Approvo pienamente quanto scritto da G.P. in “Sinistropoli” (sul blog l’11 settembre, data fatidica). Naturalmente, non mi scaldo troppo al proposito, giacché questa destra merita di essere trattata così, visto che è tanto cretina da alzare solo alte strida e non passare mai ai fatti. Inoltre, la recita a soggetto della sinistra – alle due parti in commedia rappresentate dai “moderati” e dagli “estremisti” (commedia avvalorata dalla destra che ci crede o finge di crederci e predica l’inesistente possibilità di implosione del Governo) se ne è aggiunta adesso una terza, quella del “vaffa”, cui ancora una volta la stupida destra, o una sua parte consistente, sembra far credito di “opposizione” (in realtà è sempre forcaiola e giustizialista in una situazione molto deteriorata rispetto a quella in cui vennero messi in piedi i “girotondi”) – ha ancora più di qualche mese di vita, al contrario di quel che pensa il fatuo e inutile Berlusconi, ma non credo giungerà a fine legislatura. La resa dei conti avverrà prima e anche la terza parte in commedia (il vaffa) non salverà la sinistra dal “taglio delle teste”, con molte “tricoteuses” festanti a raccoglierle. Comunque, semmai dirò qualcosa al rientro da 4-5 giorni di ferie. Perché OGGI, come ultimo pezzo prima dell’interruzione: 

 

PARLIAMO D’ALTRO  (e di più interessante, secondo me) di G. La Grassa

 

[NDR, a causa di problemi tecnici inserisco questo interessante intervento di Gianfranco La Grassa nel blog, salvo trasferirlo sul sito il prima possibile.]

 

Ho apprezzato lo scritto di Mauro Tozzato. La prima parte, opportunamente sviluppata, mi sembrerebbe più idonea al sito, date le sue valenze teoriche (e “astratte”) che presentano alcune difficoltà di lettura. Mi soffermerò invece sulle considerazioni in merito allo scritto di Žižek inserito nel blog recentemente; un autore che probabilmente meriterebbe da parte nostra una maggiore attenzione e di cui pubblicherei anche l’articolo su Lenin, già apparso comunque su “Il Manifesto”. In particolare mi soffermerò su un solo punto, che veramente non riguarda in specifico l’autore in questione, ma quanto scrive Mauro nel pezzo “postato” l’altro ieri sul blog. Discuterò quindi esclusivamente il problema della “verità”; mi si conceda il minuscolo, dato il mio atteggiamento antireligioso che tuttavia, ne sono certo, non è di disprezzo verso chi crede e ha una fede (mi sta spesso più simpatico di quelli che snobisticamente giocano agli “atei”, ai “superiori” ad ogni credenza).

Secondo me, la verità è una questione pratica. Non però nel senso del “tutto si può” (quello cantato da Gaber), non quindi quello del relativismo più bieco e “tollerante” verso ogni tesi sostenuta da chicchessia. Nemmeno intendo parlare soltanto di quella verità stabilita, per null’affatto definitivamente, in base alla verifica (o falsificazione) scientifica o di quella che si pensa di portare alla luce mediante “ragionata discussione” (dialogica), ecc. Non dico che non si possa procedere, per certi scopi (a mio avviso limitati e con riferimento a problemi specifici), secondo tali modalità. Intendo però qui parlare della “prova” (anch’essa non definitiva) di ciò, che normalmente il linguaggio comune indica come “vero” o “giusto”, nella prassi sociale, quindi nello scontro che il marxismo interpretò, nel suo aspetto più vasto, come lotta di classe; e che comunque riguarda in ogni caso un reale conflitto di strategie tra raggruppamenti sociali per affermare un certo “modello” di organizzazione di un dato insieme di rapporti.

Non è tuttavia necessario che ci si riferisca sempre ai più generali rapporti all’interno di una formazione sociale complessiva; il discorso non è molto diverso anche in relazione all’organizzazione di una sfera della società (economico-produttiva, politico-ideologica, ecc.) o di istituzioni particolari di una di queste sfere (le imprese o gli apparati statali, ecc.) oppure ancora di uno specifico ramo di attività: si pensi a quella conoscitiva, nel cui ambito prende forma la cosiddetta “comunità scientifica”, al cui interno non si svolgono solo gli idilliaci (razionali) confronti di cui parlano gli scienziati, ma si affrontano, anche, specifiche strategie di potere per l’affermazione di certe “verità”, ecc.

E’ ovvio che i “modelli” di organizzazione sociale, proposti dai vari raggruppamenti, non esprimono quasi mai gli interessi di quella data “collettività” nella sua completezza; anzi, finora, non li hanno espressi proprio mai. Ognuno di tali modelli si sforza invece di realizzare gli interessi di quelli che, usando un linguaggio generico ma sufficientemente chiaro, sono i dominanti o i dominati; oppure gli interessi di determinati gruppi di dominanti in conflitto fra loro.  Anche quanto appena affermato non riguarda solo la formazione sociale nella sua interezza, bensì pure gli ambiti più particolari di cui ho appena fatto qualche esempio. Un gruppo manageriale lotta (contro altri) per la sua “verità organizzativa” di quella specifica impresa; un gruppo politico per una certa articolazione degli apparati statali, e per una loro strutturazione interna, ritenute “vere” perché più adeguate agli scopi da raggiungere (l’adeguatezza non riguarda quasi mai solo l’efficienza o l’efficacia, ma anche le caratteristiche necessarie a fare accettare le regole di tale organizzazione da parte di chi vi presta lavoro o di chi è in rapporto esterno con tali apparati). Ecc. Ecc.

Ogni lotta per gli interessi pretende quasi sempre di perseguire la “verità”; e si è spesso in buona fede nel sostenere tale pretesa. Anzi, quando chi lotta non crede minimamente alla “verità” di cui si finge portatore – questo è oggi evidentissimo per quanto concerne i “corrotti” e “immorali” che agiscono nella politica italiana – è ormai vicina la fine della sua “funzione storica”. Solo degli sciocchi, ad es., credono che i Papi siano “furbi”: non credono in Dio, ma sanno ben ingannare i fedeli. La Chiesa si sarebbe sgretolata da tempo immemorabile se non solo il Papa, ma l’intero corpo ecclesiale – salvo le eccezioni “normalmente” esistenti – non credesse in Dio. I suoi vari componenti ci credono in modi differenti, secondo la loro specifica cultura (che si esprime abbastanza direttamente nei diversi gradi della gerarchia in cui ognuno si colloca), ma ci credono. Quindi è di fatto indispensabile essere convinti di una “verità”; il relativismo ultratollerante, incapace di assumere recisamente una posizione e di portarla sino in fondo, è il sintomo e l’inizio dello sfacelo di una organizzazione o della fine di un’epoca storica o di una “civiltà” o come altro la si voglia chiamare.

Ognuno dovrebbe avere, nel contempo, la consapevolezza che la verità per cui si sta battendo è comunque transitoria, che lui stesso deve mantenere un atteggiamento critico-problematico tale da indurlo eventualmente a cambiare idea e posizione, cioè a credere in una verità diversa. Tuttavia, con ben precisi limiti, pena l’inazione, l’impossibilità della “prova” nella pratica. Su questi problemi, è pur sempre l’artista, un poeta, che meglio ci illumina. Si (ri)legga la “Lode del dubbio” di Brecht. Dopo aver elogiato in lungo e in largo tale atteggiamento problematico, egli critica aspramente quel dubbio che significa inerzia e passività, semplice rimuginare in continuazione ogni problema per poi andare tranquilli “a letto”, e fare un bel sonno mentre il mondo va in pezzi; quel dubbio che, “di fronte all’ascia dell’assassino”, porta a chiedersi “se anche lui non è un uomo”; ecc. Ogni verità – in cui crediamo in quel momento perché abbiamo raggiunto la fondata (per noi fondata) convinzione che essa risolva praticamente determinati scopi ritenuti essenziali (e non solo per noi personalmente, individualmente) – va perseguita senza esitazioni, non lasciando nulla di intentato pur di affermarla più generalmente. Per essa si deve lottare con la convinzione di essere nel “giusto”; ed è solo nella pratica, appunto, che si dimostrerà eventualmente la sua “verità”, la sua “giustezza”.

Ovviamente, se qualcuno usa il termine verità in altro senso, come qualcosa di certo e definitivo, che già esiste (non so dove) e di cui dobbiamo semplicemente impossessarci, o tramite ragione o intuizione mistica o in altro modo, è ovvio che quanto sto discutendo non lo riguarda; ma di sicuro non riguarda me tutto ciò che un qualcuno del genere potrebbe dire in merito alla verità (o Verità). E’ meglio ricordarlo prima di continuare.

 

Si dice: poiché non siamo sicuri di una data verità – anzi diamo per scontato che essa potrebbe non essere adeguata all’uopo, potrebbe rivelarsi infondata in tutto o in parte, ecc. – allora dobbiamo avere un atteggiamento tollerante, di apertura alle “ragioni” dell’avversario; perché un avversario, accettiamolo senza tante storie, ci sarà sempre e potrebbe avere ragione. Solo che noi, in quella data contingenza, riteniamo che abbia torto; di conseguenza, a meno che non siamo perversi cultori di quel dubbio che porta all’inazione (che “di fronte all’ascia dell’assassino”, ecc. ecc.), non possiamo non ritenere essenziale, in certi casi del tutto urgente, combatterlo e possibilmente abbatterlo, impedirgli di “nuocere” (perché la vittoria della sua verità la sentiamo come nocumento; e non solo per noi personalmente, individualmente).

La tolleranza significa esclusivamente che le differenze tra “noi e loro” non sono molto nette; ci sentiamo diramazioni, non radicalmente divergenti, di un unico alveo. Oppure, avvertiamo di essere in completo disaccordo, ma siamo consci della nostra particolare debolezza, o riteniamo non ancora maturi i tempi perché venga compresa la verità che per noi è già luce, o nutriamo la convinzione che ci siano ancora ampi margini di tempo per convincere l’avversario della necessità della nuova pratica sociale da seguire, ecc. Ci sono però momenti in cui ciò non si dà, non c’è più tempo da perdere. Esistono nella storia della società nel suo complesso (o in date sue parti, come sopra rilevato) dei punti di svolta, di “catastrofe”, in cui o si fa presto o tutto si disgrega. Si tratta di singolarità; e chi avverte la nuova verità – sente che soltanto essa rappresenta la salvezza di quel dato “sistema”, di quell’ambito, in cui viviamo e agiamo – non ha esperienze precedenti, precipitate in determinate regolarità (“leggi”) ormai note e collaudate. Egli deve quindi agire subito, in un “ambiente” largamente sconosciuto e privo, al momento, di nuove legalità; non può in tal caso usare “tolleranza”, che sarebbe il classico “lusso che non ci si può permettere”. 

In tale contesto si inserisce quella frase di Lenin che Žižek cita e che, nella forma, sembra pregna del più totale disprezzo per ogni atteggiamento di tollerante rispetto verso l’altrui opinione, mentre nella sostanza indica invece che, in date contingenze storiche, non si possono fare gli interessi della maggioranza del popolo con le “buone maniere”; gli avversari – e nei punti di crisi, di catastrofe, gli avversari per certi versi peggiori, comunque pericolosi, sono quelli che si frappongono tra te e quello principale, cioè il “nemico” (nel caso specifico di Lenin, quelli che “stavano in mezzo” erano i menscevichi e gran parte dei socialisti rivoluzionari) – debbono essere schiacciati, eliminati, tolti di mezzo (perché hanno l’oggettiva funzione di confondere le masse, di impedire la risoluzione della crisi secondo la “verità rivoluzionaria”). Facile adesso dire che la Rivoluzione d’ottobre non fece, alla lunga, gli interessi del popolo, bensì quelli di nuove oligarchie. Di ogni rivoluzione, dopo un lungo periodo di evoluzione, si può dire la stessa cosa; credere che nella storia, fino ad ora, si sia qualche volta verificato l’avvento definitivo e permanente della maggioranza al potere, è credere “alle fate”.

E allora, che facciamo? Stiamo seduti di fronte al crollo di una data forma societaria (e ancora una volta ricordo che può trattarsi, come ne tratto prevalentemente qui, della società nel suo complesso o invece di singole sue parti); favoriamo la ripresa del suo controllo da parte di quelli che la porteranno presto ad un nuovo punto di ancor peggiore catastrofe (della società o anche, ad esempio, al semplice fallimento di una impresa economica o di un partito politico, ecc.)? Ma neanche per sogno, la rivoluzione – nei momenti della crisi, che è singolare novità, quindi carenza di precedenti “legalità” (regolarità) d’esperienza cui ci si possa riferire – si scatena non usando alcuna tolleranza nei confronti del nemico e di chi si pone in mezzo. Poi, in “corso d’opera”, si vedrà; ma appunto mediante l’esperienza della novità rivoluzionaria che, in quel particolare periodo storico (singolare), rappresenta la “verità”, perché sembra risolvere praticamente una situazione di sofferenza, di disastro, di totale disgregazione sociale.

Questa è la verità rivoluzionaria, di cui Lenin parlava. Non le belle favole, futili e svianti, dei “filosofi della trottola”, che vanno considerati, a tutti gli effetti, come acerrimi nemici della verità, qualunque essa sia; essi, infatti, non sono portatori di verità di alcun genere, si rivelano spesso sommamente dannosi perché inutili chiacchieroni dediti al soli(vani)loquio, e vanno dunque trattati con poca tolleranza, non appena ciò si riveli possibile.

 

Pensiamo del resto alla distruzione creatrice (e non creazione distruttrice, che inverte la sequenza del processo). Non v’è alcun bisogno di pensare solo all’innovazione dell’imprenditore; il fenomeno ha valenze generali. Che cos’è in fondo l’innovazione “imprenditoriale”? Una invenzione introdotta in un “processo produttivo”. E che cos’è l’invenzione? E’ l’emergenza di una novità nella  già data ed esistente costellazione di elementi fra loro interrelati secondo ormai note (“scoperte”, usando una espressione non sempre appropriata) legalità. La novità sconvolge il precedente quadro interrelazionale, crea appunto una singolarità, che semmai si “acquieterà” in nuove legalità in un tempo (medio-lungo) successivo. Si parla di emergenza della novità perché essa non nasce bell’e pronta quale parto “creativo” di una mente (che è sempre singola; quella “collettiva”, a mio avviso, è pura espressione verbale, a volte suggestiva, ma mai da prendere sul serio, pena svarioni clamorosi). Prima della novità sussiste sempre un periodo di crisi, di scossoni continui inferti alla legalità passata e presente, che resiste con sempre maggiori difficoltà.

Infine la crisi precipita in un punto: la singolarità della svolta, lo sconvolgimento della finora accettata forma interrelazionale tra gli elementi “noti”. In quel punto, certo, la novità prende forma nella mente di uno o pochi individui (comunque sempre in forma individuale). Può essere preparata da lavori di équipe (lavori dunque sempre organizzati, mai svolti a casaccio), ma poi si condensa nella testa di uno o pochi individui. Tuttavia, nulla si condenserebbe senza il lavorio della crisi (anche lungo) e la sua brusca precipitazione nel punto di svolta (o “catastrofe”). Che si tratti di fenomeni naturali o sociali, il lavorio della crisi passa sempre per l’attività di individui legati da rapporti sociali – mai esenti, anche se con intensità ben diversa in ambiti e in periodi storici differenti, da strategie di potere – e precipita, nei punti di svolta, nella mente di alcuni di questi individui, che pensano così di aver “scoperto” la risoluzione del problema posto dalla crisi. Da una parte, senza il lavorio della crisi – anonimo perché passa attraverso l’azione di innumerevoli individui – non si arriverebbe ad alcun punto di svolta, ad alcuna singolarità, fonte di novità; dall’altra, tale lavorio, nel momento finale della crisi, precipita nella testa di alcuni individui, e senza questo fenomeno di condensazione esso resterebbe muto, inespressivo, si impantanerebbe e non darebbe perciò vita ad alcuna possibile azione di mutamento, di realizzazione della novità.

Il lavorio della crisi è la “distruzione”; la precipitazione nel punto di svolta, con condensazione della novità nella testa di un “soggetto”, è l’aspetto della “creazione”. Ecco perché la sequenza è: prima la distruzione (la corrosione, la disgregazione della vecchia legalità) tramite l’azione di molti, poi la creazione del nuovo, l’innovazione, mediante la sua condensazione nella mente – seguita da prassi specifiche – di alcuni. Spesso si inverte il processo e si crede nella funzione primaria del “soggetto” (in tal caso, si può parlare, in modo errato, di creazione distruttrice); altre volte si ignora la precipitazione della crisi nella mente di un “soggetto” (comunque sempre individuale pur se ve n’è solitamente più d’uno) e si ascrive il mutamento al merito del movimento di confuse “masse” (o moltitudini), fantasmagorica immagine di un “soggetto collettivo” (dotato di “mente”), che per quanto mi riguarda è solo la proiezione dei desideri del (o degli) individuo(i) che crede(ono) di imprimere alla “Storia” la direzione “sognata”, attribuendola ad una coscienza “collettiva” (sostenere che è “il popolo a volere” è la versione terrena del “Dio lo vuole”; una versione decisamente peggiorativa).

 

Ho buttato giù queste riflessioni di getto, un po’ alla rinfusa, ma spero sia sufficientemente chiaro qual è la mia opinione in merito a ciò che è vero o meno circa tutta una serie di questioni, fra le quali accenno, come conclusione del mio discorso, a quanto ricordato da Mauro in merito alla Tecnica e ai suoi “cantori”. Siamo ormai dentro il mondo di questa Tecnica, trascinati dal suo impersonale movimento? Oppure, seguendo Marx – come credo di fare io, pur con qualche cambiamento – è l’uso che di essa si fa a determinare il suddetto movimento? Non credo si possa dirimere la questione con dibattiti e discussioni interminabili. Penso anzi che tali discussioni non termineranno mai, e mai dirimeranno la questione nemmeno tra mille o un milione d’anni (se l’umanità ci arriva). Quando ho iniziato dicendo che la “verità” – e dunque chi ha ragione e chi torto nel sostenere certe tesi – è una questione pratica (di prassi sociale), non volevo affermare che, alla fine, “qualcuno” o “qualcosa” emetterà il suo verdetto definitivo. Non verrà emesso; e tuttavia, si deve compiere una scelta tra le tesi in contrasto e operare, agire, di conseguenza.

Io opto per l’uso della tecnica (in minuscolo) e non per la deriva degli esseri umani in essa, trascinati dal suo movimento. Tuttavia, non credo alla storia dell’“ape e l’architetto”, ad un soggetto che realizza un progetto che ha già presente, ben perfezionato, nella sua testa. Certo, se pensiamo alla costruzione di una casa o di un ponte, alla messa in orbita di un satellite artificiale, all’apprestamento di dati programmi per computer, ecc., possiamo attenerci all’elementare schema costruttivo appena detto. Se si pensa al movimento di una società, alla conduzione di un’attività economica o politica, ad un vasto programma di ricerca scientifica, ecc. la questione si complica. Ognuno di noi agisce nell’ambito di strutture interrelazionali (tra individui), della cui configurazione cerca di farsi un’idea.

Quella mia, espressa però qui in modo ultraschematico, è che gli individui in relazione vadano – teoricamente, ma per scopi pratici – riuniti in “coaguli” (raggruppamenti effettuati con modalità diverse a seconda dell’ambito preso in esame e degli scopi specifici che ci si propone di conseguire fissandoli secondo le diverse modalità) fra loro conflittuali; per cui le forme dei reticoli interrelazionali pulsano (periodicamente), si deformano e trasformano in base a varie strategie attuate nel conflitto. I coaguli (raggruppamenti) vanno suddivisi – teoricamente, ma non arbitrariamente, non a casaccio e come capita – in dominanti (che hanno maggior potere nell’assumere decisioni che valgono per l’insieme) e dominati (subordinati alle decisioni di maggior momento prese dai precedenti); tuttavia, anche i dominanti vanno suddivisi in gruppi che si combattono fra loro per assumere la supremazia (nelle maggiori decisioni da prendere). Esistono quindi tipi diversi di conflittualità, e dunque varie strategie adottate nella lotta reciproca (tra gruppi dominanti e tra questi e i dominati).

I gruppi si raggruppano, formano “blocchi”, mediante l’attuazione di strategie collaborative (in cui certi gruppi assumono il comando del blocco convincendo gli altri di rappresentare anche i loro interessi), che mirano sempre al conflitto con altri “blocchi”. In tutto questo bailamme, una data formazione sociale complessiva – che può essere quella mondiale, quella particolare di determinate aree sempre più ristrette, fino a quelle che definiamo correntemente paesi, o “regioni” ancora più ristrette interne a questi ultimi, ecc.; senza interpretare “regione” in senso soltanto territoriale, perché può essere un settore o una unità produttiva, lo Stato o un apparato politico, l’organizzazione culturale, ecc.) – entra in periodi di evoluzione, caratterizzata da certe regole (legalità) ben assestate e che non destano “sorprese”. Quello che ho sopra denominato genericamente lavorio della crisi, sempre connotato temporalmente, corrode, disgrega, disarticola, ecc. la formazione in questione, fino a precipitare nel punto di svolta, la singolarità, che si risolve nel suo disfacimento (la “morte”) o nella rivoluzione, che riconfigura la formazione rendendo manifesta la novità in essa emergente; si è allora in presenza di una nuova formazione, che percorre un altro cammino via via “normalizzandosi” in una nuova fase evolutiva retta da nuove regole generali; senza che in essa cessino mai i vari conflitti già più sopra considerati, che costituiranno le nuove modalità del rinnovato lavorio della crisi.

Quest’ultimo non è controllato e orientato da nessuno dei gruppi di individui che, in base all’idea che si fanno della struttura interrelazionale di quella data formazione, in essa combattono per la supremazia, ponendo in atto complesse strategie che implicano anche la collaborazione, la cooperazione, tra alcuni per meglio confrontarsi con altri; e il confronto è un frammischiarsi di aperto scontro, di mediazioni, aggiramenti ecc. con prevalenza ora dell’uno ora dell’altro aspetto. Nei periodi di evoluzione, si seguono nella pratica (sociale) determinate regole del confronto/scontro; quando precipita il punto di svolta della crisi, le regole (le legalità “note”) servono invece a poco o niente. Se la novità che emerge si condensa in idee (teorie, ecc.) nella mente (individuale) di gruppi di persone che si mettono insieme per realizzarla, e si trasforma così in pratica di rivoluzione, si produce allora il brusco mutamento di forma, senza più rispetto delle vecchie regole/legalità. Dopo la “distruzione”, ci si avvierà quindi verso la “creazione” del nuovo; che poi si “distenderà” gradualmente in una diversa evoluzione con altre regole/legalità. Se un tale processo (di “distruzione creatrice”) non si mette in moto, si verifica il fallimento con disfacimento, “morte” e disgregazione completa, di quella formazione.

In ogni caso, anche nel migliore dei casi, in cui alla distruzione (corrosione, ecc.) segue la rivoluzione rinnovatrice, la nuova evoluzione “legale” non sarà esattamente quella pensata e voluta dai “rivoluzionari”, dai “creatori”. L’adeguatezza della pratica rivoluzionaria non è mai completa e non dura troppo a lungo; proprio perché il punto di svolta della crisi precipita nella mente (individuale) dei gruppi, che attuano quella pratica in modo del tutto approssimativo e sempre secondo direzioni (e per interessi) che non restano a lungo convergenti. Nessuna rivoluzione raggiunge i fini posti dai “primi” rivoluzionari, quelli che agiscono nel momento della svolta. Nessuno può tuttavia esimersi dall’assumere i compiti rivoluzionari evidenziatisi nell’emergere della novità dalla singolarità, pena la cancellazione di tale novità e il probabile disfacimento e “morte” di quella data formazione.     

 

Questa concezione, che ho per il momento così succintamente e genericamente delineata, porta ad atteggiamenti pratici con determinanti connotati. Intanto, non si accetta nessuna passività di fronte ad alcun “Dio”, nemmeno sotto il nome di Tecnica; tanto meno di “Popolo”, di “Classe”, di “Masse”, di “Movimento” o altro; tutte ideologie, in ogni caso, che nascondono la volontà di determinati gruppi di affermare i loro particolari interessi. Chi predica l’impersonale oggettività di dati processi, lo fa per nascondere i fini di mantenimento del potere da parte di certi gruppi dominanti ormai totalmente inadeguati di fronte al precipitare della novità nel punto di svolta della crisi, e che quindi assumono un connotato “parassitario” nei confronti di quella data formazione (sociale complessiva o sue parti, ecc., come più volte ricordato), di cui vogliono impedire la trasformazione.

Bisogna quindi combattere chi induce alla passività, predicando l’impersonalità dei processi; e quanto più si approssima il punto di svolta, la durezza della critica deve essere accentuata. Anche perché chi predica l’impersonalità è di solito proprio quello che “sta in mezzo”; il vero nemico reazionario aperto, nella prossimità del punto di svolta (della crisi), si presenta sempre più a faccia aperta, con le sue proprie idee di risoluzione della stessa, cercando di tornare indietro, di riprendere in pugno la situazione. Nei momenti cruciali, questi è il nemico migliore; quelli che stanno in mezzo – e i predicatori del nostro essere trascinati dalla, e nella, Tecnica, o della necessità di affidarsi al Movimento di questo o di quello, ecc. ecc., sono precisamente gli ideologi di chi sta in mezzo – rappresentano il nemico peggiore, il primo a dover essere “eliminato”, disperso, schiacciato. Non si può affermare alcuna novità (non si possono introdurre le innovazioni nella fase di “distruzione creatrice”) se non si spazzano via quelli che fanno solo “confusione”.

Per questi motivi, non credo alla perdita di tempo in eleganti e raffinate polemiche con gli ideologi della Tecnica e similari. Rispettiamoli come singole persone, se hanno intelligenza; ma teniamo conto che, anche quando sono in buona fede e sinceramente innamorati delle loro idee nelle quali profondono, lo ripeto, intelligenza, essi vanno combattuti onde vincere ogni passività. Bisogna predicare invece la necessità che le strategie di nuovi gruppi sociali intervengano nei momenti cruciali in cui il lavorio della crisi manifesta l’approssimarsi del punto di svolta, della “catastrofe”, della “singolarità”, ecc. Teniamoci però accorti e ricordiamo che, a parte i progetti tecnici atti a risolvere compiti ristretti, non siamo “ingegneri” (o architetti) in grado di “costruire” ciò che abbiamo in mente. Dobbiamo solo analizzare le situazioni, cogliere le opportunità del nuovo, fare la rivoluzione secondo quanto il suddetto lavorio ha precipitato nella nostra mente sotto forma di idee su quella data formazione, sulla sua strutturazione, sulla forma dei suoi interni conflitti. Circa la successiva evoluzione, non sappiamo all’inizio quali nuove regole/legalità si andranno consolidando; lo si saprà poi, in corso d’opera, in mezzo a nuovi conflitti e nuove strategie (anche collaborative), con una diversa strutturazione dei rapporti tra nuovi gruppi nella formazione trasformata.

Cerchiamo quindi di non innamorarci troppo intellettualisticamente delle “belle idee”, pur argomentate con intelligenza. Cogliamole invece fin da subito nella loro funzione ai fini della pratica.

 

Settembre 2007