gli fa piú credito, e a cena deve accontentarsi di un panino e di un uovo al tegamino.
Ora, come sa ogni lettore di giornale, la totale irrazionalità di quanti vengono impropriamente definiti normali consumatori e che tanto irrita e confonde gli economisti, non si limita soltanto a loro. Anzi, raggiunge il massimo livello nei protagonisti dell’economia finanziaria e nei loro consulenti. L’economista insignito del premio Nobel simula brillantemente un fallimento che fa tremare Wall Street. Appena uscito dal carcere, l’investitore al quale lo schema Ponzi ha fruttato sei mesi di confortevole galera, parte immediatamente per Singapore o per Dubai, dove intende aprire il prossimo fondo speculativo, e il solitario daytrader newyorchese non riesce a dormire perché la Borsa di Tokyo apre già alle tre del mattino, motivo per cui giorno e notte, per tenersi sveglio, ha sempre un sacchetto di cocaina a portata di mano, magari nascosto dentro il wc. Nella pagina economica casi del genere ricorrono al massimo in presenza di agenti che muovono grandi somme. Degli altri, la pubblica opinione quasi non parla. Presumibilmente agiscono lontano da logiche libresche, in aree economiche sulle quali nessuna facoltà universitaria è in grado di fornire delucidazioni. Solo ogni tanto la televisione privata getta un’occhiata fuggevole alle zone oscure, ad esempio nella serie Fuori dai debiti. Difficile temere oppure sperare che situazioni di questo tipo siano generalizzabili in modo coerente. Chi dunque vuole davvero sapere cosa la gente muove e cosa la fa muovere, dovrebbe forse partire da se stesso. Non tarderebbe a scoprire che la sua razionalità economica non è molto superiore a quella dei pazzi, dei quali ogni volta torna a stupirsi.”
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Hans Magnus Enzensberger