IN ITALIA SI MUORE DI LAVORO
Oggi ospito sul blog il racconto di una cara amica. E’ una storia triste che riguarda l’ennesima tragedia consumatasi sul posto di lavoro, sette anno or sono, e in uno dei settori lavorativi più a rischio per assenza di controlli e violazione delle norme sulla sicurezza, quello dell’edilizia. Siamo a Laurino, in provincia di Salerno, un luogo bellissimo nel cuore del Parco Nazionale del Cilento. Laurino è un paesino difficile da raggiungere, con le strade che si abbarbicano sulle montagne e lo stomaco che ti si attorciglia ad ogni curva che lambisce i massicci. Ma alla fine della salita ti si apre davanti un panorama meraviglioso con un paesaggio incontaminato che non è cambiato con il trascorrere del tempo. Da qui i giovani sono costretti fuggire perché non c’è lavoro, come per tante altre zone del sud, belle e tristi al contempo. Per questi ragazzi ci sono solo due possibilità: o emigrare in altre città d’Italia (ma anche all’estero) oppure sottostare alle pretese di chi controlla l’economia cittadina, a condizioni non sempre dignitose. Mentre passeggiavo tra le strade del paesino ho visto una scritta sul muro che diceva: “Suino tra noi”. Suino era un giovane di Laurino che, qualche mese fa, è morto in seguito ad un incidente sul lavoro in uno dei tanti cantieri edilizi del nord, aveva appena 22 anni. Una storia che si ripete in questo sud malandato che spinge i propri figli a fare fagotto. Certo, nulla a che vedere con gli emigranti che lasciavano queste terre nei primi anni del ‘900 o durante il boom economico. Ma oggi come ieri il capitalismo italiano svela le sue diverse velocità…
Storia triste, dicevamo, quella di Daniela (altri due fratelli entrambi emigranti, uno in Germania e l’altro in Emilia) perchè ha perso il papà in un cantiere edilizio del suo paese (dopo anni di lavoro in Germania) dove, pare, che le norme sulla sicurezza non fossero affatto una priorità per i proprietari dell’impresa. Attualmente è ancora in corso l’ indagine della magistratura, ma le solite lungaggini giudiziarie e l’approssimarsi dei termini di prescrizione potrebbero lasciare impunito quello che, se le responsabilità dovessero essere pienamente accertate, sarebbe un omicidio in piena regola. Invece le chiamano morti bianche, come per mettere preventivamente le mani avanti e predisporre la gente al “gioco” della fatalità, ad un elemento soprasensibile che andando oltre la volontà umana sgraverebbe dalla colpa. Ma così non è. Daniela merita una risposta, così come la meritano tutte quelle famiglie che hanno perso dei congiunti a causa di una “malattia” sociale che colpisce le fasce più deboli della collettività, oggi come ieri. Dal 2000 al 2006 le morti bianche in Italia sono state più dei morti della guerra in Iraq, altro che fatalità e destino! Qui siamo ad un vero e proprio bollettino di guerra! Ma Lascio a lei la parola.
PER NON DIMENTICARE di Daniela Gregorio
Sono alle prese con l’unico mezzo a disposizione che rimane per denunciare ancora una volta una grave mancanza delle istituzioni che dovrebbero garantire prima il rispetto dei diritti sacrosanti che tutelano la vita umana, e poi, laddove si verifichino delle mancanze gravi e non totalmente governabili, assicurare la giustizia. Purtroppo quando si ci ritrova ad essere privati totalmente delle tutele contemplate nella tanto invidiata Costituzione, allora mi viene il dubbio che non sia totalmente vero l’assunto secondo il quale “siamo tutti uguali davanti alla legge”!! Ma entro nel merito della questione.
Giugno 2000- mio padre svolgeva, come era solito fare da 43 anni, il proprio lavoro in un cantiere edile con la dedizione e la precisione che lo contraddistingueva da sempre, e con la competenza acquisita da 25 anni di lavoro all’estero. Ma in una giornata di apparente serenità svanisce per sempre il suo desiderio di veder realizzati i propri figli e di continuare ad essere il solido ed instancabile riferimento della sua famiglia. A causa della superficialità altrui mio padre perde la vita perché lavorava. È stato calpestato in un attimo il diritto sacrosanto alla vita, e solo perché non c’è stata né la competenza, né, soprattutto, la volontà di adoperare tutte le misure di sicurezza indispensabili per tutelare l’incolumità dei lavoratori. Bastava mettere in pratica quello che i dettati legislativi prevedono, ma è ormai una prassi consolidata predisporre i piani di sicurezza solo su carta, adempiendo così a quello che la legge impone e nella pratica risparmiare tempo e denaro, lavorando ai limiti della sopravvivenza. Il problema di eludere il controllo non si pone proprio perché i controlli non avvengono nell’ottanta per cento dei casi, e i soggetti preposti allo svolgimento degli stessi spesso non hanno le competenze necessarie. Quindi per tutta una serie di mancanze, mio padre è diventato una delle migliaia di “morti bianche” che ogni giorno affollano notiziari e giornali. Stando ai dati INAIL negli ultimi cinque anni si sono verificati quasi 7.000 morti: 1280 solo nel 2006! Una media di 4 “caduti” al giorno, che nei primi mesi del 2007 arriva addirittura a 8 vittime! L’85% degli incidenti mortali avviene nell’ambito degli spudorati meccanismi dei sub-appalti. Sono morti annunciate, eppure non tanto eclatanti da determinare delle reazioni incisive e di svolta. Ci si limita a parlarne, a fare qualche spot quando il picco si alza, ma non si affronta mai seriamente il problema.
Ma dopo la tragedia non ci restava che affidarci alla giustizia per trovare delle risposte a quanto accaduto e per appurare le responsabilità. È cosi che ci dichiariamo parte civile nel processo penale che vede come indagati i titolari della ditta presso cui lavorava mio padre. La voglia di giustizia era, ed è, un mezzo per veicolare la nostra rabbia che sembrava inascoltata. In questi sei anni di processo, un’udienza all’anno, è stata una corsa contro il tempo: aspettare ogni volta per un intero anno per ascoltare pochi minuti di udienza. Ma proprio un anno fa sembrava che si stesse avvicinando la fine, doveva essere sentito l’ultimo teste per avviare cosi la fase dibattimentale, ma ci giunge, come una doccia fredda, l’annuncio che il giudice aveva chiesto e ottenuto il trasferimento. Risultato: è un anno che aspettiamo l’udienza con il nuovo giudice e molto probabilmente il processo dovrà essere rifatto. In termini concreti il reato se commesso andrà in prescrizione, e mio padre e noi non avremo giustizia!!! Quindi siamo doppiamente vittime, di un sistema che non è stato in grado di tutelare l’incolumità di un lavoratore, e delle istituzioni che non riescono nemmeno a garantire dignità alle vittime dando loro giustizia. Ma come è possibile che si verifichino queste vergognose mancanze? Ci sarà un modo per fare ascoltare le nostre voci? Perché come me, sono a migliaia le vittime inascoltate. In questo modo i caduti sul lavoro continueranno a essere considerati, dalla maggior parte del popolo, vittime del fato e della sfortuna, come purtroppo avverto ogni qualvolta si annuncia una nuova vittima, e dai “padroni” solo normali incidenti di percorso, quasi da mettere in previsione, perché rispettare la prassi è più conveniente. Morale della storia: da tutti i fronti c’è un induzione alla rassegnazione, al silenzio, all’impotenza….ma solo per chi non ha voglia e voce per urlare contro l’indifferenza, e forza per difendere chi una voce non c’è l’ ha più.
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DIFFERENZE TRA ANTISIONISMO, ANTISEMITISMO ED “ANTISCEMITISMO”
L’antisemitismo non è uno scherzo e non si può liquidare certamente con alcune freddure tanto stupide quanto inappropriate sull’ “antiscemitismo”, che non suscitano alcuna ilarità se non quella di qualche pennuto affetto da aviaria. Quando parlo di "antisemitismo" mi riferisco sia all’antisemitismo storico, convenzionalmente inteso, ovvero il comune, classico razzismo contro gli Ebrei, vittime dell’Olocausto compiuto dai nazisti, sia all’antisemitismo odierno commesso contro il popolo palestinese, anch’esso appartenente alla stirpe "semitica", anch’esso vittima di una politica di persecuzione e di aggressione imperialista, di atti sistematicamente ostili e terroristici, di veri e propri eccidi di massa, di cui ben conosciamo i responsabili. Il razzismo vero e proprio, il peggior "antisemitismo", non semplicemente ideologico, ma brutalmente politico-militare, è quello messo in pratica da coloro che rappresentano i veri criminali, assassini e terroristi, vale a dire il regime sionista di Israele e i suoi soci anglo-americani. Altrimenti, come si potrebbe definire la politica di persecuzione e sterminio portata avanti negli ultimi decenni dallo Stato di Israele con l’appoggio, più o meno tacito, degli USA, contro popolazioni inermi e non militarizzate che vivono nella striscia di Gaza? Rammento che una risoluzione dell’ONU, la 1544 del 19 maggio
Se con l’orribile accusa di "difensore di criminali" si intende infamare chiunque si schieri a fianco delle popolazioni palestinesi, assolutamente inermi e non militarizzate, che vivono nella striscia di Gaza e sono massacrate senza pietà dalle truppe israeliane, ebbene sì, ammetto che quella definizione si adatta al sottoscritto. Così come mi ritengo uno strenuo difensore della causa e delle ragioni del popolo ebraico quando questo è stato ed è oggetto di razzismo, così come quando fu vittima dell’Olocausto, degli eccidi di massa nelle camere a gas, nei lager nazisti durante il secondo conflitto mondiale. Tale chiosa mi serve per spiegare ulteriormente la mia posizione in materia di "antisemitismo". Sarebbe tuttavia assurdo e complicato se cominciassimo a risalire indietro nel tempo, sino agli albori dello Stato di Israele, o addirittura più indietro, sino alla nascita e alla costituzione del movimento sionista internazionale. Un movimento che è stato (ed è tuttora) propugnatore irriducibile della causa ebraica più oltranzista, ed ha fatto ricorso anche a metodi, attività e pratiche terroristiche, che ancora oggi sono una prerogativa e una costante della politica di Israele e del sionismo internazionale. Dunque, mi limiterò (per il momento) a formulare una precisa, elementare, ma agghiacciante domanda: come mai chi difende a spada tratta lo Stato di Israele contro i suoi nemici e si adopera in tutte le maniere per denunciare ogni accenno di antisemitismo, non reagisce allo stesso modo, non si indigna minimamente, non si commuove neppure a compassione di fronte alle violenze, ai patimenti e alle sopraffazioni sofferte per lunghi decenni dal popolo palestinese, a causa di uno Stato il cui popolo ha vissuto per secoli le medesime ostilità e persecuzioni, in tutto il mondo, ma soprattutto durante la seconda guerra mondiale? La "diaspora" del popolo palesinese non merita lo stesso rispetto e la stessa considerazione che riconosciamo (giustamente) alla "diaspora" del popolo ebraico? Il genocidio del popolo palestinese non merita la stessa condanna, la stessa risposta e risoluzione, adottate rispetto all’Olocausto contro gli Ebrei? Nel contempo mi preoccupo di far presente che non sono affatto antisemita. Non sono antisemita in quanto non disprezzo, non perseguito, non insulto alcun popolo di origine semitica, sia che si tratti del popolo ebraico che di quello arabo, dato che non ho alcuna ragione personale, o di altra natura, per farlo. Invece, confesso di essere antisionista, nella misura in cui condanno con fermezza la politica di aggressione e di espansionismo economico-militare perseguita negli anni da Israele ai danni delle popolazioni palestinesi, sempre più confinate ed incalzate nella striscia di Gaza, costrette a subire quotidianamente stragi, persecuzioni e violenze d’ogni tipo da parte di truppe ostili ed occupanti.
Ho letto qualcosa a proposito di uno dei più grandi uomini della storia non solo ebraica ma universale, un vero ebreo socialista, laico ed antisionista: Martin Mordechai Buber. Il quale sosteneva che lo Stato di Israele, ancora lungi dalla sua nascita, non avrebbe dovuto assumere un’identità di tipo etnico-confessionale. Quest’uomo, dotato di buon senso, pensava alla costituzione di un’unico Stato che riunisse tutti i semiti presenti in Palestina. Invece, altri “padri fondatori” della nazione israeliana, di diversa estrazione politico-ideologica, hanno voluto ed imposto la formazione di uno Stato su basi etnico-religiose, strutturato in senso esclusivista e razzista. Tra i nomi dei leader sionisti che hanno contribuito alla creazione dello Stato israeliano come si configura oggi, è inevitabile citare: Davide Ben Gurion, capo dell’Hagamah, l’Agenzia ebraica sionista; Shamir e Begin, capo dell’Irgun, nonché la famigerata Banda Stern, descritte dai Britannici (e non dal sottoscritto) come vere e proprie organizzazioni terroristiche. In senso opposto si muoveva Martin Buber. Questi è ritenuto uno dei padri spirituali della patria e della nazione israeliana, un pò come il nostro Giuseppe Mazzini (scusate il paragone, forse un pò azzardato). E’ stato uno dei più importanti filosofi del secolo scorso. Era di orientamento esistenzialista e socialista, ma dissentiva profondamente nei confronti dell’ideologia sionista. Martin Mordechai Buber era esattamente di nazionalità austriaca e di origine ebraica. Aderì inizialmente al movimento sionista internazionale, ma se ne distaccò molto presto, non appena si rese conto della vera natura di quel movimento, per aderire ad una filosofia di ispirazione esistenzialistica e socialista, e abbracciare la causa della convivenza pacifica tra i popoli in Palestina. Infatti, egli sosteneva che lo Stato di Israele, che si sarebbe formato nel 1948, non dovesse reggersi su un fondamento etnico-confessionale (come poi è accaduto), tanto meno di tipo oltranzista. Basti pensare ai vari gruppuscoli estremistici di destra e alle diverse formazioni politico-religiose integraliste, ben rappresentate nel Parlamento israeliano. Oppure si pensi solo al Likud, un partito di orientamento ultraconservatore, che costituisce la principale forza politico-istituzionale del paese, insieme al partito socialista. Per contro, Martin Buber pensava alla creazione di un unico Stato che riunisse tutti i popoli semiti in Palestina, Ebrei ed Arabi musulmani, per metterli in condizione di convivere pacificamente e di condividere, con pari dignità e pari diritti, le responsabilità della direzione e dell’organizzazione politica, economica e sociale di uno Stato non confessionale, ma laico e inter-religioso. Altro che "due popoli e due Stati": un solo popolo ed un solo Stato! Questa era la geniale, ambiziosa ma non utopica, in qualche modo "profetica" visione di Martin Buber. Invece, Ben Gurion, Begin, Shamir ed altri leader sionisti, moderati o estremisti che fossero, hanno pensato e partecipato alla creazione di Israele così come esso si struttura oggi: uno Stato ebraico di natura etnico-confessionale, con aspirazioni imperialistiche accentuate e prepotenti, ossia con una decisa predisposizione all’aggressività ed all’espansionismo verso l’esterno.
Restando in tema, voglio citare una frase che mi piace molto, per poi congedarmi. L’autore è sicuramente un ebreo, ma ignoto; tuttavia il senso del concetto è senza dubbio condivisibile da parte di tutte le persone dotate di buon senso. Ecco la frase: "Se tu scrivessi ebrei invece di israeliani, coinvolgeresti anche me che sono ebreo, ma non israeliano, e che sono antisionista". In questa felice affermazione è riassunta tutta la differenza semantica, politica e culturale tra i concetti di "antisemitismo" ed "antisionismo". Alcuni opinionisti “filoscemiti” e filosionisti di casa nostra asseriscono che Israele avrebbe fatto bene a violare le risoluzioni dell’ONU, compresa l’ultima in ordine di tempo, la 1544, al fine di proteggersi dai suoi nemici. Dunque costoro, come Israele, si auto-escludono dalle norme della legalità internazionale, dalla civile convivenza tra i popoli, per cui meritano solo parole di biasimo e disapprovazione.
Tornando alla questione dell’antisionismo, voglio ribadire la mia posizione nettamente contraria al sionismo come dottrina politica. Tuttavia, tale posizione non può essere confusa, se non in malafede, con l’antisemitismo, e tanto meno con il negazionismo. Bisogna ripudiare e condannare qualsiasi manifestazione razzista, contrastare ogni insorgenza nazi-fascista, rigettare tutte le idee e le opinioni che tendono a separare gli uomini e i popoli in “superiori” ed “inferiori”. Proprio per tali ragioni ritengo che l’assunzione del sionismo come base fondativa dello Stato di Israele abbia condotto a politiche persecutorie ed aggressive verso i popoli confinanti e soprattutto verso i legittimi abitanti della Palestina. Occorre proclamare con forza che lo Stato di Israele, fino a quando si definirà lo Stato Ebraico anziché uno Stato laico e non confessionale, sarà sempre uno Stato fondato sull’esclusione e sulla discriminazione religiosa e razziale. E’ necessario denunciare e riprovare le occupazioni e le aggressioni di Israele contro i popoli e i Paesi dell’area mediorientale, fino a quando lo Stato di Israele continuerà ad aggredire ed occupare territori altrui, violando le risoluzioni dell’ONU.
Infine, è molto importante saper distinguere tra ebrei ed israeliani, e parlare di “politiche aggressive di Israele e dell’esercito israeliano”, e non di Stato ebraico.
Shalom!
Lucio Garofalo