La pace è un dinosauro rosa.
La pace non è l’assenza della guerra ma al pari di questa dovrebbe essere considerata l’esito di uno sforzo, il punto d’arrivo di una costruzione sociale che sarebbe comunque difficile da stabilire in anticipo. La pace come la rivoluzione non si sa dove porta a prescindere dalle intenzioni dei suoi fautori. Guerra, pace e rivoluzione non dipendono insomma dai pii desideri della gente ma sono il risvolto di specifiche dinamiche sociali, sempre diverse da come possono essere pensate. Anzi, la pace, si può dire, è il più utopico degli intendimenti umani essendo l’umanità portata per “natura sociale” al conflitto. La pace peraltro porta la guerra. Basta considerare i cosiddetti 70 anni di pace europei che hanno alimentato le guerre periferiche in tutto il mondo. Chi ha la pace fa la guerra. La pace generale non è dunque mai esistita, è come un dinosauro rosa, se mai c’è stato un tempo non lo sapremo mai e in ogni caso non ci sarà più.
GUNTER MASCHKE ha detto: “Il divieto della guerra e della violenza non solo si è dimostrato inattuabile, ma ha inasprito, prolungato, avvelenato tutti i conflitti. Anche e in particolare per il diritto internazionale vale il detto «qui veut faire l’ange, fait la bete». O si concepiscono «pace » e «guerra» come concetti correlativi, oppure, con l’accanimento nei confronti dell’ «aggressore » (costruibile ad hoc), si ricade nel concetto discriminatorio di guerra e nel moderno pervertimento della« guerra giusta».
Dopo alcuni millenni di insegnamenti più che concreti ci si può senz’altro avvicinare all’idea che la guerra è ineliminabile, e che la pace è un’invenzione assai più della guerra. Appare oggi chiaro che continuare ad avanzare sulla strada della discriminazione della guerra non può che condurre a catastrofi sempre più terribili. Per il resto è cosa arcinota che la guerra è un camaleonte, ma il camaleonte è appunto un animale cui non importa nulla di essere chiamato con il suo vero nome. Al contrario, preferisce mimetizzarsi con i noti slogan pacifisti, riuscendo così a prosperare nel migliore dei modi.”.
MASCHKE non era il solo a pensarla in questi termini. Prima di lui già ORTEGA Y GASSET, a cui non mancava una certa dose di speranza sul tema, aveva scritto:
“la guerra si può evitare soltanto se si intende per pace uno sforzo ancora maggiore, un sistema di sforzi complicatissimi e che, in parte, richiedono l’intervento fortuito del genio…la pace [non è ] il semplice vuoto che la guerra lascerebbe se scomparisse; pertanto, significa ignorare che se la guerra è una cosa che si fa, anche la pace è una cosa che bisogna fare, che bisogna fabbricare ponendo nell’impresa tutte le energie umane. La pace non «sta qui», semplicemente, pronta senz’altro affinché l’uomo la goda. La pace non è frutto spontaneo di alcun albero. Niente di importante è regalato all’uomo; anzi, deve egli farselo, costruirlo. Perciò, la denominazione che più chiaramente indica la nostra specie è quella di specie dell'”homo faber”…
Ma nemmeno basta rinunciare alle armi per addivenire alla fratellanza tra i popoli secondo il filosofo spagnolo.
“Codesta credenza risulta incomprensibile se non ci si rende conto dell’errore di diagnosi che le serve da base, cioè: l’idea secondo cui la guerra procede semplicemente dalle passioni degli uomini e per cui se le si reprimono, la tendenza alla guerra resterà asfissiata…Immaginiamo, infatti, che in un certo momento tutti gli uomini rinuncino alla guerra… Si crede che sarebbe bastato ciò, ancor di più, che con ciò si sarebbe fatto il più breve passo efficace in direzione della pace? Grande errore!
Non è, quindi, la volontà di pace quel che importa infine nel pacifismo. E’ necessario che questo vocabolo smetta di significare una buona intenzione e rappresenti un sistema di nuovi mezzi di relazione fra gli uomini. Non si speri su questo piano niente di fertile finché il pacifismo dall’essere un gratuito e comodo desiderio, non passi ad essere un difficile insieme di nuove tecniche. L’enorme danno che quel pacifismo ha arrecato alla causa della pace con [consiste] nel non lasciarci vedere la carenza delle tecniche più elementari, il cui esercizio concreto e indispensabile costituisce ciò che, con un vago nome, chiamo pace. La pace, per esempio, è il diritto come forma di relazione tra i popoli. Ebbene: il pacifismo corrente dava per supposto che codesto diritto esisteva, che stava qui a disposizione degli uomini e che soltanto le passioni di questi e i loro istinti di violenza inducevano ad ignorarlo. Orbene: ciò è gravemente contrario alla verità …è immorale pretendere che una cosa desiderata si realizzi magicamente, semplicemente perché la desideriamo. E’ morale soltanto il desiderio al quale si accompagna la severa volontà di approntare i mezzi per il suo conseguimento…”
Anche sulle leggi internazionali nutriamo scarsa se non nessuna fiducia. Esse si ergono sulla testa dei popoli come una scure che qualcuno impugna secondo il proprio potere e i propri interessi. Servono alla statu quo che vuole conservare il proprio arbitrio. Basti considerare il recente mandato di arresto contro Putin.
“Il diritto tradizionale è soltanto regolamento per una realtà paralitica. E siccome la realtà storica cambia periodicamente in maniera radicale, urta, senza scampo, con la stabilità del diritto, il quale si trasforma in camicia di forza. Ma una camicia di forza applicata ad un uomo sano ha la virtù di trasformarlo in pazzo furioso. Di qui -dicevo io recentemente -, codesto strano aspetto patologico che ha la storia e che la fa sembrare come una lotta sempiterna tra i paralitici e gli epilettici. All’interno del popolo si producono le rivoluzioni, e tra i popoli scoppiano le guerre. Il bene che il diritto pretende di essere diventa un male, come ci insegna già la Bibbia: «Perché avete mutato il diritto in fiele e il frutto della giustizia in assenzio?» (Amos, 6, 12). Nel diritto internazionale, questa incongruenza tra la staticità della giustizia e la mobilità della realtà, che il pacifista vuole sottomettere a quella, giunge alla sua massima potenza. Considerata in quell’aspetto che al diritto interessa, la storia è, innanzi tutto, il mutamento nella ripartizione del potere sopra la terra. E fin quando non esistano princìpi di giustizia che, almeno in teoria, regolino in maniera soddisfacente codesti mutamenti del potere, ogni pacifismo è pena d’amore perduta. Perché se la realtà storica è innanzi tutto ciò, apparirà evidente come la “injuria maxima” sia lo “status quo”.Sta bene che l’uomo pacifico si impegni direttamente nell’evitare questa o quella guerra; però il pacifismo non consiste in ciò, ma nel costruire l’altra forma di convivenza umana che è la pace. Questo significa l’invenzione e l’esercizio di tutta una serie di nuove tecniche.”
Al momento queste tecniche non si vedono nemmeno accennate, contrariamente a quanto sostiene ORTEGA Y GASSET. Forse un giorno gli uomini si pacificheranno davvero magari in presenza di un rischio “extramondano” o per essere più chiari “extraterrestre”. Ma non c’è da giurarci votati come siamo al tradimento per conservarci. Forse saranno gli ultimi uomini a capire di essersi ammazzati inutilmente ma saranno appunto ormai in pochi di fronte ad una imminente estinzione che porrà fine alla loro lotta per l’esistenza. Solo in questo frangente la pace diverrà una realtà in assenza di umanità.