DAL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE AI NUOVI PARADIGMI FINANZIARI.

 I° PARTE di G. Duchini

 

    Prima della fine dell’ultima guerra mondiale (1944), alla Conferenza di Bretton Woods (città Usa), si costituì il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) tra le potenze amiche (circa 40 paesi) ancora in conflitto contro quelle nemiche (Germania, Italia,Giappone). Con il Fmi e la creazione di una Banca mondiale si voleva garantire un nuovo ordine economico-monetario il quale entrò a pieno titolo l’anno successivo (1945) a suggello di una guerra vinta. Il nuovo ordine imposto dalle potenze vincitrici, Usa “in primis”, seguita da  Inghilterra e Francia, chiudeva un lungo e travagliato periodo storico, le cui propaggini risalgono alla prima grande depressione capitalistica del decennio ’70 del secolo Diciannovesimo, seguita da una crescita economica abbastanza elevata fino alla prima guerra mondiale (1915-18). Gli scambi economici e monetari erano allora regolati dal cosiddetto sistema monetario aureo (“gold standard”) che prendeva il nome dall’uso dell’oro come unità di conto: le valute (quotazione delle monete) erano in un rapporto proporzionale di cambi fissi con l’oro. Tale sistema rappresentava il riflesso della teoria quantitativa della moneta secondo cui ad ogni variazione della quantità di moneta corrispondeva una variazione proporzionale dei prezzi: ad un aumento dello stock dell’oro corrispondeva un aumento proporzionale dei prezzi, con riduzione della capacità di esportazione e, viceversa, in modo sempre simmetrico. Alla fine del  primo conflitto mondiale (1918), il sistema monetario aureo venne meno con l’inizio di una grande instabilità per l’economia mondiale, aggravata dal problema delle riparazioni postbelliche e, soprattutto, dall’inizio della irreversibile crisi dell’Impero Inglese. Nel corso degli anni Venti, si accumularono gravi tensioni economico-finanziarie che portarono alla Grande Depressione; tra il ’29 e il ’32 il commercio mondiale registrò un crollo drastico del 63% (in valore d’oro), con caduta  dell’attività produttiva, a cui si accompagnò una pesante deflazione con riduzione generalizzata dei prezzi dei manufatti dei paesi industriali al 40%, oltre alle inevitabili conseguenze negative sulle bilance dei pagamenti.

    Con la fine della fase monocentrica a dominanza inglese si aprì un lungo conflitto intercapitalistico sia all’interno che all’esterno, tra i paesi capitalistici, con la quale tornò ad affacciarsi una fase policentrica che poi sfocerà nel secondo conflitto mondiale. 

I dazi Usa del 1930 introdotti con la legge protezionistica “Smoot-Hawley Tariff Act”  risultarono essere i più alti del secolo, fu il segnale dell’inizio di una lunga guerra commerciale svoltasi all’interno e tra i mercati capitalistici, con svalutazioni continue dei cambi delle monete aventi lo scopo di favorire le esportazioni dei singoli paesi; a nulla servirono tutti i tentativi  di ristabilire il vecchio sistema del gold standard, l’unico in grado di garantire una certa stabilità delle economie. Le guerre commerciali, ormai in atto,  rappresentavano soltanto la superficie dello scontro interno alle varie economie, dietro le quali si configuravano, in maniera più stringente, le acerrime lotte intercapitalistiche ed interimperialistiche; in particolare, quella Usa nei confronti del declinante Impero Inglese, per la preminenza  e il controllo  dei mercati internazionali. L’atto iniziale della guerra commerciale si ebbe a ridosso della grave crisi finanziaria Usa del ’29 di “Wall-street”, con l’applicazione della legge sui dazi di cui abbiamo già detto: fu il primo vagito di un impero in ascesa  e con grandi ambizioni di crescita, in grado di condizionare profondamente e pesantemente tutta l’economia capitalistica mondiale. Il protezionismo Usa fu a duplice effetto: di chiusura a difesa della propria industria  ed, al tempo stesso, di attacco alle restanti economie. Con lo scopo di tracciare una nuova fase storica a preminenza Usa nella contemporanea chiusura di quella dell’Impero Inglese, la grande economia industriale americana si avvalse  di uno strumento di conquista,  rivelatosi molto più efficace del mero protezionismo, in grado di far uscire dall’impasse economico gli Stati Uniti: lo sviluppo del  Capitale finanziario-bancario, uno strumento in grado di scaricare le eventuali crisi, nel controllo finanziario delle imprese europee, svuotandone i patrimoni aziendali e le strutture  industriali concorrenti (in cui effetti si fecero sentire, con più profondità, soprattutto sulla Germania weimariana) mettendo a dura prova le instabili democrazie europee dell’epoca.

     Le risposte del vecchio continente non si fecero attendere e furono a difesa degli interessi nazionali. In opposizione alla pervasività finanziaria Usa, si formarono “scudi economici” a protezione delle realtà industriali nelle forme dei “Capitalismi di Stato” i quali, in Italia e Germania, in un eccesso di difesa nazionalistica, finirono per aprire la strada al  fascismo e al nazismo. In Inghilterra – diventata rapidamente, nel corso della guerra, l’ultimo Stato dello stellone Usa – fiorì la scuola keynesiana del Capitalismo di Stato che aveva come obiettivo quello di fare convivere  gli interessi nazionali inglesi con quelli preminenti Usa. Non è un caso che alla conferenza di Bretton Woods, che si tenne in America prima ancora della fine della guerra, quando era ormai chiara la supremazia imperiale (e di guerra) Usa nei confronti dell’Inghilterra (e del resto del mondo occidentale), a presiedere il Fmi furono gli economisti White, per la parte americana, e Keynes,  per quella inglese. Lo Statuto del Fmi aveva come compito essenziale la cooperazione economica (a guida Usa) in campo monetario e finanziario internazionale e la promozione di una maggiore coerenza economica tra i paesi membri (arrivati a circa 184 dopo la chiusura del secondo conflitto mondiale, compresa l’Italia). Ciò  era necessario per assicurare a tali paesi una certa stabilità dei tassi di cambio attraverso cambi fissi ma aggiustabili, secondo le diverse esigenze nazionali.

    La costituzione del Fmi fu il segnale forte della chiusura di una lunga e complessa fase storica segnata dalla fine del  protezionismo e dalla contemporanea apertura liberalizzatrice dei mercati mondiali, sotto il vigile controllo degli USA; tutto ciò si realizzò alla fine di una guerra mondiale che divise il mondo tra due potenze, America e Unione Sovietica, le quali cominciarono  a delineare e delimitare i confini delle rispettive aree d’influenza. La struttura decisionale del Fmi  fu quella più attinente all’economia predatrice americana,  molto simile ad una”società d’affari” in cui gli azionisti  erano costituiti dai 184 paesi membri, rappresentati, a loro volta, da un Comitato Monetario e Finanziario ridotto a 24 paesi (compresa l’Italia), che perseguiva gli indirizzi strategici finanziari dell’ “azionariato” entro la suprema volontà decisionale  Usa. Quest’ultima ebbe un  potere di veto assoluto sui finanziamenti da concedere ai paesi partecipanti, essendo il paese con la quota sociale più alta nel Fmi.

    Il sistema dei cambi fissi ma aggiustabili del Fmi svolse una importante funzione di regolazione e controllo in tutta l’economia mondiale del dopoguerra, fino alla sua sospensione ad opera del governo USA, nel 1971. In pratica, dalla conversione dell’oro del sistema gold standard, si passò alla conversione del dollaro statunitense (in rapporto fisso con l’oro) diventato l’unica moneta di riferimento, in rappresentanza dell’unica centralità economica riconosciuta, quella americana appunto. L’asservimento delle restanti monete (ed economie) obbligava la conversione delle valute (monete) degli stati membri entro  le soglie consentite; in pratica, se un paese espandeva la propria economia e aumentava il valore della propria valuta (moneta) al di sopra della soglia consentita del dollaro, tale paese era obbligato a comprare la quantità di dollari necessari a far risalire la moneta Usa al valore fissato.  Come si può facilmente dedurre, i paesi europei furono enormemente condizionati dalla quantità di dollari presente nel sistema monetario che costituiva un freno alla crescita delle economie del vecchio continente. Così, in modo asimmetrico, l’economia Usa cresceva ai danni di quella europea; si trattava di una specie di signoraggio finanziario riservato al dominio imperiale. Bisogna però aggiungere che il dominio Usa, nell’immediato dopoguerra, ebbe aspetti contradditori e non completamente pervasivi. Alcuni fattori storici limitarono i condizionamenti finanziari ed economici Usa nei confronti dell’Europa; anzitutto la presenza di nazionalismi non completamenti sopiti, in particolare quelli francese (gaullismo) tedesco e giapponese; questi paesi difesero strenuamente le proprie industrie nazionali ricostruite dopo il conflitto e ora in pieno sviluppo. Si pensi alle opposizioni delle autorità tedesche alle modifiche della parità del marco nei confronti della moneta Usa per sostenere le esportazioni; oppure alla Francia che cercò di limitare lo strapotere Usa convertendo le proprie riserve  di dollari in oro e, con ciò riuscendo a mantenere viva la minaccia delle conversioni in oro anche da parte degli altri paesi. L’altro grande fattore di crisi Usa fu la sconfitta della guerra nel Vietnam, a seguito della quale si bruciarono enormi risorse finanziarie e vennero limitati gli investimenti diretti in Europa da parte delle grandi Banche d’affari Americane.

    Nel 1971 gli Usa sospesero in modo unilaterale il Sistema di Bretton Woods a cambi fissi. Si trattava, ormai, di una maglia diventata troppo stretta, per l’ampiezza creatasi nel mercato europeo, dove confluivano enormi flussi di capitali, fin dagli inizi degli anni ’70, in grado di mettere in crisi l’intero sistema finanziario internazionale. Si aprì un nuovo periodo del Fmi, rappresentato dal sistema dei cambi liberi, un artifizio monetario di controllo Usa nei confronti dell’Europa, con la moneta (valuta) che subisce una dilatazione estrema, moltiplicando e trasformando le funzioni creditizie in prodotti finanziari in grado di  sostituirsi ad essa (moneta) e di perdere, per certi aspetti, la “memoria di un valore equivalente nelle merci”.

    Il periodo in esame del Fmi e dei cambi flessibili  si protrasse dal ’71 alla caduta del muro di Berlino, cioè alla fine degli anni ’80. L’ingresso in Europa del nuovo sistema monetario (dei cambi flessibili)  fu introdotto non senza resistenze; dopo un periodo transitorio semirigido fino alla fine degli anni ’70 e successivamente, fino alla libera fluttuazione dei cambi. La funzione più importante del Fmi  rimase quella di “regolatore di credibilità” di tutti i paesi componenti il sistema. La concessione dei finanziamenti da parte del Fmi era subordinata alla stabilità finanziario-monetaria dei vari paesi in collegamento con i parametri convenzionali del dollaro, ai quali veniva rilasciato un “marchio di affidabilità”. Come dire, si affida(va) al Fmi un ruolo primario di catalizzatore finanziario per l’ingresso nel paese di finanziamenti pubblici o privati di altri paesi, nonché delle Banche d’affari Americane. L’occhio vigile del Fmi, e attento alla stabilità del centro del sistema finanziario Usa, misura la temperatura finanziaria e monetaria del singolo paese e quando questa risulta troppo alta, interviene tramite il viatico del marchio dell’affidabilità. Ma le medicine finanziarie risultarono, alle volte, troppo forti e con esiti mortali; ne sanno qualcosa i paesi latino-americani ed in particolare,  l’Argentina ed il Messico.

   Dal sistema a cambi fissi, che restringeva la liquidità internazionale delle economie subordinate entro i vincoli posti dagli Usa, al passaggio al nuovo sistema di regolazione a cambi flessibili degli anni ‘70, si creò un sistema di fluttuazione delle monete che produsse una grande instabilità finanziaria con elevata inflazione. Le oscillazioni delle monete europee avrebbero  comunque garantito la maggiore dipendenza di queste economie nei confronti di quella Usa.

Con lo “shock petrolifero” derivato dalla guerra arabo-israeliana del 1973-74, venne a determinarsi un aumento del prezzo del petrolio del 400% che costrinse l’amministrazione Carter al deprezzamento del dollaro del 40%, sia nei confronti del marco che dello yen; tutto ciò al fine di abbassare i “toni competitivi” delle due grandi realtà industriali tedesca e giapponese. Questa svalutazione fu un messaggio forte inviato (a futura memoria) a tutte le economie competitive, lo stesso messaggio che, in questi ultimi tempi, gli Usa lanciano attraverso il deprezzamento continuo del dollaro nei confronti dell’euro.

 

G.D.  maggio ‘07