CHE BUGIARDI E NOIOSI di G.
I media di regime sono oggi pieni delle “eroiche” parole di TPS: “massimo rigore; ma le tasse non aumenteranno”. Peccato che, fino a due settimane fa, esponenti di primo piano del futuro partito democratico, quali Rutelli e Veltroni (il capo in pectore), ma anche membri del Governo, affermavano che era ora di ridurre la pressione fiscale; e che ci si sarebbe accinti all’opera fin dalla prossima finanziaria. Adesso, semplicemente, “le tasse non aumenteranno”. Nemmeno a questo si può credere; basta pensare a quel che accadrà con l’ICI le cui aliquote non vengono fissate dal Governo, il quale attuerà il “massimo rigore” padoa-schioppesco semplicemente tagliando le risorse trasferite agli Enti locali. Alcuni – ma solo alcuni – sindaci promettono di abbassare l’ICI, ben sapendo però che verranno innalzati (addirittura raddoppiati o anche più) gli estimi catastali, quindi la base imponibile della “gabella”. Alla faccia delle riduzioni, che servono a prendere per i fondelli solo i gonzi. E vedrete che, tra “tocchi” e “ritocchi”, magari in direzioni contrastanti, alla fine anche altre aliquote fiscali, e la pressione in generale, verranno accresciute. Comunque, già è sufficiente al momento la “promessa” di non aumentarle per accusare questi governanti di mendacio; e anche di attitudine alla presa in giro.
I vari “Panebianco”, cioè gli intellettuali in servizio permanente attivo presso il Corriere, dunque dipendenti dalla RCS, in quanto vertice della grande finanza e dell’industria parassitaria italiana, stanno suonando la carica per un attacco “antidemocratico”. Non mi tange che si sputi su questo schifo di “democrazia” all’italiana, in cui tutti i posti di vertice sono occupati da “quelli dell’attuale regime”. Sono però contrario a che la “democrazia”, già ridotta al lumicino, venga ulteriormente intaccata da questi settori capitalistici che sono semplicemente tanti topi nel formaggio. Preferirei arrivasse una forza in grado di “asportare chirurgicamente” l’intero quadro politico italiano – con equanime atteggiamento verso destra e sinistra – onde dar vita ad una politica di “taglio delle unghie” a questi grifagni finanzieri e industriali dei cosiddetti “poteri forti”, divoratori delle risorse prodotte dal lavoro della popolazione italiana.
Di rincalzo ai “Panebianco” intervengono i “Giavazzi-Alesina” che – sostenendo che il liberalismo può essere meglio attuato “da sinistra” – fanno capire quale regime si voglia instaurare con simili attacchi “concentrici”: in definitiva, si pretenderebbe soltanto di rafforzare e blindare quello odierno, guidato dalla sinistra, di cui ho ricordato recentemente, e più volte, l’ampia somiglianza con quello brezneviano in URSS, fatta salva la differenza, di forma, tra proprietà “pubblica” (statale, non certo collettiva) e “privata”. In ogni caso, si tratta della dittatura di un blocco sociale, parassitario e incapace di sviluppo, costituito dall’alleanza tra grandi gruppi finanziario-industriali (le “cavallette”) e truppe cammellate del lavoro dipendente (si e no metà dello stesso) ancora sotto il controllo di apparati sindacali di Stato (con rappresentanza politica nel centrosinistra), che devastano il paese tanto quanto le sunnominate “cavallette”. Almeno la metà del lavoro salariato e tutti gli strati bassi di quello “autonomo” sarebbero ancor più oppressi e “sfruttati” da tale blocco sociale, che ha già fatto fallimento in ogni altro paese; proprio in Italia dovrebbe attecchire più ancora di adesso? Ne dubito assai.
Di fronte a tale prospettiva, è comunque sconsolante la reazione degli “economisti” della “sinistra estrema”, magari “marxisti”. Si contesta a Giavazzi ecc. che si possa coniugare sinistra e liberalismo; la sinistra sarebbe per il primato del “pubblico”, che in realtà, in tutta l’esperienza storica dei “socialismi” (e non mi riferisco solo a quelli controllati da un partito unico denominato, sbagliando, comunista), è stato soltanto una serie di variazioni sul tema del lassalliano statalismo.
In realtà, dunque, il liber(al)ismo dei “Giavazzi-Alesina” sembra, ma soltanto sembra, opposto allo statalismo “sovietico”, mentre esprime invece qualcosa di equivalente (non di eguale; è chiara la differenza?) in termini di “dittatura” di dati blocchi sociali. I dominanti, nel blocco sociale preminente in URSS, erano gli ottusi “uomini di apparato” (di Stato) brezneviani; i dominanti, nel blocco sociale preminente in Italia, sono i proprietari privati (finanzieri e industriali) della GFeID. In entrambi i casi, al di là della differenza nella forma della proprietà, si tratta di dominanti sanguisughe e di gruppi di lavoratori che – in quanto succubi di corrotti dirigenti “pagati” dai precedenti – assumono anch’essi una funzione di contrasto sempre più netto con gli interessi generali del sistema-paese. Gli ideologi dei “dominanti di Stato” erano dei “comunisti” apparentemente marxisti e realmente lassalliani; quelli dei “dominanti privati” italiani non possono che essere liberali e liberisti.
I due tipi di ideologi sembrano sostenere tesi opposte solo perché apparentemente opposto è il carattere – la proprietà formale dei mezzi di produzione – del dominio degli oligarchi al vertice della piramide sociale; in entrambi i casi, si tratta però di capitalisti e manager incapaci di essere imprenditori. Essi vivono alle spalle dei dominati, ma non semplicemente “impadronendosi” del loro “pluslavoro” tramite l’organizzazione dei processi produttivi nelle loro aziende, bensì facendo rastrellare l’intera ricchezza creata dall’insieme lavorativo dallo Stato, alla cui direzione vengono collocati dei servi ben pagati, che poi passano loro tale ricchezza mediante “finanziamenti a fondo perduto”, con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro, aggiungendovi inoltre dosi adeguate di prepensionamenti. La polemica degli statalisti – mascherati da difensori del “primato del pubblico” – contro il (finto) liber(al)ismo degli ideologi degli attuali dominanti in Italia non coglie quindi minimamente nel segno, e assume allora una funzione di oggettiva copertura delle manovre che questi stanno inscenando al fine di imporre più duramente la loro “dittatura” (con parvenze sempre più labili di “democrazia” elettoralistica), servendosi delle sinistre in quanto ancora capaci di aggregare, tramite i sindacati, quote del lavoro salariato al blocco sociale (parassitario) di cui si è detto.
In conclusione: sempre più il liber(al)ismo sarà assunto come propria ideologia dalla parte maggioritaria della sinistra politica e sindacale; sempre più i dominanti (privati) del capitalismo – che predicano il libero mercato e vivono di sostegno statale – si serviranno della sinistra per i loro scopi di dominio, in misura crescente “dittatoriale”. La sinistra “estrema o radicale” è destinata a slittare progressivamente verso posizioni di (almeno tentata) deviazione della rabbia dei dominati, predicando lo statalismo (assistenziale e di puro sperpero) come mera finzione degli interessi dei subordinati; con ciò esaltando la funzione degli avversari. Simili “sinistri radicali” stanno dunque assumendo un ruolo equivalente (non eguale) a quello giocato dai menscevichi e socialisti rivoluzionari nei confronti di Kerenski e del Governo “borghese” russo nel 1917. Se esistesse una organizzazione politica anticapitalistica, dovrebbe impostare una corretta strategia atta a colpire i sinistri “estremi”, smascherandone il ruolo apparentemente riformista, in realtà torbidamente reazionario, e subito dopo la sinistra “moderata” in quanto vero supporto politico del capitalismo non imprenditoriale, ma meramente assistito dallo Stato. Solo così si taglierebbe l’erba sotto i piedi degli attuali dominanti, in preda alla fregola di imporre una dittatura “elettoralistica” più dura e opprimente (e sfruttatrice).
ANCORA SULL’ARTICOLO DI ZIZEK di M. Tozzato
Ho trovato particolarmente interessante l’articolo di Slavoj Zizek che è stato inserito nel blog. Mi sono parse molto interessanti anche le osservazioni di Gianni Petrosillo in proposito. Vorrei provare ad aggiungere qualcosa. In riferimento ad un libro di Thomas Frank, Zizek scrive <<che la rivolta populista conservatrice>> negli USA presenta come <<paradosso fondamentale del suo edificio ideologico […]il gap, la mancanza di qualunque collegamento cognitivo, tra gli interessi economici e quelli “morali”>>. Afferma Zizek che <<l’opposizione di classe su base economica>>, prevalentemente operai e contadini poveri, è trasposta nella contrapposizione tra lavoratori cristiani e “veri americani” e liberali decadenti che <<guidano automobili straniere , difendono l’aborto e l’omosessualità, si fanno beffe del sacrificio patriottico e di uno stile di vita semplice e “provinciale”>>. Il nemico è quindi il liberal che <<attraverso gli interventi federali (dagli scuola-bus fino a ordinare che vengano insegnate l’evoluzionismo darwiniano e le pratiche sessuali perverse), vuole minare uno stile di vita autenticamente americano.>> Questa ideologia conservatrice è inoltre antistatalista:<<Agli occhi dei populisti evangelici americani, lo stato è una potenza aliena e, insieme all’ONU, è un agente dell’Anticristo: toglie la libertà al cristiano credente, sollevandolo dalla responsabilità morale dell’autodeterminazione, e così mina la moralità individualistica che fa di ciascuno di noi l’architetto della propria salvazione.>> Quindi la richiesta è quella di meno tasse, meno intervento statale; una scelta di radicale individualismo, come rileva Zizek, che però toglie anche i freni allo strapotere delle “grandi corporations” che pure vengono concepite dalla<<stragrande maggioranza delle persone>> come il <<grande potere anonimo che, senza alcun controllo pubblico democratico, regola la loro vita>>. La “rivolta” conservatrice sarebbe dunque tollerata dalle classi dominanti proprio perchè le classi inferiori con il loro atteggiamento si darebbero, letteralmente, “la zappa sui piedi” dal punto di vista dei loro interessi economici: <<meno tasse e deregulation significa più libertà per le grandi società che stanno tagliando fuori dal mercato gli agricoltori impoveriti; meno interventi statali significa meno aiuti federali ai piccoli agricoltori;ecc.>>. Ma ecco alcune frasi che problematizzano diversamente il discorso:<<Come combinare questo [l’antistatalismo degli evangelici americani n.d.r.]con l’inaudita esplosione degli apparati statali durante l’amministrazione Bush? […]
Negli Stati uniti di oggi, i ruoli tradizionali dei democratici e dei repubblicani sono quasi invertiti: i repubblicani spendono soldi statali, generando così un debito pubblico record, costruendo de facto un forte stato federale, e perseguono una politica di interventismo globale, mentre i democratici perseguono una severa politica fiscale che, durante l’amministrazione Clinton, ha abolito il debito pubblico. Anche nella delicata sfera della politica socio-economica, i democratici (lo stesso vale per Blair in Gran Bretagna) di regola attuano l’agenda neoliberista che prevede l’abolizione del welfare state, la riduzione delle tasse, le privatizzazioni, mentre Bush ha proposto una misura radicale che consiste nel legalizzare lo status dei milioni di lavoratori clandestini messicani e ha reso l’assistenza sanitaria molto più accessibile ai pensionati. Il caso estremo è quello dei gruppi survivalisti nell’Ovest degli Usa: anche se il loro messaggio ideologico è quello del razzismo religioso, il loro intero modo di organizzazione (piccoli gruppi illegali che combattono contro l’Fbi e altre agenzie federali) li rende un doppio inquietante delle Pantere Nere degli anni `60.>> La battaglia culturale conservatrice si manifesta attraverso un sistema di riferimenti simbolici che possono risultare in contraddizione con gli interessi economici dei gruppi sociali che la portano avanti. In parte è effettivamente così: i dominanti manifestano la loro egemonia culturale anche nelle insufficienze e contraddizioni che contraddistinguono le ideologie dei dominati; bisogna però distinguere tra le varie categorie di agenti, politici, economici e culturali che si rapportano ai gruppi sociali stratificati dei decisori e non –decisori. L’amministrazione Bush infatti è costretta a farsi carico anche delle problematiche di cui non paiono consapevoli i gruppi sociali che rappresentano la base sociale del suo consenso cosicché la bassa tassazione viene “compensata” con l’aumento della spesa e un indebitamento che serve anche per garantirsi l’appoggio delle masse più povere. I repubblicani, “la destra”, diviene così la parte politica che si fa carico (ovviamente solo in parte) degli interessi economici e sociali delle classi inferiori stabilendo una alleanza che simbolicamente si fonda sull’ideologia conservatrice e reazionaria degli evangelici tradizionalisti americani. L’ideologia di un “blocco sociale” non si esaurisce nell’ambito delle espressioni propriamente culturali ma risulta come articolazione delle attività funzionale degli “agenti” (nelle varie sfere sociali) di riferimento di questo blocco stesso.
________________________________________________________________________________
In una conferenza del maggio 2006 Umberto Galimberti riassume così la sua concezione del ruolo della tecnica nella società attuale:<<Siamo tutti persuasi di abitare l’età della tecnica, riteniamo ancora che la tecnica sia uno strumento nelle mani dell’uomo: non è più così. Nel senso che ormai la tecnica è diventata il nostro ambiente, il nostro luogo di abitazione. Soprattutto è diventata il soggetto della storia. Il rapporto uomo / tecnica si è capovolto, nel senso che non è più l’uomo il soggetto della storia, ma lo è diventato la tecnica. L’uomo è diventato il funzionario degli apparati tecnici a cui appartiene. Questa è la tesi di fondo del mio discorso.>> Queste tesi, in forma un po’ diversa, sono condivise da altri pensatori. Emanuele Severino, ad esempio, ritiene che anche il “capitalismo” sia ormai subordinato all’apparato scientifico-tecnico e alle sue finalità. Anche pensatori profondi e acuti come Martin Heidegger e Gunther Anders vedono comunque – in maniera certamente diversa tra loro – nella tecnologia la forza dominante del nostro tempo. In Heidegger è proprio la pretesa degli uomini di ritenersi “padroni dell’essente” e quindi capaci di manipolare indefinitamente cose e persone che si trasforma nel suo contrario: la volontà di potenza del soggetto umano diventa, nella realtà, totale estraniazione, sottomissione all’”impianto totale” della tecnica mondializzata. In una banale occasione ho provato ad avanzare l’ipotesi, che ripensata già ora mi pare in effetti – solo in parte però – poco fondata, che l’autentico pensatore del “senso della tecnica” fosse Nietzsche. La mia tesi è stata subito considerata errata ma nessuno è riuscito a spiegarmene la ragione. Avrei bisogno dell’aiuto di un filosofo di professione, con una visione critica e controcorrente, per valutare le mie illazioni. Se la techne greca non rappresentava soltanto la competenza degli artigiani della polis, ma esistevano (ed esiste anche ora) anche una un’arte (tecnica) della politica e un’arte (tecnica) della guerra allora il senso e il carattere della tecnica (nel significato greco classico) e della tecnologia come applicazione della scienza moderna possono risultare differenti in modo significativo. La differenza stigmatizzata da
Mauro Tozzato 10.09.2007