Inevitabilità della guerra

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Inevitabilità della guerra.

Alla base della vita in generale, dunque anche della vita sociale, c’è lo scontro, la tensione, il conflitto. Quando c’è equilibrio, questo mito da piccoli intellettuali che confondono la propria tranquillità con le leggi dell’universo, c’è la stasi, la morte termica, il trionfo dell’entropia e il ritorno alla materia inerte,dalla quale l’esistenza è fuoriuscita, non si sa per quale scherzo del destino.
Ciò che è in pace è immobile, non è vita e non è in vita. Persino i sassi si muovono anche se i loro movimenti non ci sono immediatamente visibili. Come credete si siano formate le montagne e come queste continueranno a cambiare nel susseguirsi delle ere geologiche? Sempre che il pianeta resti vivo e non dissipi tutta la sua forza fino a diventare un morto freddo e privo di energia libera. Prima o poi avremo questo equilibrio cioè non ci sarà più niente. Il cosmo in equilibrio termodinamico è il vero nulla. Per questo possiamo definire questi pensatori pacifisti o pacifici delle assolute nullità.

Tuttavia, ci sono intellettuali che vedono le cose per quelle che sono, ascoltano la natura e le sue varie guise, e non sovrappongono la realtà ai loro pii desideri.

Estraggo un passaggio da un testo inedito di Gianfranco la Grassa di prossima pubblicazione. La Grassa si inserisce nel solco di riflessioni rare del panorama teorico. Ho già riportato altrove quelle di Ortega y Gasset. I concetti lagrassiani seppur diversi per gli esiti non se ne distanziano molto. A voi la lettura.

Il disordine crea lo scontro e l’inimicizia sempre più acuta tra i gruoppi di potere delle potenze. E alla fine, poiché non si può andare ognuno contro ogni altro, si formano delle alleanze finché si arriva al conflitto acuto tra due gruppi di potenze con al seguito i paesi (le formazioni particolari) che fanno parte della loro sfera d’influenza. E tale conflitto è quello che si chiama guerra. Non a caso, un pensatore di valore come Von Clausewitz la definì “continuazione della politica con altri mezzi”. Perché la guerra non è lo scatenamento di sentimenti disumani, un orrore ingiustificabile per esseri razionali come gli uomini. E’ invece il mezzo che alla fine diventa necessario per mettere di nuovo ordine (mai completo, ma accettabile) nell’organizzazione della formazione generale (mondiale). Quindi la guerra è una delle modalità della Politica.
Quando la guerra ha deciso il nuovo ordine mondiale, ha semplicemente definito la nuova gerarchia di potere tra i vari paesi, gerarchia che assicuri un periodo di “pace”, che non è altro che lo scatenamento di conflitti meno acuti e non condotti con mezzi di distruzione e di uccisione di molti esseri umani. Ma anche il conflitto detto “guerra” dovrà sempre esistere finché c’è vita. Una vera pace universale c’è solo con la morte generale di tutto ciò che esiste. Non c’è un solo organismo al mondo, fosse pure la piccola molecola, in cui non c’è conflitto finché c’è vita. Vogliamo infine capirlo? Questo non significa amare la guerra, che conduce certo a drammi e dolori di immane portata. Significa solo prendere atto e capire che il dramma e il dolore sono parte essenziale della vita in “questo mondo”. Chi crede nell’“altro”, rinvii a quello ogni speranza di pace e amore; e si rassegni a quanto avviene in questo mondo e vi prenda parte.

….Il conflitto più importante e decisivo è insomma quello tra paesi, in particolare tra le potenze, quando si giunge ad una fase di multipolarismo che crea il massimo disordine mondiale. Sono questi i conflitti, sfocianti spesso nella “guerra” tra potenze, che determinano vere svolte storiche, l’avvento di una nuova epoca del sistema dei rapporti sociali e dunque della determinazione sociale di individui e gruppi nei vari paesi. Sono questi conflitti – a volte non “mondiali”, anche se questi sono i più rilevanti nel produrre effetti di massima portata – a provocare la crisi di dati ceti dominanti in alcuni paesi in guerra. Il sistema sociale di tali paesi (anche uno solo come accadde nel 1917 in Russia), non più adeguatamente diretto e coordinato, entra in disgregazione, in disfacimento. Esplode dunque il cosiddetto malcontento popolare, che diventa vera ribellione al vecchio ordinamento di quel dato sistema di rapporti, ormai incapace di organizzare adeguatamente lo svolgimento della vita e attività dei diversi gruppi disposti in verticale (gli “strati” sociali).
La cosiddetta “massa” (che non ha nulla a che vedere con il concetto di “classe”) è del tutto inconsapevole di ciò che necessita per riportare il paese ad una nuova organizzazione delle funzioni sociali, pur esse in fase di modificazione. Occorre che vi siano gruppi dirigenti (dei quali ne prevale quasi sempre uno solo) con idee via via più precise sulla riorganizzazione del paese, con profondo mutamento nei reciproci rapporti tra i gruppi sociali, che restano comunque sempre disposti in verticale pur con vari rovesciamenti di posizione tra di essi. La riorganizzazione porta infine, dopo vari scontri e violenze di notevole portata, ad un nuovo sistema di rapporti sociali che consente una maggiore tranquillità e relazioni meno acutamente conflittuali tra i diversi gruppi. Non si arriva però certo alla tranquillità assoluta e all’armonico sviluppo di quella società con eguale soddisfazione di ogni suo comparto e strato. Per l’attenuazione dei conflitti, per la fine dei contrasti più violenti e la ripresa della vita in un contesto comunque più ordinato e tranquillo, è del tutto ovvio – ma spesso non capito dai più e stravolto nel suo effettivo significato dai meno – il costituirsi di una nuova gerarchia di comando e direzione. Altrimenti, la società di quel paese entra nel suo massimo sfacelo e la riorganizzazione, necessaria a vivere, viene semmai portata da gruppi di comando di altri paesi.