Pubblichiamo tre articoli (due di Gianfranco La Grassa ed uno di Mauro Tozzato) e con ciò ci rivediamo nel 2007. Grazie e buon anno a tutti quelli che hanno avuto la pazienza di seguirci fin qui. Infine, il nostro pensiero va a tutti quei compagni che sono oggi ingiustamente reclusi nelle galere di Stato o che subiscono continui processi a causa della loro passione rivoluzionaria. Per tutti loro un abbraccio caloroso e la dedica di una poesia, quella di Sante Notarnicola, mio fiero conterraneo.

Galera (di S. Notarnicola)

Là, dov’era più umido

fecero un fosso enorme

e nella roccia scavarono

nicchie e le sbarrarono

alzarono poi garitte e torrioni

e ci misero dei soldati, a guardia

ci fecero indossare la casacca

e ci chiamarono delinquenti

infine

vollero sbarrare il cielo

Non ci riuscirono del tutto

Altissimi

Guardiamo i gabbiani che volano.

UN QUADRO INTERNAZIONALE NON PIACEVOLE (di G. La Grassa)

Come un giocatore a poker in difficoltà, avendo assommato perdite di una certa entità, rilancia con una posta più alta, così gli USA stanno accentuando ulteriormente il lato aggressivo della loro politica con manovre certamente assai pericolose. C’è stato l’improvviso incontro tra Olmert e Abu Mazen; dal TG1 al “Giornale”, quasi tutti hanno visto dietro l’incontro pressioni americane con un ben preciso piano “in testa”. Si è spinto il leader moderato palestinese sulla via di un più veloce tradimento del suo popolo, sperando nella stanchezza di quest’ultimo di fronte ad una guerra lunga, e che non vede via di uscita – non solo onorevole, ma proprio politica a meno che non si voglia semplicemente rinunciare a chiedere il ritiro israeliano dai territori occupati – se non nella sua prosecuzione a tempo indeterminato, che costa ovviamente molto in termini di vite umane, e non solo. Si è stabilito chiaramente un patto di ferro tra Israele e moderati palestinesi smascherando, oltre ogni possibile dubbio, il fatto che Abu Mazen non è null’altro che un possibile Quisling.

Per facilitargli i compiti, si è promessa la liberazione di un certo numero di prigionieri palestinesi in cambio di quella del soldato israeliano ancora detenuto. Si è promesso di sbloccare i fondi che erano di pertinenza del Governo palestinese in quanto gettito di imposte; certamente tali fondi non andranno a chi ne avrebbe diritto perché sia gli USA che Israele proibiscono un qualsiasi finanziamento ad Hamas. Si è infine deciso di appoggiare fino in fondo la mossa del “traditore” tesa a convocare elezioni anticipate, promettendo fiumi di finanziamenti a tal fine, nonché per rafforzare le milizie dei “moderati”. Questa pressione su Abu Mazen, affinché acceleri i tempi delle sue manovre da “venduto”, è pericolosa, ma è appunto la mossa del giocatore di poker in difficoltà.

Nel contempo, l’ONU, con la complicità dell’intera Europa (nemmeno i francesi si sono distinti in simile frangente), ha approvato le sanzioni contro l’Iran. La Russia è riuscita ad annacquare un po’ la mozione votata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza – ed infatti, immediatamente, USA e Israele hanno dichiarato che si tratta solo di un primo passo poiché occorrono “misure più persuasive” – ma ha comunque dovuto “abbozzare”, e così pure la Cina; la qual cosa dimostra l’ancor notevole debolezza di questi “imperialismi” nascenti e per il momento, come ho già scritto sul blog, del tutto “adolescenti”. Tali paesi debbono stare ben attenti perché la fase di passaggio che stanno attraversando è molto delicata e incerta (e la decisione di approvare le sanzioni contro l’Iran ne è una dimostrazione). Si è scatenata in questi giorni l’offensiva etiope, sostenuta chiaramente dagli USA, contro le “Corti islamiche” in Somalia, che sembra aver ottenuto successo (non sono in grado di fare previsioni per il futuro; i tempi non saranno brevi, comunque vadano le cose, malgrado al momento le forze islamiche siano in precipitosa ritirata). Infine, anche la decisione di procedere all’esecuzione di Saddam (che non favorirà comunque l’azione statunitense in Irak) è un ulteriore segnale nella stessa direzione, quella del “gioco al rialzo”.

 

Un certo numero di persone (e di forze politiche) si è illuso che fin da subito l’amministrazione americana iniziasse a ripensare le sue scelte, dato che gli stessi generali del Pentagono mostrano contrarietà alla richiesta di Bush relativa all’invio di altri 120-130.000 soldati nel teatro di guerra iracheno. E’ in realtà molto probabile che gli ambienti militari rifiutino una strategia basata sulla concentrazione dello sforzo bellico in Irak, dove l’azione americana è compromessa; non tanto perché si possa pensare alla prossima vittoria delle forze contrarie all’occupazione quanto per la comunque evidente ingovernabilità del paese. Se si deve proseguire nella strategia di “attacco”, perseguita nell’ultimo quindicennio dagli USA (sia sotto l’amministrazione repubblicana che sotto quella democratica), bisogna allargare il terreno dello scontro, tenuto conto che anche in Afghanistan (con precisi riflessi e propaggini in Pakistan) gli equilibri non appaiono per nulla favorevoli agli interessi “occidentali” (leggi statunitensi, data l’ormai impressionante debolezza dell’Europa, sempre più succube dell’Alleanza Atlantica); ed infatti l’aggressione americana (e israeliana), condotta non soltanto sul piano militare ma anche tramite varie iniziative di forte pressione, viene ormai allargata alla Palestina, all’Iran e alla Siria, al Libano, ecc.

Malgrado certi successi momentanei (non so se reali o più che altro “di facciata”), resto convinto che questa “mossa da poker” non si risolverà in senso troppo favorevole agli Stati Uniti (e a Israele), che dovranno sostenere costi abbastanza pesanti già nel breve periodo e andranno incontro a probabili insuccessi nel medio. Credo che sia iniziato, e si accentuerà, un periodo di revisione della strategia statunitense, che comunque – sia chiaro – sarà sempre caratterizzata da una costante vocazione egemonica o comunque dalla volontà, se non proprio di dominare globalmente (ciò si sta rivelando impossibile), di restare quanto meno la principale potenza economica e militare per molti decenni a venire. Questa, almeno, è l’intenzione; quanto alla sua realizzazione, si vedrà in futuro, però nel lungo periodo. In ogni caso, l’attuale accentuazione della politica imperialistica degli Stati Uniti (con al seguito Israele) provocherà gravi tensioni nei prossimi anni e si rivelerà assai pericolosa per tutti.

 

Di fronte a questa politica di arroganza e prepotenza – non fine a se stessa ovviamente, ma guidata da precisi interessi economici e geopolitici – l’Europa brilla per il suo servilismo sostanziale, per l’incapacità di salvaguardare gli interessi delle sue popolazioni; sono prevalentemente le grandi concentrazioni finanziarie – in varia guisa intrecciate con quelle americane – e le grandi imprese industriali prive di vera strategia competitiva ad avvantaggiarsi di questa passiva dipendenza. Al momento non si nota alcuna reale capacità di realizzare politiche che siano di aiuto all’avanzamento del cosiddetto sistema-paese; nemmeno restando sul terreno del più tradizionale sviluppo capitalistico, quello della società che ho genericamente denominata “formazione sociale dei funzionari del capitale”. L’Italia è il paese più segnato dalle tipiche caratteristiche della subordinazione europea agli Stati Uniti; è il paese in cui la GFeID (grande finanza e industria decotta) agisce in più scoperta combutta con i centri del potere finanziario-politico del paese predominante, a totale detrimento degli interessi della popolazione (in particolare dell’intero corpo lavorativo, sia “autonomo” che dipendente).

La destra è scoperta (e rozza) nel suo incondizionato appoggio alle peggiori, e più aggressive, mosse dei centri di potere americo-israeliani. Tuttavia, il centrosinistra – con tutte le varie sfumature consentite dalla commedia inscenata dalle sue correnti “moderate” e “radicali” –  manovra in piena consonanza con l’imperialismo (egemonismo) americano, solo sperando che prevalgano alla fine le correnti in qualche modo meno violente, quelle che sappiano impiegare le “giuste” dosi di “bastone e carota”. E’ del tutto sintomatico che il Ministro degli Esteri (già Premier del Governo di aggressione alla Jugoslavia al seguito degli USA nel periodo di presidenza democratica), dopo aver venduto fumo con dichiarazioni di blanda (e arzigogolata) critica ad Israele, appoggi pienamente la politica del rinnegato Abu Mazen; e non abbia avuto nulla da ridire sui contenuti della mozione che gli USA volevano approvata dall’ONU contro l’Iran (lo ripeto: solo le manovre russe hanno avuto l’effetto di edulcorarla in qualche misura). Anche in politica estera, insomma, si svolge l’indecoroso e lurido gioco delle parti: tra destra e sinistra e, all’interno di quest’ultima, tra “riformisti” ed “estremisti”. Una autentica, e senza dubbio variopinta, massa di mentitori e mestatori; da una parte i forsennati fan americo-sionisti, dall’altra gli ipocriti e i giocatori delle “tre carte”, che cercano di rappresentare tutto e il contrario di tutto, in ciò favoriti dai tatticismi (a volte da mascherate connivenze) dei pacifisti, dei movimentisti (e “no-globalisti”), delle varie “anime belle” del multiculturalismo e della solidarietà tra “diversi”, ecc.

Un’autentica catastrofe politica, che ha ormai consegnato la “sinistra” o all’appoggio sostanziale delle grandi concentrazioni di potere americane o all’inutile predicazione di una “non violenta” opposizione alla politica di queste ultime. Risalire la china richiederà ormai chissà quanto tempo, dopo la devastazione compiuta da costoro al fine di opporsi alla nascita di un qualsiasi embrione di resistenza antimperialista, che si sforzi di analizzare in modo adeguato la situazione esistente.

 

Bisogna cercare di essere sufficientemente lucidi e non semplicemente “generosi” e pieni di “buoni intenti” anticapitalistici e antimperialisti (antiegemonici). Oggi come oggi, l’unica speranza di riuscire a indebolire la politica statunitense di potenza predominante – con ciò mettendo in crisi, alla lunga, i suoi zelanti complici; sia quelli più aperti (destra) che quelli più contorti e ingannatori (sinistra) – risiede nel potenziamento di paesi come Russia e Cina. Certamente va considerato positivo il fondamentalismo islamico poiché si pone in netto contrasto con USA e Israele; e così pure vanno appoggiati i movimenti sudamericani che si battono per una più netta indipendenza dal potente vicino. Ritengo però che da soli, né i movimenti esistenti nel mondo arabo né quelli in crescita nel Sud America saranno in grado di conquistare un decisivo successo. Tra l’emergere delle nuove potenze ad est e i suddetti movimenti antistatunitensi non sussiste certo un rapporto di causa ed effetto; tuttavia i due processi sono fra loro intrecciati ed in oggettiva solidarietà. L’importante è afferrare quale fra i due può rivelarsi, nel medio periodo (grosso modo intorno ai vent’anni), il principale fattore della riduzione della sfera egemonica statunitense e del conseguente acutizzarsi delle contraddizioni interdominanti.

Non dobbiamo nutrire illusioni. Russia e Cina sono nuove potenze in avanzata; la loro politica è quella di tutti gli imperialismi nascenti e in fase di rafforzamento, ma tra contraddizioni assai gravi che rendono ancora incerta e non definitiva (non irreversibile) la loro affermazione. Il loro comportamento, in sede geopolitica, è dunque molto contorto e pieno di compromessi con l’avversario che è ancora più forte di loro (come ho sostenuto più volte, non siamo per il momento in un’epoca policentrica). Si tratta di paesi che, per l’essenziale, possono essere considerati in pieno sviluppo capitalistico, pur se con caratteristiche – di accentramento statale, di non completo cedimento all’ideologia neoliberista – differenti da quelle della “formazione sociale dei funzionari del capitale” (la tipica società nata dalla preminenza USA nel campo capitalistico).

Per quanto le forme siano diverse – la “storia non si ripete mai” nelle sue manifestazioni empiriche – si sta creando progressivamente una situazione mondiale che presenterà infine vaghe somiglianze con quella a cavallo tra otto e novecento (l’epoca “classica” dell’imperialismo). Nei paesi a capitalismo più avanzato, il sedicente “movimento operaio” – egemonizzato dai socialdemocratici – fece un colossale flop dando vita al più bieco opportunismo. Piccoli gruppi di comunisti (tipo i bolscevichi) si affermarono nei paesi a struttura capitalistica estremamente debole e quasi embrionale, e continuarono per tutto il novecento a “fare rivoluzioni” e a “vincere” nelle aree a stragrande maggioranza contadine e di tipo pre(o proto)capitalistico. La Storia mi sembra aver decretato con chiarezza la sconfitta di simili “rivoluzioni” che non sono per nulla state comuniste ma, nel migliore dei casi, hanno aperto la strada allo sviluppo, a volte impetuoso (come appunto in Cina), di società “di classe”, con ristretti gruppi di dominanti ed enormi masse di dominati (e quanto dominati!). Vogliamo ripetere la stessa storia? Errare è umano….con quel che segue.

In un certo senso (ma si intenda questo cum grano salis) si deve tornare a Marx: quello delle sue massime opere, non quello delle lettere a Vera Zasulič, per favore! Se il comunismo è possibile, se si deve tentare di incamminarsi lungo quella strada, lo si deve fare dove esso non andrà mai confuso con il generico populismo, con l’appello alle “masse diseredate”, con la generalizzazione (la “messa in comune”) della povertà! Bisognerà però tener ben presente come non si creino, nello sviluppo capitalistico, le oggettive condizioni sociali dell’agognata trasformazione rivoluzionaria; non si va affatto nella direzione di una netta (visibile a tutti) divisione della società in un piccolo gruppo di rentier e in una stragrande maggioranza rappresentata dal “lavoratore collettivo cooperativo” (“dall’ingegnere all’ultimo giornaliero”, per dirla con le parole di Marx), con uno strato di ceto medio del tutto transitorio, minoritario, in grado al massimo di rallentare ma non certo di impedire il processo di rivoluzionamento dei rapporti sociali. E’ principalmente in una società come la nostra – non tanto per il suo alto sviluppo produttivo, quanto per la sua articolata e variegata differenziazione in tanti gruppi sociali, disposti “in orizzontale” come “in verticale” – che deve essere provata la possibilità di costruire il nuovo, se se ne è capaci concretamente, senza mitici svolazzi nell’utopia; e senza affidarsi ad improbabili (e presunti positivi) caratteri antropologici del “genere umano”.

 

 Oggi, dunque, bisogna lavorare, e non sui tempi brevi, per ricreare una difficile condizione di radicale mutamento dei rapporti sociali a partire dall’accettazione dell’inesistenza di dinamiche oggettive che favoriscano tale processo; si deve agire in un mondo in forte travaglio e trasformazione, utilizzando al meglio le contraddizioni che si aprono – ma, come appena considerato, tra mille compromessi – nella complicata lotta per le sfere di influenza combattuta dalla potenza per il momento più forte e predominante (si è tuttora in epoca monocentrica) contro i suoi probabili avversari che, se realizzeranno le loro possibilità di divenire forti competitori degli USA, lo faranno in un contesto sostanzialmente imperialistico. Non ci si illuda su questo; non si tentino scorciatoie pensando alla meravigliosa rivolta degli oppressi che, oltre ad essere improbabile (l’Islam non è certo questa rivolta), farebbe una brutta fine anche nel caso si manifestasse: come quella di Spartaco, delle jacqueries del ‘300, della guerra dei contadini del ‘500 (Müntzer, ecc.), dei comunisti nel ‘900, e via dicendo.

La salvezza per i dominati può nascere dalla disgregazione del potere avversario, conseguente alla lotta senza quartiere tra i dominanti, quando questi si dividono in frazioni di forza quasi eguale, nessuna delle quali intende allora accettare e subire la supremazia di altre. E sarà necessario che sorga una forza capace di approfittare di questa lotta, in grado di analizzare la situazione esistente di fase in fase, adattando le sue tattiche a queste ultime e cogliendo infine “il frutto” quand’è “maturo”. Il movimentismo incosciente di questi tempi, se non è apertamente connivente con i dominanti, si pone comunque sempre in “solidarietà antitetico-polare” con essi. Il fare appello alla mera lotta degli oppressi, degli sfruttati, non produce grandi effetti di cambiamento in una società complessa com’è la nostra a capitalismo avanzato. E se non produce qui qualche risultato, continuare a predicare, come un tempo, “l’accerchiamento delle città a partire dalle campagne” porterà al disastroso epilogo della passata epoca di lotte. E il fallimento sarà altrettanto sicuro qualora si insista nel puntare sulla fantomatica “contraddizione antagonistica principale” – fondata sul conflitto per la distribuzione del valore creato dai lavoratori salariati – alla quale piegare e conformare ogni strategia di combattimento.

C’è ben altro da fare; e, fra quest’altro, esiste la necessità di analizzare e valutare come evolve il multiforme confronto che si svolge nell’ambito della formazione sociale mondiale, con la previsione della progressiva entrata in una fase di nuovo antagonismo policentrico (interimperialistico). I prodromi di quest’ultimo, con la crescita impetuosa delle nuove potenze ad est, è oggi l’elemento che di fatto – qui, si, potremmo usare il termine “oggettivamente” –  sorregge il movimento di rivolta di consistenti quote della popolazione araba e di quella sudamericana (orientate da determinati gruppi dirigenti), in questo momento certamente le più attive nel mettere in difficoltà la potenza dominante centrale. Noi siamo però situati in un’area (Europa e Italia), in cui gruppi economici nell’insieme privi di spinta propria, e forze politiche soltanto mosse da meschini interessi del “giorno per giorno”, giocano in favore della prosecuzione della predominanza USA. Di conseguenza, l’azione di chi vuol “cambiare le cose” è qui particolarmente complicata e richiede la combinazione, e il difficile equilibrio, di elementi di strategia intrinsecamente contraddittorî; quelli che talvolta ho indicato schematicamente come esigenze della potenza ed esigenze della trasformazione. Ne riparleremo spesso e a lungo.

29.12.06

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COME VOLEVASI DIMOSTRARE (di G. La Grassa)

Come avevo scritto nel mio ultimo intervento, è permanente la recita “a soggetto” tra “moderati” ed “estremisti” del centrosinistra. Dopo tutto il battage sulla fase due e le “riforme strutturali”, il Governo ha annunciato che non prevede di aumentare l’età (oggi 57 anni) necessaria per andare in pensione. La destra, che non sa “salmodiare” altrimenti, ha subito strillato che Prodi è sempre prigioniero di Rifondazione e “gli altri”; e che l’ala “riformista” ha perso un’ulteriore battaglia. Adesso, aspettiamoci altri mesi e anni di critiche da parte del FMI, delle società di rating, degli organismi europei, della Confindustria, di Repubblica ed Espresso, e compagnia cantando. L’ala più “moderata” (Udeur, socialisti di Boselli, radicali, ecc.) continueranno a dire che così non si può andare avanti, che ci inimichiamo la comunità europea, ecc.; tutto resterà però come sempre, perché questo è esattamente il modo di governare, “tirando avanti”, del centrosinistra, unito e compatto sulle questioni “decisive” del governo e del sottogoverno, del rubare a man bassa alla gran massa della popolazione e dell’impadronirsi di tutte le “poltrone” decisive nei luoghi di comando. La destra continuerà la sua particolare recita di finta opposizione, di finto appoggio al sedicente “ceto medio”; e i vari suoi tronconi studieranno il modo migliore per ottenere qualche spartizione del bottino, inserendosi in ogni occasione opportuna per sostenere nei fatti – mostrando la “faccia feroce” per la forma – l’attuale schieramento governativo. Direi ai pensionati di star tranquilli; alla fine faranno fatica a “sbarcare il lunario”, ma non per la “riforma delle pensioni”, bensì perché il paese è e sarà alla mercé di questi “topi nel formaggio” per un bel po’ di tempo. Si consolino: staranno sempre peggio, ma non da soli; in lieta compagnia, invece, con tutti quelli che lavorano sul serio.

29.12.06

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CLIENTELISMO E AZIENDE PARTECIPATE (di M. Tozzato)

Il problema della riforma dei servizi pubblici locali anche dopo il provvisorio accantonamento del ddl Lanzillotta continua ad essere ampiamente dibattuto e tra l’altro risulta uno dei temi sui quali, almeno in apparenza, maggiore risulta il dissenso tra “L’Ulivo-Partito democratico” e la “Sinistra Radicale Pseudoalternativa”. La problematica presenta numerosi risvolti a partire dalla valutazione della normativa vigente, delle ipotesi di riforma, delle logiche politico-economiche che vengono a confrontarsi e ovviamente dell’attuale situazione obiettiva delle forme aziendali e dei risultati ottenuti nella gestione dei servizi pubblici a livello locale.

Il Sole 24Ore di lunedì 18.12.2006 ha dedicato ampio spazio proprio all’analisi di  quest’ultimo aspetto; è evidente che i fatti anche in questo caso vengono riportati in maniera tale da concordare con gli interessi della “Grande Finanza e Industria Decotta”, per utilizzare l’espressione sintetica già più volte apparsa su “Ripensare Marx” , però probabilmente molti dati risultano attendibili e proveremo ad utilizzarli. <<In cinque anni le partecipate  degli enti locali attive nei servizi pubblici locali sono aumentate del 120%, arrivando a quota 891.>> La maggior parte di esse sta <<tornando a concentrarsi sugli investimenti tecnici dopo qualche “escursione” finanziaria che non ha dato i risultati sperati>>; sono ben 174, inoltre, le <<società partecipate che mostrano un indice negativo a livello di Roi (cioè il classico quoziente tra risultato operativo e capitale investito che segnala l’efficienza economica della gestione)>>. Dai dati riportati queste aziende risultano prevalentemente situate nel Mezzogiorno d’Italia e le difficoltà maggiori risultano particolarmente evidenti nei settori dell’edilizia residenziale e dei trasporti locali. Stiamo parlando sempre di società di capitali (S.p.A), perché l’utilizzo della forma giuridico-aziendale dell’ “Azienda speciale” (ovvero le vecchie “municipalizzate” con qualche piccola modifica) è praticamente di dimensione  irrilevante principalmente grazie all’indirizzo imposto dalla Bassanini-bis nel 1997 verso la  trasformazione di queste ultime in S.p.A. . L’indagine della Confservizi, comunque, <<mostra un settore sempre più affollato contraddistinto da indici economico-finanziari in salute. Con una premessa sostanziale: i numeri di sistema […] sono il frutto della media tra settori in salute e settori in crisi, e soprattutto tra le realtà di punta e la foresta di piccole “società polvere” spesso viziate da gravi arretratezze infrastrutturali e imprenditoriali. Le otto quotate, per fare solo l’esempio più evidente, sono solo lo 0,9% delle società attive nei servizi pubblici locali, ma pesano per il 33% sul fatturato complessivo e per il 35% sul patrimonio. Anche grazie a loro, il fatturato e soprattutto gli investimenti in rapporto agli addetti […] crescono più dei costi […], e il saldo fra i ricavi da vendite e prestazioni e i costi totali vede chiudersi la sua forbice>>. La forbice rimane comunque di segno negativo (-14%) anche se gli investimenti dopo la flessione del periodo 2002-2004 hanno ricominciato a crescere nel 2005 << e sono tornati a concentrarsi sul core business delle imprese abbandonando gli sfortunati tentativi finanziari e speculativi degli anni precedenti>>. L’idea che però aveva ispirato le riforme della fine degli anni Novanta era quella di aprire le società di capitali ad altri soggetti che non fossero gli enti pubblici ma questa indicazione è rimasta <<lettera morta: il 72,7% delle società è ancora interamente in mano all’ente locale di riferimento, e nelle società miste la proprietà pubblica continua a essere largamente maggioritaria (64,6%)>>. E a questa composizione corrisponde una situazione che vede in crisi particolarmente <<le tante microrealtà municipali, che non sono in grado di raggiungere economie di scala e mantengono il connubio tra costi elevati e qualità scadente>>.La componente governativa che viene normalmente definita come <<sinistra radicale>> (PRC, PdCI, Verdi) e che si vanta di rappresentare gli interessi dei cittadini-consumatori e dei lavoratori (in questo caso del settore pubblico) sta contrapponendosi con forza ad ogni ipotesi di riforma che riduca il peso dello Stato, delle Regioni e delle Autonomie locali nella gestione dei servizi pubblici locali e tale fatto,  secondo loro, dimostrerebbe una  seria intenzione di difendere lo “Stato sociale” e con  questo appunto  la gran massa dei cittadini e dei lavoratori. Si tratta di una questione complessa, sulla quale ritorneremo ancora in un prossimo intervento, però vorrei da subito sottolineare due aspetti:

1)      le piccole realtà societarie, molto diffuse a livello comunale, facendo lievitare i costi dell’ente pubblico, già in grave difficoltà di bilancio a causa di un patto di stabilità interno sempre più restrittivo, rischiano di diventare un ulteriore elemento di aggravio fiscale per la tassazione locale dei cittadini (in continuo e pare “inevitabile” aumento);

2)      anche se il Sole24Ore è in sostanza il “giornale dei padroni” non mi sentirei di sottovalutare la seguente conclusione che questo quotidiano trae in base all’ esposizione della situazione sopra riportata:<<…i Comuni (e attraverso di essi la politica) non vogliono perdere il controllo delle aziende locali sia per i dividendi che spesso generano sia per la possibilità  (vedi il caso dei trasporti pubblici locali, dell’acqua e dei rifiuti) di manovrare le leve delle tariffe e dell’occupazione e di farne sovente un uso clientelare.>>

29.12.06