CAMPO ANTIMPERIALISTA (di F. D’Attanasio)
Sicuramente è ammirevole la dedizione ma soprattutto il coraggio dei compagni del Campo Antimperialista, difatti da alcuni anni devono subire, diciamo così, l’attenzione “morbosa” degli organi giudiziari e polizieschi a causa delle proprie posizioni politiche, essendo stati accusati più di una volta di appoggiare il terrorismo internazionale; niente a che vedere con certi altri antimperialisti solo parolai i quali sfruttano certe categorie politiche per tutt’altri scopi, per tenersi ben stretti la propria “nicchia” elettorale fatta di persone che non vogliono proprio rassegnarsi alla vera e propria debacle, non solo politica, ma anche morale di cui si son resi “protagonisti” i propri “eroi”. Come dice M. Tozzato nel suo articolo “QUALE (ANTI)IMPERIALISMO IN CRISI?”, sono tante le posizioni che emergono in seno al panorama mondiale delle forze antimperialiste, diversità che discendono appunto non solo dalle condizioni concrete sociali complessive che contraddistinguono le varie zone del mondo ma anche da una certa debolezza teorica. Quel che manca forse è proprio (come dice giustamente La Grassa) una teoria generale dello sviluppo ineguale dei capitalismi (e non del capitalismo) che faccia, diciamo così, da “sintesi”, che tenga insieme in maniera organica e logica appunto “le categorie, concetti, schemi e mappe di lettura” per formarne così un corpo (teorico) unico e ben articolato che non sia una mera giustapposizione. E’ comunque al di là di tutto mi sembra abbastanza utopico e senza nessun fondamento scientifico lavorare per un fronte antimperialista mondiale, pensare che i popoli che maggiormente subiscono le conseguenze delle aggressioni imperialiste (soprattutto americane), che poi sono anche (aspetto molto importante da non trascurare) quelli che vivono nelle condizioni più arretrate, possano in qualche modo unirsi tutti insieme per sconfiggere il nemico comune, derivi più da un atteggiamento morale di appoggio incondizionato ai “dannati della Terra” che da un’attenta analisi socio-economica e da un’approfondita valutazione politica. I popoli del mondo vivono nel turbine dello sviluppo capitalistico, di questa formazione sociale (avente comunque connotati differenti nelle varie zone del mondo, quindi sarebbe più corretto parlare di formazioni sociali, in quanto caratterizzati da diverse classi e strutture di rapporti sociali, seppur basati su una organizzazione produttiva fondamentalmente privata, mercantile e quindi tesa alla valorizzazione del capitale) che continua a “sbaragliare” letteralmente, dall’inizio del proprio avvento, tutti gli altri modi di produzione. Il capitale, come ci ricorda Marx, è soprattutto una potenza sociale, cioè un sistema sociale perfettamente integrato, altamente dinamico che oltre ad assicurare elevati ritmi produttivi modifica costantemente i rapporti sociali (pur rimanendo nell’alveo dell’impulso alla valorizzazione), ha dato un’accelerazione, mai vista prima nella storia, al progresso tecnologico e scientifico, ha quindi liberato l’uomo dal fardello di tanti tabù, credenze e paure che ne tenevano imbrigliati la creatività e l’insieme di tutte le potenzialità, aprendo così orizzonti di accrescimento culturali prima inimmaginabili.
Il capitalismo ha altresì prodotto una grossa frammentazione in orizzontale oltre che una scala sociale gerarchica molto stratificata, livelli di sviluppo, come dicevo, molto differenti tra diverse aree del mondo; ciò costituisce, per gli antimperialisti, ulteriore fonte di difficoltà poiché mette (più in generale) in continuo rapporto di competitività gli individui, ma anche i popoli, quindi tende anche, fra l’altro, a separare le classi subalterne del mondo a più alto sviluppo da quelle appartenenti al mondo meno sviluppato o in via di sviluppo. Quindi è molto più sensato pensare, appunto nel vortice tumultuoso della lotta per la supremazia tra i vari spezzoni in cui si vanno a delineare, a livello internazionale, le classi dominanti (o anche forse meglio, decisori, come dice La Grassa), che i proletari più poveri siano, in un certo senso, “costretti” (ma difatti personalmente non vedo quale altra via potrebbero perseguire) ad allearsi con le proprie classi dominanti di riferimento per difendere la propria autonomia ed indipendenza dalle politiche aggressive imperialiste dei paesi più potenti (oltre che, aspetto non meno importante, per puntare ad un più alto sviluppo tecnologico-scientifico che abbia così ricadute significative sul proprio tenore materiale di vita), d’altro canto, specularmente, le classi dominate o non decisori, delle aree più sviluppate hanno lo stesso atteggiamento. Tutto ciò può essere meglio capito e accettato se si condivide, a mio avviso, l’impostazione teorica che ultimamente ha dato La Grassa alla sua analisi della formazione sociale capitalistica (e non del modo di produzione capitalistico, concetto diverso, elaborato da Marx ai suoi tempi e quindi adeguato alla società che fu), analisi che mette al centro (superando la stessa concezione del rapporto dialettico tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione) quale nucleo fondamentale concettuale i rapporti sociali ed in special modo quelli tra le varie frazioni della classe dominante. Quindi prendono il davanti della scena dell’attività di analisi, le strategie che questi ultimi producono e mettono in atto in tutti gli ambiti sociali allo scopo di prevalere e quindi predominare, discorso valido sia all’interno delle varie formazioni sociali nazionali e sia a livello della geo-politca cioè dei rapporti di potere internazionali. Il rapporto capitale-lavoro o più in generale il rapporto dominio-subordinazione risultano così sur-determinati, in quanto non principalmente significativi nel districare, seppur a grandi linee, la complessa matassa delle dinamiche sociali complessive, quindi sia i continui riassestamenti dei vari gruppi sociali all’interno della riproduzione sociale capitalistica, e sia le eventuali condizioni di possibilità di un rivoluzionamento radicale della stessa organizzazione sociale capitalistica.
Né tuttavia sinceramente penso che da esperienze politiche che stanno maturando in special modo in Sud America (penso in particolare al Venezuela di Chavez che, sottinteso, va senz’altro appoggiato tanto più si oppone all’imperialismo degli Stati Uniti e persegue una certa autonomia) possa nascere seriamente un nuovo socialismo (anche perché attualmente gli stessi Stati Uniti stanno trascurando questa zona del mondo in quanto più preoccupati nel prevenire le mire espansionistiche di paesi quali la Cina e l’Iran), penso al contrario che se tali paesi non riusciranno ad avviare una serio processo di sviluppo sostenuto, se non riusciranno ad assumere un ruolo internazionale rilevante in termini di potenza soprattutto politica-economica, finiranno letteralmente per essere travolti (con conseguenze catastrofiche sulle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione) dall’onda d’urto prodotta dalle lotte per l’acquisizione delle aree di influenza, che tanto più si farà incipiente quanto più si entrerà in una fase policentrica. Quindi, in un certo senso, penso vada da sé il discorso che non si possa trascurare la realtà socio-politica del proprio paese, che una certa attività politica debba essere incentrata principalmente sulle condizioni della popolazione del paese in cui si vive, dato che può essere più utile e proficuo (oltre che più probabile) cercare qui di creare un fronte antimperialista; tra l’altro questo discorso è tanto più vero se si considera il caso dell’Italia, che sempre più sta diventando una pedina fondamentale nella politica di sottomissione dell’Europa da parte degli USA.