Critica del pacifismo
Il pacifismo non serve a nulla e non ha mai ottenuto niente o sempre molto poco. Il fatto che spesso gli appelli alla pace provengano da uomini e donne di grande levatura morale e intellettuale non cambia la situazione. Non è accaduto in passato e non succederà ora che le marce per la pace o le manifestazioni contro la guerra modifichino le decisioni degli Stati o dei decisori politici. Se l’apparenza asseconda questa convinzione si tratta in ogni caso di illusione. Il pacifismo è uno degli effetti della guerra non il suo opposto, al pari della propaganda contribuisce al travisamento delle questioni, all’obnubilamento delle menti e a confondere gli animi. A volte il pacifismo è solo un’altra forma della disinformazione di guerra e viene alimentato per deprimere il nemico e influenzare la sua opinione pubblica. Questo significa che di fronte alle ragioni o ai torti della Storia un pacifismo irriducibile e insistente, manipolato o cieco dì fronte agli eventi, può contribuire a causare maggiori perdite umane e materiali mistificando, con il suo sentimentalismo, con i suoi presupposti irrealistici e gli obiettivi indefiniti, le reali motivazioni dei conflitti che reclamano una risoluzione. E sia chiaro che l’obiettivo non è mai la pace ma la definizione dei contrasti in una soluzione provvisoria anche se stabile almeno per un certo tempo. Con ciò non intendiamo dire che la narrazione di regime non debba essere contrastata se pericolosa e controproducente, tutt’altro. Se una guerra viene iniziata contro gli interessi del proprio Paese da parte di élite corrotte o disorientate, se questa è esito di influenze esterne al corpo nazionale o di valutazioni approssimative, se produce effetti opposti a quelli decantati deve, necessariamente, essere osteggiata con ogni mezzo su questo terreno di evidenze pratiche e non su quello emotivo di una concordia umana, perduta o da ricucire, basata su principi astratti. La Pace, figurarsi quella perpetua, è un pio desiderio che non ha mai trovato riscontro in nessuna civiltà o società. Eppure, questa aspirazione viene sempre assunta come punto di partenza e di arrivo in ogni discorso pubblico. Più la pace risulta labile e precaria più viene indicata come “origine della specie” o suo approdo futuribile e definitivo. In questa duplice mitologia dell’origine e della fine la guerra viene ridotta ad accidente o a parentesi, eppure questa parentesi si ripresenta sempre e sempre più potente. Già questo smentisce i pacifisti perché la loro cosiddetta pace altro non è che la momentanea (momento che può durare anche a lungo) assenza della guerra. Ma l’assenza della guerra (peraltro mai globale) non è la sua sparizione dal mondo, essa è invece il suo scendere carsicamente al di sotto della superficie sociale in alcuni luoghi per spuntare altrove. La guerra e l’assenza di guerra, che qualcuno chiama pace, sono sempre presenti insieme anche se non nello stesso luogo o nelle medesime forme e intensità.
Per questo fanno tenerezza certi giudizi dei pacifisti che sposano le teoresi dei guerrafondai per la loro critica alla guerra. Per esempio c’è l’aggredito e l’aggressore, oppure quello che inizia a colpire è sempre il pazzo sanguinario trascurando il fatto che ci potrebbe essere prima di quell’inizio un altro inizio non valutato. Vi sembra questo il nocciolo della questione?
Come scrive Burnham “Innumerevoli esperienze hanno provato che un colpo solido dato in tempo può prevenirne migliaia in un domani. Un dottore che negasse l’esistenza dei bacilli non diminuirebbe così l’effetto distruttivo dei bacilli sul corpo umano. In politica trionfano ancora quei magici atteggiamenti che la medicina ha lasciato dietro di sé. Si crede ancora fermamente che, negando il ruolo sociale della violenza, questa sia in qualche modo domata”. Sullo stesso piano si pongono pensatori come Machiavelli, Nietzsche, Ortega y Gasset e ancora altri. E noi quando ricominceremo a pensare?