Prima base
I numeri da circo con i quali le classi dominanti tengono occupato il volgo diventano sempre più inverosimili. Tra politicamente corretto e cancellazione culturale la lotta quotidiana si fa bieca e volgare mentre i grandi temi dell’epoca storica, quelli che realmente contano, finiscono sullo sfondo, dietro la sceneggiata di una presunta dittatura sanitaria. Si fanno grandi consessi internazionali per discutere del sesso degli angeli e si stringono intese bilaterali che non servono a nulla o servono soltanto ai nostri sedicenti partner. Eppure, c’è un argomento che potrebbe unificare gli interessi di tutta l’Europa in una fase storica di crescente ridefinizione degli equilibri mondiali e di riconfigurazione dei rapporti di forza sullo scacchiere globale. Gli stolti affermano che questa materia è troppo complicata e si accontentano di inventare falsi pretesti libertari, di solito uguali e contrari al discorso pubblico ufficiale, pur di non affrontare il fulcro della questione. L’Europa ha una vera priorità da trattare per dare alla sua autonomia decisionale la concretezza che da sempre manca: l’occupazione decennale del suo territorio, testimoniata da basi straniere collocate nelle sue aree strategiche. In passato, quando ancora esisteva l’Urss, gli americani giustificavano la loro presenza continentale in virtù della divisione del mondo in due blocchi irrimediabilmente contrapposti, separati da approcci dirimenti in ogni ambito. Oggi, questa bisecazione può essere mantenuta esclusivamente con una narrazione immaginaria. Il nemico alle porte è diventato colui che parla di un inesistente nemico che si materializza, di volta in volta, a seconda degli obiettivi della superpotenza atlantica.
La sovranità limitata dell’Italia (ma anche dell’Europa) è conseguenza di questi presidi militari Nato e Usa sul proprio suolo, anche se la gestione viene formalmente affidata a corpi autoctoni. Ugualmente, i nostri servizi segreti sono pressoché controllati dagli Stati Uniti. Siamo pertanto privati degli elementi essenziali di proiezione e protezione dei nostri interessi geopolitici. Già Machiavelli insegnava che appaltare la propria difesa a mercenari o eserciti allogeni, senza avere la forza di liberarsene, significa venire oppressi. Albert Caraco diceva che “per un paese che fa la Storia, ce ne sono più di venti che la subiscono, e in questi venti ogni partito, quale che sia, è il partito dello straniero, si proclamasse pure nazionalista”. In Italia, anche il partito più sovranista, è un servo degli americani e sfoga il suo presunto nazionalismo vellicando gli istinti più bassi della popolazione. Per questo, con Gianfranco La Grassa, abbiamo scritto un libro intitolato la forza nuova, da intendersi quale slancio politico e culturale, ma anche emotivo, viatico di una futuribile nuova forza che ponga in cima alla sua agenda di iniziative la prospettiva di uno sganciamento dalle egemonie subite e non ancora tollerabili.
Da Limes, 10/12/1999
Il 4 aprile 1949 viene firmato il Trattato del Nord-Atlantico8. Per quanto riguarda il tema delle basi a tale Trattato «fa capo la disciplina “ombrello” del regime delle installazioni militari»9. Il 19 giugno 1951 viene stipulato il Trattato di Londra10 riguardante lo status delle forze militari dei paesi Nato (noto come Sofa, Status of forces agreement) e il 28 agosto del 1952 il protocollo riguardante lo status dei quartier generali militari internazionali istituiti in base al Trattato del Nord-Atlantico nei vari paesi della Nato11. Parallelamente vengono firmati il 27 gennaio del 1950 l’Accordo bilaterale Usa-Italia sull’assistenza difensiva reciproca (Accordo di Washington) e il 7 gennaio 1952 l’Accordo bilaterale sulla sicurezza reciproca (Accordo di Roma)12. Quest’ultimo impegna la Repubblica italiana a «dare, compatibilmente con la sua stabilità politica ed economica, il pieno contributo consentito dalla sua manodopera, dalle sue risorse, dai suoi mezzi e condizioni generali economiche, allo sviluppo ed al mantenimento della propria forza difensiva ed alla forza difensiva del mondo libero»13.
Sulla base di questi trattati14 Italia e Stati Uniti il 20 ottobre del 1954 concludono un accordo-quadro considerato di massima segretezza15 che disciplina concretamente a livello bilaterale le basi e le infrastrutture concesse in uso agli americani sul territorio italiano.
L’accordo è la chiave di volta della presenza militare americana in Italia, il principale mai firmato dai due paesi16.
Limes è in grado di rivelare l’elenco delle installazioni previste da tale accordo. Si tratta di basi aeree nella zona di Udine, a Montichiari, Aviano, San Vito dei Normanni, Amendola, Decimomannu, del complesso di installazioni a Napoli (compreso di uso dell’aeroporto di Capodichino e di Pozzuoli), delle basi navali di La Maddalena (sommergibili), Augusta, Sigonella (aero-navale) con appoggio a Catania, della caserma dell’esercito di Camp Darby (vicino Livorno) e di strutture tecnico-logistiche a Treviso, Ciampino, Verona e Venezia (possibile – ma probabilmente mai realizzato – deposito munizioni e uso del porto).
Per quello che maggiormente ci interessa, cioè lo status delle basi concesse in uso agli americani, l’accordo segreto del 1954 regola inoltre l’uso delle installazioni e i rapporti tra militari americani e italiani.
Infatti all’art. 2 esso obbliga gli Stati Uniti ad «avvalersi (delle basi) nello spirito e nel quadro della collaborazione atlantica, di utilizzarle per assolvere gli impegni Nato e in ogni caso a non servirsi delle dette basi a scopi bellici se non a seguito di disposizioni Nato o accordi con il governo italiano». Per quanto riguarda il comando l’art. 4 precisa: «Le installazioni sono poste sotto comando italiano e i comandi Usa detengono il controllo militare su equipaggiamento e operazioni». Infine per spazzare via ogni dubbio in possibili diatribe sulla proprietà interviene l’art. 17: «Le strutture costruite con fondi Usa su terreni italiani diventano proprietà italiana».
Come negli accordi riguardanti le installazioni in altri paesi europei, le basi sono italiane e sottoposte a sovranità e controllo italiani, i militari alleati devono render conto, almeno sul piano formale, del loro operato.
Se poi le autorità italiane abbiano attuato tale controllo è questione che analizzeremo in seguito. Tornando allo status delle basi, gli accordi non stabiliscono una scadenza, non trattandosi tra l’altro di un «affitto» – ma gli accordi tecnici successivi a quello del 1954, che prevedono struttura e spiegamento delle forze, possono essere modificati su richiesta di uno dei due governi. L’evoluzione tecnica e le modifiche del quadro strategico hanno periodicamente imposto infatti un aggiornamento di tali accordi.
Beninteso è sempre possibile per il paese ospitante recedere dagli accordi, come testimonia il caso spagnolo negli anni Ottanta17.
Per quanto riguarda le installazioni più prettamente Nato, sono regolate dagli accordi dell’Alleanza atlantica. Si deve distinguere da una parte tra strutture comuni dell’Alleanza – in genere i quartier generali, le installazioni radar e di telecomunicazioni, strutture particolari come il Defence College di Roma18 – e dall’altra basi in tutto e per tutto italiane «messe a disposizione» della Nato e inserite nella difesa integrata dell’Alleanza.
Virtualmente, in caso di necessità tutte le basi italiane possono essere «messe a disposizione» della Nato, in caso ad esempio di «guerra totale», o comunque un gran numero come si è verificato nella guerra del Kosovo.
L’Italia ospita a Napoli il quartier generale Afsouth della Nato, il Comando Sud dell’Alleanza19. Afsouth è competente su un’area di responsabilità che comprende 5 paesi membri (Grecia, Ungheria, Italia, Spagna e Turchia) e va dallo Stretto di Gibilterra al Mar d’Azov, comprendendo il Mediterraneo e il Mar Nero. Dal punto di vista della struttura militare della Nato, Afsouth20 è sottoposto al Comando alleato europeo (Ace) e a sua volta ha alle sue dipendenze 6 comandi subordinati: le Forze aeree alleate Sud (Airsouth) e le Forze navali alleate (Navsouth), entrambi di stanza a Napoli21, e i 4 comandi subregionali di Verona (Jcsouth), di Larissa (Grecia, Jcsouthcent), di Izmir (Turchia, Jcsoutheast) e di Madrid (Spagna, Jcsouthwest).
Spesso la stessa località ospita strutture «americane» e «Nato» o addirittura la stessa base accoglie truppe a diverso titolo (americane, Nato e italiane). In alcune installazioni è previsto infatti un uso combinato delle forze mentre in altre basi «messe a disposizione» della Nato sono presenti forze permanenti dell’Alleanza, soprattutto americane come nel caso delle armi nucleari a Ghedi (altre armi nucleari sono presenti nella base «americana» di Aviano) o gli Awacs a Trapani, o il caso di Vicenza, sede dello storico Camp Ederle americano e della quinta Allied tactical force (Ataf) della Nato con un battaglione di paracadutisti, o ancora il poligono di Decimomannu utilizzato dalle forze italiane, Nato e americane. Inoltre da molte basi dipendono installazioni minori più o meno distinte dalle precedenti, come è il caso per Coltano e Stagno per Camp Darby (tra Livorno e Pisa); addirittura intere basi non sono concentrate in un’unica struttura ma per motivi di spazio distribuite su tutto il territorio di una determinata zona, come è il caso della base di Aviano22.
Tutte queste caratteristiche hanno provocato la frequente confusione tra basi «Nato» e «americane». In realtà si tratta di una differenza perlopiù formale. Infatti in base all’accordo del 1954 la principale attività delle basi americane si svolge in ambito Nato, e in quanto tali sono inserite nel dispositivo di difesa integrato. Si tratta comunque di basi italiane inserite in un dispositivo alleato, quindi queste sovrapposizioni sono normali. Inoltre tutti i militari alleati in Italia, anche nelle basi «americane», hanno lo stesso status giuridico, previsto dal Sofa23.
Nel caso di operazioni Nato non nascono problemi di status: l’Italia in quanto paese membro partecipa a Bruxelles alle decisioni che possano coinvolgere le installazioni italiane. Una differenza di sostanza scatta quando si tratta di azioni militari portate avanti solo dagli Stati Uniti senza l’avallo della Nato. Nel qual caso però, come previsto dagli accordi, è necessario l’assenso del governo italiano. In alcuni casi l’Italia ha negato agli americani l’uso delle basi terrestri. È avvenuto nel 1973 quando durante la guerra del Kippur gli americani hanno chiesto di utilizzare le basi per rifornire Israele24, nel caso di Sigonella25, e nel caso dei raid americani contro la Libia nel marzo-aprile 198626.
Un caso a parte è rappresentato dalle forze navali – la Sesta Flotta – più autonome perché capaci di essere operative nelle acque internazionali senza l’apporto diretto della base navale.
L’importanza strategica delle basi
Il ruolo strategico delle basi italiane è cambiato nel tempo e di conseguenza sono mutati anche il numero e le caratteristiche delle installazioni alleate.
Nella prima fase della guerra fredda l’Italia aveva per l’Alleanza una grande importanza geopolitica in quanto paese di frontiera. Sul piano strettamente militare invece, in caso di guerra totale tra i blocchi, le basi nell’Italia settentrionale erano considerate a rischio, in quanto le prime a essere colpite, e quindi ospitavano forze spesso a rotazione, non permanenti, per un più facile ripiegamento. Più importanti invece erano le installazioni navali e aeronavali nel Meridione e nel Tirreno.
Per quanto riguarda gli accordi bilaterali, nel 1954 venne firmato un memorandum per la base di Sigonella per stabilire le procedure di acquisizione dei terreni, all’interno del quale fu sottolineato che tutte le azioni del comandante Usa che potessero interferire con azioni della forza italiana dovevano essere concordate con il comandante italiano. Ricordiamo poi tra il 1957 e il 1959 cinque protocolli, per l’installazione di Boscomantico, per depositi e/o stazioni di telecomunicazioni a Livorno, in provincia di Catanzaro, a Grosseto, a Taranto e Palermo. Tralasciando altri accordi tecnici, arriviamo al protocollo aggiuntivo del 1979 per il poligono di Pachino a Sigonella. Intanto dal 1967 la Sesta Flotta americana è di stanza a Gaeta28. Fino agli anni Settanta si assiste quindi al massiccio rafforzamento del «fianco» meridionale dell’Alleanza29.
In una seconda fase, negli anni Ottanta, l’Italia continua a essere un paese di frontiera ma, per motivi interni ed esterni all’Alleanza, le basi italiane acquistano notevole importanza strategica.
A Bruxelles nel 1979 viene deciso lo spiegamento degli euromissili americani in reazione agli SS-20 sovietici, che modificavano lo scenario strategico in Europa. Olanda, Belgio, ma soprattutto la Germania per motivi di poltica interna non se la sentono di essere i primi paesi ad ospitare i missili e di fatto condizionano il loro assenso a quello dell’Italia, che fa invece una storica e decisiva scelta: dal 1983 comincia lo spiegamento dei Cruise e dei Pershing-2 nella base di Comiso30 in Sicilia, che diventa il simbolo della reazione americana ed europea all’offensiva sovietica e uno dei tasselli che porterà poi al crollo dell’Unione Sovietica 31.
Nel 1981 il governo greco di Andreas Papandreu adotta un atteggiamento molto critico verso le basi americane. Nel 1986 gli spagnoli si pronunciano con un referendum contro la partecipazione della Spagna alla struttura militare della Nato. Già nel dicembre 1982 il premier spagnolo Felipe González aveva annunciato l’esigenza di un profonda revisione degli accordi sulle basi, ritenuti «limitativi dell’autonomia della politica estera spagnola»32. L’Italia diventa il principale caposaldo degli Usa e della Nato nel Mediterraneo. Di conseguenza ad Aviano vengono trasferiti gli F-16 spagnoli, rilanciando il ruolo della base33.
Il ruolo strategico delle basi italiane cambia ancora con la fine della guerra fredda.
L’Italia perde il ruolo di paese di frontiera, ma diventa fondamentale come retrovia rispetto alle guerre nei Balcani e all’instabilità e ai pericoli provenienti dalla sponda Sud del Mediterraneo. Se perde importanza dal punto di vista politico generale, ne acquista molta di più dal punto di vista militare: le basi italiane sono quasi insostituibili.
Per motivi di opportunità politica (estrema vicinanza con i luoghi delle possibili crisi, problemi con i paesi vicini) ed economica (troppo costoso costruire nuove basi, rinunciando agli investimenti – anche recenti – compiuti nelle installazioni italiane) le basi di paesi Nato come Ungheria, Grecia e Turchia, o quelle in Bosnia, Albania e Kosovo non rappresentano, per il momento, una valida alternativa.
Nel corso degli anni alcune basi «americane» minori hanno visto ridotto il proprio ruolo o sono state «abbandonate», come nel caso di San Vito dei Normanni34. Il 17 marzo 1999 il sottosegretario alla Difesa Massimo Brutti dichiara alle commissioni riunite di Esteri e Difesa della Camera che oggi in Italia in base agli accordi bilaterali con gli Usa ci sono dieci installazioni che ospitano circa 13 mila militari americani e 2 mila dipendenti civili e per quello che riguarda la Nato elenca 18 comandi di vario rango35.
Sul piano degli accordi bilaterali il 2 febbraio del 1995 viene firmato un memorandum d’intesa tra Italia e Stati Uniti che viene poi reso pubblico nel marzo 1999 dal presidente del Consiglio D’Alema, in seguito alle polemiche sul Cermis. Si tratta di un accordo-quadro generale, in cui le parti riconoscono l’opportunità di uniformare la redazione degli accordi tecnici, e sulla cui base standardizzare i successivi accordi. Il memorandum non incide però sull’accordo del 1954 e successivi, ma vale solo per il futuro; inoltre, proprio perché si tratta di un accordoquadro e non specifico, è abbastanza generico. Non si ha notizia di accordi successivi al 1995. È logico supporre però che il memorandum del 1995 sia stato realizzato per facilitare l’aggiornamento degli accordi esistenti. Inoltre, probabilmente i progetti di ampliamento e ristrutturazione previsti ad Aviano36 e Napoli richiederanno nuovi accordi, a meno che non siano realizzati sotto il «cappello» della Nato. Il quotidiano Il Foglio in un editoriale del 12 maggio 1998 chiedeva retoricamente se l’allora premier Prodi e il ministro della Difesa Andreatta avessero firmato «i protocolli di rinnovo delle basi americane in Italia», ipotizzando un rinnovo di altri cinquant’anni barattato con la nomina dell’ammiraglio Guido Venturoni al vertice del Comitato militare atlantico, massimo organismo militare della Nato37.
Oggi, pur restando in funzione basi come Camp Darby, Camp Ederle, La Maddalena, le forze americane in Italia sono concentrate nelle basi di Aviano, nel complesso di Napoli e a Sigonella, che rappresentano i cardini dello schieramento. Molto significativi a questo proposito sono i programmi di investimenti in corso o previsti ad Aviano e Napoli. Aviano 2000 è il nome del programma di espansione e di ristrutturazione in corso nella base italiana per un investimento di 500 milioni di dollari, finanziati per il 60% dai fondi comuni Nato e per il resto dagli Stati Uniti38. Altrettanto importante sono gli investimenti a Napoli, che riguardano tra l’altro il nuovo centro di intelligence e di comunicazione di Capodichino, con collegamenti anche con le basi del Golfo Persico39. Il progetto di costruzioni per migliorare la qualità della vita nel complesso di installazioni di Napoli ammonta anch’esso a 500 milioni di dollari40.
Per capire l’importanza del fianco Sud della Nato, anche dal punto di vista Usa, è opportuno citare le parole dell’ammiraglio americano Joseph Lopez, ex comandante del settore. «È mia opinione che la Regione meridionale non è solo la più grande e complessa in Europa, ma probabilmente la più difficile nel mondo, per motivi geografici, culturali, politici, economici e militari. (…) Ci sono più di 40 nazioni che circondano l’area (…) e molte di loro presentano caratteristiche di instabilità per fattori politici ed economici, estremismi religiosi e politici, problemi demografici, movimenti di rifugiati e immigrazione illegale»41.
In un’altra occasione l’ammiraglio ha poi ricordato che «il 90% del commercio della Grecia e della Turchia e il 70% di quello italiano passa attraverso circa duemila navi mercantili attraverso le rotte del Mediterraneo. E tutte le importazioni di petrolio dal Medio Oriente della Grecia e dell’Italia, e circa la metà di quelle di Francia, Germania e Spagna, passano per le medesime rotte»42.
A tale proposito è opportuno ricordare la notevole attività della Sesta Flotta nel Mediterraneo negli ultimi anni, che ne mette a dura prova le risorse. Per fare un esempio, la nave Philippine Sea è stata chiamata nel dicembre 1998 a sostenere contemporaneamente le operazioni verso la Jugoslavia, le operazioni militari americane contro l’Iraq e a partecipare all’assistenza alla difesa israeliana contro i missili Scud che l’Iraq avrebbe potuto lanciare 43.
È possibile valutare in termini economici il valore delle basi italiane?Non sono disponibili dati in Italia, ma ci viene in aiuto il Rapporto sul contributo degli alleati alla difesa comune redatto ogni anno dal Dipartimento della Difesa Usa per il Congresso. Attraverso complessi meccanismi, in tale rapporto l’apporto dei paesi alleati degli Usa in tutto il mondo viene valutato in contributi indiretti (mancato guadagno del paese ospitante per il fitto delle installazioni o il pagamento delle tasse cui i militari sono esentati) e contributi diretti, cioè le spese pagate direttamente dal paese alleato. Secondo il rapporto del 1999 (dati riferiti al 1997) l’Italia ha contribuito per oltre un miliardo di dollari (all’interno di una forbice tra 1,093 e 1.148 miliardi dollari), con una notevole crescita rispetto ai 528 milioni di dollari dell’anno precedente44. Ma a ben vedere le cifre sono costituite per intero da contributi indiretti, cioè l’uso delle basi. La Germania invece, altro importante alleato europeo, ha contribuito sia nel 1997 che nel 1996 per circa 1,3 miliardi di dollari (di cui circa 20 milioni di dollari di contributo diretto nel «’97 e 56 milioni nel ’96)45.
Nel 1994, quando il rapporto indicava un giudizio di valore, il contributo italiano veniva considerato «moderato» mentre quello tedesco «sostanziale». All’interno del rapporto del 1999 l’Italia viene considerata quasi esclusivamente per l’importanza delle sue basi e della sua posizione geografica. È interessante comparare i dati dei due paesi europei con quelli del Giappone, in un’area priva di un sistema di difesa collettivo paragonabile alla Nato: nel 1997 Tōkyō ha contribuito per circa 4 miliardi di dollari, di cui circa 3 miliardi di contributi diretti.
Affermata dal punto di vista formale la sovranità e il controllo dell’Italia sulle basi alleate sul suo territorio, due casi molto importanti possono aiutarci a capire come sia regolato in concreto il rapporto tra Italia e Stati Uniti in materia.
A) Nel 1985 il sequestro dell’Achille Lauro in acque egiziane da parte di terroristi palestinesi si conclude con un accordo che prevede la liberazione degli ostaggi e un salvacondotto per i sequestratori.
Successivamente si viene a conoscenza che un passeggero americano di origine ebraica è stato ucciso durante il sequestro. Caccia americani costringono l’aereo egiziano su cui stanno fuggendo i terroristi ad atterrare alla base di Sigonella, con l’intenzione di trasferirli negli Stati Uniti. L’Italia, che ha la giurisdizione perché la nave è considerata territorio italiano e la base è italiana, arresta i dirottatori ma lascia andare via Abu Abbas, considerato dagli americani la mente del sequestro, pur non avendo preso parte all’azione e anzi avendo collaborato alle trattative46. Nella base di Sigonella intanto si è sfiorato lo scontro tra alleati. Soldati americani hanno circondato l’aereo egiziano e a loro volta sono stati circondati dai carabinieri italiani.
Per quello che ci interessa, in questo caso sono da sottolineare alcuni aspetti.
Il presidente Reagan con una telefonata informa all’ultimo momento il presidente del Consiglio Bettino Craxi dell’azione, ritenendo di ottemperare alla richiesta di autorizzazione prevista dagli accordi bilaterali. Secondo una documentata ricostruzione degli eventi, gli americani sono sorpresi dall’atteggiamento italiano: la richiesta di collaborazione viene considerata una semplice formalità e l’opposizione italiana viene interpretata come un affronto, a riprova della pretesa inaffidabilità italiana47.
Da ciò si potrebbe dedurre – alcuni l’hanno fatto – che gli americani considerassero le basi in Italia quasi una loro proprietà e che il comportamento italiano fosse un’eccezione a un consueto atteggiamento di acquiescenza48. Bisogna però considerare alcuni importanti particolari. A gestire – disastrosamente – la vicenda da parte americana non è il Dipartimento di Stato – che è contrario su tutta la linea – ma il partito dei «duri» dell’amministrazione americana, spalleggiato da Reagan, composto da persone (ma lo si sarebbe saputo solo in seguito) che, per usare le parole di Giulio Andreotti, «erano gli stessi pasticcioni dell’Irangate»49.
Un altro aspetto interessante nella vicenda di Sigonella viene riportato da Antonio Badini, l’allora consigliere diplomatico di Craxi. Il tempestivo intervento dei carabinieri italiani si deve alle capacità del comandante italiano della base, il colonnello Annichiarico, e all’ordine impartito a questi dal governo attraverso l’ammiraglio Martini, capo del Sismi, saltando la normale e probabilmente più lenta catena di comando naturale che fa dipendere il responsabile italiano dal proprio Stato maggiore, e questi dalla Difesa e dal governo. Una tempestività che fa saltare il piano americano di porre l’Italia davanti a un fatto compiuto.
😎 Il 3 febbraio del 1998 un EA-6B Prowler dei marines di stanza ad Avianoe in volo di addestramento trancia la funivia del Cermis, provocando 20 morti. Tralasciando la cronaca dei pur importanti avvenimenti successivi50, è fondamentale sottolineare che l’attenzione si è concentrata sulla questione della giurisdizione sui piloti americani accusati dell’incidente, trascurando la ben più importante questione degli errori nella catena di comando della base e della loro paternità. Infatti non è realisticamente possibile mettere in discussione in questi casi la giurisdizione del paese di appartenenza dei piloti, perché regolata dal Sofa, un trattato firmato da tutti i membri dell’Alleanza atlantica, una regola tra l’altro di cui beneficiano anche i militari italiani all’estero.
Invece, ben più rilevante è la questione di come sia stato consentito agli aerei impegnati nell’addestramento per le operazioni nei Balcani di violare le regole di volo previste. Italia e Stati Uniti hanno dato vita a una commissione bilaterale presieduta dal generale italiano Lorenzo Tricarico 51 e dall’ammiraglio americano Joseph Prueher. Le sette raccomandazioni della commissione per evitare nuovi incidenti sono state accolte dai due ministri della Difesa nell’aprile del 1999, dando vita a nuove regole nella gestione della base di Aviano52. Si stabilisce che il comandante italiano ha un maggiore controllo sui voli (ha il potere di annullarli) e gli americani devono certificare la preparazione dei piloti, con una differenziazione tra i militari in servizio permanente nella base e quelli in servizio temporaneo (e quindi meno preparati alle missioni sul posto).
Ciò lascia supporre che in precedenza il controllo italiano fosse molto flebile. Supposizione confermata dal fatto che la commissione riafferma la responsabilità americana nell’incidente sulla base dei princìpi del Sofa; quindi erano gli Usa ad avere il pieno controllo dell’aereo.
È necessario sottolineare che gli eventi di Sigonella e del Cermis sono casi eccezionali, ma proprio per la loro eccezionalità sono le uniche occasioni in cui l’opinione pubblica viene informata su temi fondamentali come la gestione delle basi, essenziale per la politica estera e di sicurezza dell’Italia.
Si può concludere, soprattutto alla luce dell’esperienza di Sigonella, che i rapporti sostanziali e non formali tra Italia e Stati Uniti circa le basi non sono regolati da uno schema semplicistico: completo potere ai «padroni» americani o pieno controllo italiano – come piacerebbe ai fautori dei due tradizionali schieramenti italiani orfani della guerra fredda – bensì su un equilibrio mutevole tra i diversi interessi, dipendente dalle relazioni del momento tra i due paesi e dai comportamenti di volta in volta assunti dai protagonisti politici e militari di entrambe le parti.
Dopo la tragedia del Cermis e la scandalosa soluzione giudiziaria, da più parti si sono levate voci, anche autorevoli, a favore di una rinegoziazione delle basi53, soprattutto in considerazione del fatto che la guerra fredda è finita ed è quindi cambiato lo scenario internazionale.
È importante sottolineare però che tale rinegoziazione non può che sottintendere una rielaborazione della politica di sicurezza italiana, con i costi che comporta l’abbandono del tradizionale paradigma «basi in cambio della sicurezza».