LO SQUALLORE RIFORMISTA di G. La Grassa

 

Ho scritto il pezzo sulla violenza (vedi il sito) apposta per saggiare le reazioni dei “destri”, ma ancor più dei “sinistri”: soprattutto di quelli buonisti, veltroniani, con la bocca piena di moderazione, riforme, democrazia, benevolenza verso i deboli e quant’altro; salvo cementificare Roma, riempire di rifiuti Napoli, intrallazzare in ambito finanziario, ecc. con la pretesa, finora accolta e soddisfatta anche dai berluscones, di farla franca non solo in ambito giudiziario, ma perfino che non se ne parli più, che i giornali la smettano anche solo di accennarne.

A quel che mi dicono, proprio da ambienti “sinistri” sono stato definito, per quel pezzo, un “cattivo maestro”. Questo mi permette di arzigogolare un po’. Intanto ricordando l’uso ormai stucchevole di simile luogo comune. Non ricordo la prima volta che fu pronunciato (come anche quello di “grande vecchio”); certamente lo si impiegò abbondantemente durante una delle più notevoli azioni di repressione compiute dal regime consociativistico diccì-piciisti, incentrata in particolare sulla spinta dell’allora “ministro degli esteri” (in pectore) del Pci e di un procuratore patavino, anch’esso notoriamente vicinissimo a quel partito. Correva il 7 aprile del 1979, che tutti, salvo in buona parte i più giovani (se lo facciano eventualmente raccontare), si ricorderanno. Per conto mio, rammento solo che, caduto il muro di Berlino e andato a rotoli il sedicente “campo socialista”, quel regime consociativistico – non di semplici “cattivi maestri”, bensì di pessimi amministratori e “ladroni”, che hanno condotto l’Italia in una pessima situazione, oggi divenuta disastrosa – crollò dietro pressioni congiunte di ambienti americani e delle nostre peggiori classi dirigenti economico-finanziarie; con la complicità di uno dei due consoci (il Pci-Pds-Ds), che divenne l’asse portante del nuovo fronte reazionario, “mettendo sotto” e rendendo suo “subordinato” uno spezzone minoritario dell’altro consocio (Dc-Margherita e altri pezzettini dello sbriciolamento democristiano e socialista).    

A parte il fatto appena ricordato del 7 aprile, che fu solo una delle azioni repressive di quel vecchio regime, durato ben oltre le sue capacità “propulsive” grazie alla necessità di presunto contenimento dell’altrettanto presunto “Impero del male”, mi permetto di informare tutti gli ignari (alcuni sanno ma non ricordano o fanno finta di non ricordare) che chi scrive fu netto e radicale critico del movimento detto di “autonomia operaia”. Mai avuto simpatie per le idee di Toni Negri & C., tanto meno per quelle “lottacontinuiste” di Sofri e soci, ben accolti a quell’epoca in ambienti socialisti e poi incappati nel noto “infortunio”, su cui non mi dilungo. Sono sempre stato critico delle azioni repressive, e a mio avviso persecutorie, compiute nei loro confronti, ma non li ho mai considerati vicini, alleati, “compagni che sbagliano”, ecc. Li ho sempre sentiti altro da me e da quello di cui ero convinto; e non parliamo di ciò che penso oggi.

 

Fatta questa breve premessa, veniamo al pezzo che ho scritto. In esso ho affermato con indubbia chiarezza che la violenza rivoluzionaria – trattata nel brano di Engels da me riportato (dall’Antidühring) e nei commenti di Lenin a questo (in Stato e rivoluzione) – non è semplice distruzione cieca né tanto meno annientamento fisico del nemico. Non è affatto sfoggio di radicalità pour épater le bourgeois, non è voglia di fare dell’estetismo dannunziano; se vogliamo “elevarci” un po’, diciamo che non è nemmeno sorelismo. E’ il riconoscimento: 1) che con 90 probabilità su 100 (arrivate in pratica al 100% nel XX secolo, quello delle grandi guerre intercapitalistiche, del colonialismo e imperialismo, ecc.) i dominanti non lasciano mai “spontaneamente” il potere, in base ad “elezioni democratiche” (l’ultima lampante dimostrazione si ha in quello che stanno facendo ad Hamas, regolare vincitore delle ultime elezioni “democratiche” in Palestina); 2) che la violenza non è ammazzamento e caos e anarchia e devastazione, bensì energia concentrata spazio-temporalmente al fine di provocare una nuova organizzazione dell’esistente (il nuovo ordine gramsciano).

Se vogliamo, possiamo, con analogia di massima, parlare del “riorientamento gestaltico”, del rapido mutare della figura formata da vari pezzi quando si gira un caleidoscopio, ecc. Ho anche citato il big bang, e la non validità delle usuali e ripetitive leggi fisiche nei primi attimi di quell’evento. Potrei ancora ricordare l’effetto del fuoco che spesso distrugge e devasta (come stanno facendo i sinistri in questo “pauvre pays” sottomesso al loro governo); tuttavia, situato sotto una pentola riempita di immobile acqua, produce, prima lentamente e poi con forte accelerazione, i fenomeni di convezione in cui si formano ordinate colonne ascendenti di molecole; quando l’acqua bolle, sembra che sia tutto un tumulto e invece si raggiunge il massimo ordine di queste colonne, di questo fenomeno di convezione.

Infine, ho voluto ricordare Schumpeter, un autore che nessuna persona sensata potrebbe denunciare come “cattivo maestro”. Eppure parlò di distruzione creatrice che è una vera azione rivoluzionaria. Il fatto che si svolga nel regno dell’economia e della equivalenza negli scambi, e non invece in quello della “democratica” rappresentanza del popolo – ottenuta a suon di soldi per le campagne elettorali di loschi farabutti, di rincretinimento mediatico di masse che li debbono votare, di ampie attività di corruzione e alla fine, quando tutto ciò non basti, di azioni di guerra con condanna della popolazione alla fame come avviene oggi, appunto, in Palestina (o com’è avvenuto nelle “libere elezioni”, tenute in teatro di guerra, in Irak e Afghanistan) – non cambia in nulla il carattere rivoluzionario e “violento”, cioè di energia concentrata, dell’attività considerata creatrice ma solo mediante distruzione.

Senza questa azione violenta, che si concentra in un breve periodo, l’economia capitalistica sarebbe condannata al flusso circolare, pura ripetizione “eterna” del già avvenuto. Si tratta però di una finzione teorica, poiché non esisterebbe capitalismo, caratterizzato dal dinamismo e dallo sviluppo, se tutto si svolgesse solo circolarmente. I cosiddetti imprenditori innovatori rompono periodicamente – mediante salti “discreti”, non con “analogica” e progressiva (e riformistica) gradualità – tale ripetitività circolare (non capitalistica) mediante la loro iniziativa tesa all’introduzione della novità (di prodotto, di processo, di fonti di energia, ecc.). Che piaccia o meno agli sbiaditi e amorfi riformisti, oggi tutti tesi a ri-glorificare la “mano invisibile” teorizzata da quel micragnoso scozzese che fu Adam Smith, le tesi schumpeteriane, chiaramente influenzate dalla nietzschiana “volontà di potenza”, inneggiano di fatto alla violenza rivoluzionaria nel senso preciso in cui l’ho illustrata nel mio testo. Solo che non è sufficiente alcuno “spirito animale” imprenditoriale, se non c’è anche l’appoggio degli agenti politici e di quelli ideologici. I primi debbono sconvolgere il precedente, ormai cristallizzato o stagnante, quadro istituzionale e le stanche regole (“democratiche” o meno che siano) del passato; i secondi debbono prendere di petto e sommuovere la morta gora, la palude, della mentalità gradualistica, riformistica, tipica di tutti gli ignavi del tipo dei sinistri odierni, nani nel pensiero e nell’azione, omuncoli che si (e ci) trascinano nel baratro della viltà e della pochezza.

E’ contro questa mentalità che invoco la violenza rivoluzionaria, cioè la distruzione creatrice, la riorganizzazione rapida (caleidoscopica) degli elementi che pur sussistono nella società italiana; chiederei solo quel fuoco che alimenta e accelera i fenomeni di convezione portandoli al loro culmine quando l’acqua bolle, situazione in cui dunque si verifica il massimo dell’ordine e dell’organizzazione. Tale violenza non si esercita certo con l’omicidio di singoli individui (“morto un Papa se ne fa un altro”; anche questo è un bel detto popolare) né con eccidi di massa; e nemmeno con devastazioni di città o sfracassamento di vetrine, magari di banche, e altre “azioni esemplari” (nel mio pezzo ho avuto parole dure per i “giovanottoni” che si comportano così; gli sciocchi che mi hanno chiamato “cattivo maestro”, e che di alcuni di questi “giovanottoni” hanno fatto eroi, anche traendone profitto per sé e per le loro un po’ misere manovre di retori e imbonitori, non hanno capito il mio discorso? O è proprio perché l’hanno capito che reagiscono in questo modo?). Sarebbe sufficiente, e necessario, spazzare via dalle istituzioni, dall’amministrazione pubblica, dai media e dai centri di irradiazione di una cultura (di lassismo e imbarbarimento), tutti i gradualisti, i finti “democratici” formalisti, tanto “pieni di buon senso”: in una parola, tutti i “sinistri” attuali.

Non scordo affatto la destra che, come ho già ripetuto più volte, non è la risposta adatta a questa sinistra, è una sorta di risposta “autoimmunitaria” che aggrava il male, quanto meno lo coadiuva, lo alimenta pur nella finzione di una opposizione intransigente che è invece del tutto inconsistente e solo verbale (piccolo, minuscolo, fatto esemplare: Berlusca obbliga tutta FI a votare contro le richieste della Forleo e dà una mano ai Ds. Una mano che questi azzanneranno alla prima occasione, così come egli si merita; ciò non muta il significato di quanto detto: la destra non serve a nulla). In ogni caso, se la destra è questa nullità, questa inettitudine a pensare ed agire che aggrava il male italiano, va però preso atto che l’origine dello stesso è nella sinistra, è nei “non violenti”, è nei cultori del “flusso circolare”, della infinita ripetitività delle stesse parole, degli stessi gesti, della stessa cultura intrisa di conformismo e piattezza.

Se un sinistro dice che sono un “cattivo maestro”, tale affermazione prende il suo significato esattamente contrario: io sono un “buon maestro” perché invito a buttare sassi, anzi macigni, in questo stagno. Senza affatto ammazzamenti, individuali o di massa, senza violenza fisica, senza devastazione di centri urbani; ma nemmeno con i metodi “democratici” (quelli che poi si ritorcono contro Hamas, ad esempio), poiché questa democrazia è solo elettorale, è la conta dei voti. A mio avviso, sono più vicini ad una reale volontà di scelta i metodi della violenza che deve togliere il bastone di comando agli attuali dominanti e ai loro servi politici, un bastone usato per corrompere l’intero tessuto sociale nazionale, per devastare il paese come i piromani devastano le nostre foreste. Volete non combattere contro i piromani? Volete usare nei loro confronti la “dolcezza” del corrotto che imbonisce le masse per i propri scopi? I sinistri sono fra i più corrotti e imbonitori: questa la realtà.

 

E veniamo a qualche altra prova del già detto. Ieri (31 luglio), sul Corriere (nell’editoriale!) un “grande intellettuale di sinistra”, Claudio Magris, ha sostenuto una tesi “originalissima”; non si deve concedere al popolo italiano di tornare a “libere” elezioni perché altrimenti andrebbe nuovamente al governo Berlusconi; e sarebbe una “sciagura nazionale”. Amici di cui mi fido mi assicurano che Magris è molto intelligente e fine letterato; ci credo, ma in politica fa una gran brutta figura. Di sicuro dimostra intanto di avere della democrazia quella concezione di cui ho sopra detto, e che si manifesta in tutta la sua becera arroganza, sempre per fare un esempio, nel non tener conto della “volontà elettorale” dei palestinesi. Una “democrazia” a corsia unica: se voti per me, va bene, altrimenti è meglio non votare. In secondo luogo, questo Magris – che in politica pensa come il più banale degli insegnanti, assistenti sociali, impiegati pubblici, ecc. diessini – sembra non rendersi conto (ma sarà così?) che l’attuale governo (e non tanto Prodi in quanto persona) è una sciagura nazionale di dimensioni mai viste finora; è inoltre inviso perfino a molti che lo avevano appoggiato, è totalmente paralizzato, incapace di azione, e quindi causa di una stasi paludosa che ha del pericoloso (anche per la tanto decantata “democrazia” puramente formale, cui si sono convertiti gli ex comunisti, in realtà evidentemente meri piciisti, perché un reale comunista non diventa mai così rincoglionito).

C’è un’altra notazione meno simpatica. Questo Magris scrive un editoriale (e sappiamo che cos’è, e credo venga anche pagato piuttosto benino) sull’organo principale del gruppo economico-finanziario di comando, quello veramente parassitario e “sciagurato”, quello che ha il suo nocciolo duro nel patto di sindacato della Rcs e che può essere soggettivato nel “trio infernale” dei presidenti di Fiat, Intesa e Unicredit. Sia chiaro: non sono così cretino come quelli che personalizzano le “sciagure” in Berlusconi. Il “trio infernale” ha certo dei nomi, ma questi c’entrano ben poco con le persone che li portano; e che possono essere tutte di deliziosa frequentazione, colte, educate, magari anche miti e benevolenti. I nomi servono per semplificazione e più vivida rappresentazione nell’indicare una funzione, tipica di un dato gruppo (o gruppi) di comando in una certa fase storica.

Più volte ormai ho paragonato questo(i) gruppo(i) di comando agli Juncker prussiani o ai proprietari delle grandi piantagioni di cotone nel sud degli Stati Uniti (gruppi sociali raffinati, quasi nobili, rispetto ai più rozzi industriali del nord di tale paese), che erano oggettivamente reazionari in quanto alleati della borghesia industriale inglese e che perciò bloccavano un vero sviluppo moderno dei loro paesi. Allora si trattava di classi agricole contro quelle industriali, oggi si tratta di quelle finanziarie e di industrie di passate stagioni dell’industrializzazione, contrarie allo sviluppo delle industrie nuove e di punta che farebbero concorrenza a quelle USA, creando problemi ai loro interessi per eventuali ritorsioni statunitensi. Per cui tali gruppi – i cui organi principali sono Corriere, Repubblica, Stampa, Sole24 ore, i quali hanno appoggiato senza mezzi termini (il Corriere con un editoriale di Mieli di chiaro invito a votarlo) il centrosinistra alle elezioni – sono gli oggettivi alleati degli USA; al di là delle dichiarazioni più apertamente filoamericane (e filosioniste) del centrodestra.

Se Magris facesse il critico letterario, leggendo i testi con così scarso acume e con la superficialità con cui “legge la politica”, dovrei pensare che gli amici che garantiscono per lui stanno prendendo un granchio. Non lo credo per nulla, ma allora invito chi non sa fare alcuna analisi politica, chi non si sforza di vedere coloro che muovono le fila dietro le quinte, a tacere; soprattutto a non scrivere editoriali per l’organo principale di comunque ben noti gruppi finanziari e industriali, che hanno pienamente dimostrato di ritenere Berlusconi un ostacolo alle loro manovre. Questi gruppi, che ormai devastano l’Italia da decenni ma oggi stanno accentuando il loro parassitismo, tengono in piedi con mille manovre di corruzione – anche di importanti settori dell’opposizione – il governo attuale, malgrado ciò sia ormai fonte di imputridimento crescente e accelerato. Essi insistono nel voler portare a compimento la loro manovra incentrata, al presente (e già da qualche tempo), sul duo Veltroni-Rutelli (ancora una volta ricordo che i nomi servono solo ad una più vivace rappresentazione di un processo che non ha connotati puramente personali). L’importante è comprendere che questo processo è di metastasi dilagante, di avvicinamento al disastro finale; solo per la collettività, ovviamente, non per i gruppi dominanti in oggetto e, logicamente, nemmeno per i gruppi politici (ma anche quelli intellettuali) che li servono (dalla maggioranza o dall’opposizione; si sarà notato come oggi molte “cose” siano “trasversali”).

 

E veniamo quindi al punto cruciale. La violenza cui faccio riferimento dovrebbe solo servire a risanare questa putredine, andrebbe quindi rivolta a neutralizzare il potere dei gruppi dominanti (la GFeID) di cui sopra, e a spazzare via i loro agenti politici e culturali, dotati di molti mezzi perché pagati profumatamente dai dominanti in questione (estremamente ricchi così come lo erano gli Juncker e i proprietari delle piantagioni di cotone). Intanto, questa violenza non implica l’omicidio (anzi lo esclude con la massima categoricità!) o l’eccidio (idem) o la cieca violenza “di piazza”. Inoltre, solo i residui di un rozzo comunismo d’antan – non so quanto praticato in buona fede, ma non indaghiamo – possono pensare ad un immediato sommovimento delle più misere classi subalterne (che ne avrebbero pieno diritto, sia chiaro!, ma non vedo proprio come potrebbero e saprebbero realizzarlo); sarebbe per il momento già importante la radicale sconfitta della GFeID, mettendola così in condizioni di non più nuocere alla nostra vita sociale (e quindi anche individuale).

Ultimamente, si sono verificati “piccoli fatti” di una chiarezza accecante (per chi sa “leggere la politica” ed è in buona fede). La Fiat ha fatto un battage incredibile sulla 500; non esiste angolo del pianeta in cui non siano risuonati quei ridicoli peana di cattivo gusto. Al contrario, non dico proprio nessuno, ma certo pochi hanno saputo che, nello stesso periodo, Finmeccanica ed Eni concludevano importanti contratti, potenzialmente in grado di imprimere altri indirizzi al nostro povero sistema-paese. Ebbene, credo che solo una “violenza”, anche politica e culturale, potrebbe dare vita in Italia ad una fase di schumpeteriana distruzione creatrice. Senza un ricambio radicale almeno dei gruppi capitalistici al vertice, ricambio perciò imposto con le opportune modalità (nient’affatto semplicemente elettorali), non ci sarà alcuna svolta negli indirizzi marcescenti e involutivi della politica economica e industriale. Tutte balle quelle neoliberiste dei cultori della competizione “globale” lasciata al mero gioco delle forze di mercato. Non è mai stato così. Il grande Ricardo, su questo piano, era un puro ideologo filo-inglese. Il più piccolo List era il vero ideologo di punta di chi voleva crescere contro i parassitari alleati del grande capitale dell’allora paese predominante.

Così oggi. Ma non perché – come potrebbe subito pensare il sinistro detto “radicale”, che è soltanto uno sfegatato statalista – quelle aziende sono “pubbliche” (o in gran parte ancora tali). Questo diviene perfino un elemento di debolezza, se l’apparato manageriale non si affranca completamente dalle pressioni della “sfera politica” (e ideologica che agisce di conserva) e non ne rovescia la direzione: non da essa a loro, bensì da essi a quella sfera. Quest’ultima non ha per nulla alcuna autonomia, è invece succube della GFeID. E allora, se si volesse invertire la rotta, far fare “un giro” al caleidoscopio; diciamo, in sintesi, se si intendesse realmente conseguire il massimo ordine nella convezione delle molecole d’acqua, si dovrebbe giungere al più presto al bollore. Lontani dai 100° centigradi non si ottiene il massimo, si resta ancora in situazione largamente caotica.

Occorrerebbero, probabilmente, degli “Enrico Mattei” per far assumere a quelle aziende (e anche all’Enel, all’Ansaldo e a poche altre) una autentica posizione di punta, che – lo ribadirò in continuazione – non si conquista con la semplice efficienza economica e l’avanzamento tecnologico (necessari ma non sufficienti), mentre il management deve avvolgersi in una spirale di mediazioni e compromessi con un apparato politico e ideologico prono ai diktat della GFeID. Occorre un ribaltamento politico (e culturale), una azione spazio-temporalmente concentrata, che è appunto ciò che si chiama, “a casa mia”, violenza; se si preferisce, distruzione creatrice, ma non nel limitato significato economico di Schumpeter. All’attività innovativa imprenditoriale deve accompagnarsi – in certi casi anzi la precede – l’attività di nuovi gruppi “rivoluzionari” nella sfera politico-ideologica. Stiamo ben attenti alle lezioni del passato.

Non siamo certo dentro una grande crisi tipo quella del 1929-33; e non esiste quindi una situazione socio-economica catastrofica come quella di allora in molti paesi e, in particolare per quello che ci interessa, negli USA e in Germania. I primi erano uno dei paesi vincitori e già allora cominciavano a prendere la netta prevalenza nell’ambito del capitalismo “occidentale”. Per abbreviare il discorso (ma ricordando che l’economicismo non è spiegazione sufficiente, pur se necessaria), lì arrivò il New Deal. Nella sconfitta Germania, invece, la Repubblica di Weimar era marcia e corrosa, la popolazione “vampirizzata” da una finanza nettamente legata, e in posizione di fatto subordinata, a quella del paese predominante. La sinistra (i socialdemocratici) erano uno dei pilastri di questo marciume e subordinazione; i comunisti cincischiavano, passando dalle tesi della socialdemocrazia “socialfascista” all’alleanza antinazista con questa corrotta formazione politica, serva dei parassiti. Nel frattempo la Germania agonizzava; nel 1933 il Pil era poco più della metà di quello pre-crisi e vi erano 6 milioni di disoccupati. Andò al potere il nazismo – con la violenza ma con l’appoggio popolare, perché si poneva il problema della rinascita industriale tedesca e della sottomissione della finanza ai progetti del paese (che divennero, per forza di cose, quelli dei vincitori) – e dopo nemmeno un biennio il Pil aveva ripreso tutta la sua quota e i disoccupati erano scesi a un milione.

I comunisti, forse non tutti ma quasi, erano convinti che il nazifascismo fosse il predominio del capitale finanziario; un errore notevole, poiché perfino l’antisemitismo (che non dipendeva certo da motivazioni economiche) fu utilizzato contro la finanza in momenti cruciali. E’ ovvio che, come sempre avviene nelle lotte di potere con tanti andirivieni tattici, ci furono anche momenti in cui i nazisti si accordarono con la finanza americana, ma sarebbe stato necessario non perdere di vista il loro obiettivo strategico (conseguito) di subordinare la finanza tedesca al capitale industriale e alla potenza del paese, che poi fu usata secondo la direzione da essi scelta. E’ veramente inutile e irritante (per la sua superficialità) sentire ancor oggi ripetere che solo la violenza e il terrore permise ai nazisti di prevalere. Mi dispiace, essi seppero affrontare e risolvere il problema della enorme crisi sociale e non solo economica, connessa alla corruzione e marciume di Weimar, di cui fu pienamente complice la socialdemocrazia (la sinistra) con inconsapevole, ma egualmente colpevole (per ignoranza), corresponsabilità dei comunisti. Se gli altri aggravavano la crisi e pesavano sul popolo come tante mignatte, è ovvio che chi prese le redini in mano seguisse la sua direzione di marcia.

Si stia attenti; oggi la situazione non è per nulla così drammatica, ma è marcia forse ancor più di quella di Weimar. La nostra GFeID è l’equivalente dei gruppi (sub)dominanti tedeschi proni a quelli dominanti statunitensi. I “comunisti” (ormai un residuo) si gingillano con gli scontri capitale/lavoro (sognati), credendo di opporre (minime) resistenze al processo di redistribuzione in atto (a favore degli agenti capitalistici); oppure si ergono a difensori delle masse diseredate del mondo contro l’imperialismo USA: un obiettivo giusto ma che non tiene conto fino in fondo di dove stiamo agendo. La sinistra è più marcia e corrotta della socialdemocrazia di Weimar, ed ancora più organica ai gruppi peggiori del capitalismo nostrano: finanza (subordinata a quella USA) e industria dei “vecchi” settori.

Non stiamo a pensare al nazifascismo, perché la storia non si ripete nelle sue forme di manifestazione (e la “paranoia” anti-nazifascista è abilmente sfruttata, tramite il ceto politico-ideologico della sinistra, dai dominanti parassiti). Però, in altre forme, potrebbero risorgere forze in grado di porsi infine il compito della rinascita del paese, nel senso di un nuovo slancio alle industrie dei settori innovativi, che non mancano del tutto (anzi, qualche grande impresa del genere, come visto, ancora resiste e ha successo). Solo che potrebbe trattarsi di forze politiche che affronterebbero il problema della rinascita con modalità assai poco piacevoli per chi è contrario al predominio capitalistico. Se però gli anticapitalisti saranno – ancor più dei comunisti negli anni trenta – inconsapevoli, pasticcioni, incapaci di sciogliersi dal legame con la corrotta e marcia “socialdemocrazia” odierna (la “sinistra”), poi non si lamentino di quel che potrebbe accadere nel medio periodo, se si verificheranno situazioni, magari non economicamente disastrose, ma di disagio e scollamento sociali.

E per oggi basta.