L’AFFERMAZIONE DI UNA STRATEGIA DI POTENZA: LA POLITICA AFRICANA DELLA CINA. Parte IV

fonte diploweb. com (trad. G.P.)
§3. La strutturazione dell’ambiente degli affari
Nel corso dei diversi forum sino-africani, la Cina ha gradualmente lavorato ad allargare la sua cooperazione nei settori del commercio, degli investimenti e della tecnologia. A livello commerciale, Pechino ha tessuto una rete densa di strutture di scambi centrata sull’esistenza di 49 delegazioni commerciali e di camere di commercio sino-africane. Fino ad oggi, ha stabilito sul continente undici centri di promozione degli investimenti e del commercio. Come nel Sud-est asiatico ed in Asia centrale, la Cina intende ottenere un accordo di libero scambio con il mercato comune dell’Africa orientale ed australe (Common Market for Eastern and Southern Africa o COMESA). In occasione dell’ultimo FCSA, ha espresso la sua volontà di aprire maggiormente il mercato cinese ai paesi africani e portare, da 190 a più di 440, il numero dei prodotti che beneficiano di una tariffa doganale pari a zero e provenienti dai paesi africani meno progrediti aventi relazioni diplomatiche con la Cina; di creare, nel corso dei tre prossimi anni, da tre a cinque zone di cooperazione economica e commerciale nei paesi africani. Questo passo si iscrive chiaramente in una logica commerciale concorrente con i meccanismi della stessa natura come African Growth Opportunity Act (AGOA), lanciato dagli Stati Uniti nel dicembre 2006, o gli accordi con l’Unione Europea – Africa Caraibi Pacifico (UE-ACP). Nel settore degli investimenti, la Cina si segnala sempre più con la sua volontà di partecipare ai flussi finanziari mondiali. Questa politica d’investimento in Africa è soprattutto articolata attorno all’acquisizione di giacimenti di materie prime (fra cui il legno ed i minerali metalliferi), e della ricerca di partenariati necessari all’accesso ed all’approvvigionamento di energia. Il modus operandi in materia d’investimento è spesso invariabile. Comincia con l’attivazione di una joint-venture con un’impresa locale o internazionale per acquisire diritti d’esplorazione e di sfruttamento (è il caso del Sudan) quindi si collega con l’importazione del materiale e della manodopera cinese per la realizzazione delle infrastrutture (strade e condutture) necessarie al trasporto del petrolio verso le località portuali. Questa politica d’investimento si iscrive in una strategia globale di sicurezza energetica e non si occupa affatto di redditività immediata, cosa che aumenta di molto le possibilità della Cina soppiantare le istituzioni finanziarie classiche occidentali. Per promuovere meglio gli investimenti, la Cina è presente nel settore bancario. Così nel 2000 Eximbank (una banca di importazioni-esportazioni cinese) ha stabilito la sua prima filiale a Khartoum in Sudan. In occasione dell’ultimo FCSA del novembre 2006, sono stati firmati circa sedici contratti commerciali per un importo di due milioni di dollari . Infine, la politica d’investimento realizzata da Pechino non è per niente neutrale. Mira a creare le condizioni d’espansione e d’esportazione per le ditte cinesi sul continente africano. Infatti, i prestiti concessi sono generalmente destinati alla costruzione o alla riparazione di infrastrutture. La gara d’appalto per la realizzazione dei suoi appalti è spesso favorevole alle imprese cinesi a causa della loro capacità di importare la manodopera del loro paese. In Algeria, ad esempio, la China State Construction and Engineering Corporation (CSCEC) guadagna spesso i contratti pubblici. Il nodo è strettamente allacciato, poiché Pechino ritrova indirettamente una parte della sua posta iniziale attraverso le sue imprese di costruzione e lavori pubblici (BTP),e si fanno rimborsare il suo prestito dagli stati debitori pur dando lavoro ai propri cittadini. Parallelamente, il mercato africano, meno esigente del mercato occidentale sulla qualità dei prodotti, diventa gradualmente un mercato-prova per l’industria cinese. Da alcuni anni, le imprese cinesi si segnalano nella costruzione di centrali elettriche (Sudan e Mozambico), si approcciano all’aeronautica in Zimbawe ed al nucleare civile in Sudafrica. Si aggiunge che migliaia di prodotti manifatturieri a buon prezzo inondano tutto il continente africano, diventato per le ditte cinesi un mercato ad alto potenziale(29). A tal proposito, nota François Lafargue, "anche se le imprese cinesi cristallizzano l’insoddisfazione, accusate di frodi doganali e di fare una concorrenza sleale all’economia locale ed informale, i governi africani restano benevoli, ritenendo che l’intrusione della Cina sia un mezzo per dinamizzare la concorrenza permettendo di superare i circuiti commerciali tradizionali."(30) Così, la messa in atto di strutture politiche atte "ad istituzionalizzare" il dialogo sino-africano, combinata all’offensiva economica basata sulla protezione della politica energetica cinese a lungo termine, offre alla Cina la leva per instaurare una cooperazione bilaterale o multilaterale con l’Africa in altri settori e rafforzare gradualmente la sua presenza
Sezione 3: La cooperazione bilaterale o multilaterale
Anche se la diplomazia petrolifera rimane al cuore delle preoccupazioni cinesi,  Pechino utilizza altri strumenti per assestare la sua posizione in Africa. La gamma di iniziative bilaterali e multilaterali si estende dalla cooperazione militare agli scambi socioculturali, passando per la partecipazione alle missioni dell’Onu di mantenimento della pace.
§1. La cooperazione militare sino-africana
Oggi, la cooperazione militare ha seguito gli stessi passi della cooperazione economica sotto copertura, come sempre, del sacro principio della non ingerenza. Essa concerne la fornitura di armi e la formazione di personale. La Cina ha aperto tre fabbriche di armi leggere in Sudan; fabbriche di munizioni e di armi leggere nello Zimbabwe ed in Mali. Accordi di fornitura di materiali militari con la Namibia, l’Angola, il Botswana, il Sudan, l’Eritrea, lo Zimbabwe, le Comore o la Repubblica del Congo. La Cina non ha esitato a vendere al Sudan aerei di sorveglianza F-7 ed aerei di trasporto Y-8 in piena guerra civile, per il periodo durante il quale le sue società petrolifere erano impegnate nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi di Muglad. Queste vendite sono realizzate generalmente dalla North Industry corporation (NORINCO) e dalla Polytech Industries, la più importante ditta di vendita di armi dell’esercito cinese. Il mercato africano, come nel settore delle BTP, è l’occasione di provare un materiale spesso "frugale" e poco valutato sui mercati occidentali. È in Africa che la RPC trova uno sbocco per i suoi aerei d’addestramento K8, forniti alla Namibia, al Sudan e allo Zimbabwe. La Cina fornisce elicotteri al Mali, all’Angola ed al Ghana, artiglieria leggera e veicoli blindati alla quasi totalità dei paesi della regione australe, come pure degli autocarri militari, uniformi, materiale di comunicazione. La cooperazione è particolarmente stretta con lo Zimbabwe dall’inizio degli anni 1980 e si è rafforzata nel 2004. Pechino gli fornisce carrarmati, artiglieria, blindati e autocarri, vedette rapide e batterie di difesa antiaerea. Nel settore della formazione, si assiste da alcuni anni ad un aumento significativo del numero di corsi di formazione militare in tutti i settori, nel momento in cui le porte delle accademie militari europee sono sempre più chiuse alle elite africane. La Cina si è anche impegnata a formare nei tre prossimi anni, circa 15000 africani, di cui una buona parte sono soldati. Questa politica d’armamento preoccupa le organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo come Amnesty International. In una relazione pubblicata nel giugno 2006, Amnesty appunta le forniture di armi cinesi nelle zone in conflitto come la RDC dove il 17% delle armi registrate a Bunia, nella regione dello Ituri, è d’origine cinese. La stessa relazione presenta la Cina come "uno dei paesi meno trasparenti e più irresponsabili in materia di esportazioni di armi". Infatti, da otto anni, Pechino non pubblica alcuna informazione sulle sue attività di trasferimento di armi all’estero sul registro delle armi convenzionali delle Nazioni Unite. Ritarda anche a ratificare il trattato internazionale sul commercio delle armi.
§2. Gli scambi socioculturali
Cosciente del posto della cultura nella dichiarazione e nella perpetuazione delle relazioni sino-africane, Pechino non ha voluto che questo settore fosse trascurato. Come nota Renaud Delaporte, "il riconoscimento dell’identità culturale del continente costituisce un aspetto inerente della politica cinese. "Se il G8 o l’OMC non hanno mai pensato di invitare gruppi di danze folcloristiche o di esporre circa 300 pezzi di scultura o lavori di terracotta, in occasione delle loro aride conferenze per esperti, i cinesi, invece, ne hanno immediatamente compreso la nécessità(31) "così nel 2004, sono state organizzate tre manifestazioni a carattere culturale, in questo caso un festival internazionale intitolato "appuntamento a Beijing ", una tournée sulla cultura cinese ed un festival delle gioventù cinese ed africana. Parallelamente, uno scambio interlinguistico è iniziato con la creazione della prima stazione radiofonica cinese, Cina radiofonica internazionale (GRIDO), in Kenia dal febbraio 2006. Ha margine di questo strumento di divulgazione e di scambio, si aggiunge la creazione di centri culturali confuciani, in Camerun, Zimbabwe ed Kenia. Il dialogo culturale rafforza l’opposizione della Cina alle norme tradizionali del partenariato nord-sud nel quale le culture africane sono relegate in secondo piano. Tutto ciò è sempre al servizio di una logica commerciale ben pensata poiché "invece delle copie dei marchi occidentali sulle polo, ci sono i marchi cinesi che le africane porteranno via dai mercati".(32) Questa promozione culturale si sostiene anche su una "diaspora" cinese valutata in 130.000 persone in Africa, e che raggiunge ufficiosamente i 500.000 ingressi(33). La presenza di cinesi sul continente risale a molti secoli fa. Tuttavia, il loro stabilimento massiccio in molti paesi africani è successivo all’apertura sul mondo esterno voluta dalle autorità cinesi, dall’applicazione delle misure di riforma iniziate da Deng Xiaoping. Presente in Sudafrica, Madagascar, Isole Mauritius, Kenia, Tanzania ed Africa dell’Ovest (Senegal, Mali ecc…..) la Comunità cinese cresce sempre più sul continente, portata soprattutto dall’onda commerciale. Generalmente, si tratta di cooperatori o di operai cinesi che sono rimasti in questi paesi per dedicarsi ad un’attività commerciale. Con tali iniziative, riescono in alcuni anni a segnalarsi nel piccolo commercio di prodotti manifatturieri e raccogliersi in zone che finiscono poi per controllare (sviluppo del fenomeno delle China Towns). Propagatori della cultura cinese, i cittadini della “diaspora” costituiscono soprattutto i relè economici per la distribuzione dei prodotti cinesi, cosa che li espone alle proteste degli industriali e commercianti locali. Pechino pensa a compensare il deficit della sua immagine con la promozione della cooperazione turistica. Il libro bianco sulla politica della Cina in Africa promette "di applicare effettivamente il programma dei viaggi organizzati di cittadini cinesi in paesi africani;" di aumentare, su richiesta dei paesi africani ed in funzione della fattibilità, il numero di destinazioni turistiche autorizzate per i cittadini cinesi. Secondo l’Ufficio d’amministrazione delle entrate ed uscite del ministero cinese della sicurezza pubblica, il numero di cinesi che visitano l’Africa è raddoppiato tra il 2005 ed il 2006 e si quantifica oggi in 110.000 persone. Il progetto d’instaurazione di dieci villaggi industriali integrati in Africa, dedicati alle imprese cinesi, permetterà di aumentare il numero di cooperatori e di commercianti cinesi sul continente.
§3. La presenza militare sotto mandato dell’ONU
L’Africa costituisce per la Cina un nuovo campo d’azione della sua irradiazione diplomatica grazie alla sua partecipazione alle operazioni di mantenimento della pace. Investendo tale spazio, Pechino firma allo stesso tempo la sua entrata in un settore fino a quel momento riservato alle vecchie potenze coloniali, Francia Gran Bretagna in primis. Segno della sua apertura e del posto che accorda alla coppia pace-sviluppo, la Cina ha inviato nel gennaio 2003 un primo contingente nella RDC nel quadro della missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in Congo (MONUC) destinato a garantire un sostegno medico. Nel 2005, un secondo contingente ha partecipato alla Missione delle Nazioni Unite in Liberia (MINUL), dopo il riconoscimento di Pechino di questo paese. Fino ad oggi, circa 1500 soldati cinesi sono presenti in Africa nel quadro del mantenimento della pace. Si aggiunge che Pechino ha aiutato finanziariamente l’Unione africana (UA) per lo spiegamento dei caschi bianchi nel Darfour. Questa presenza per il momento simbolica potrebbe essere naturalmente crescere man mano che gli interessi cinesi si rafforzeranno. Insomma, la politica africana della Cina ormai rientra in un ciclo irradiante attraverso una presenza multidimensionale sufficientemente visibile, al punto da sollevare interrogativi multipli fra cui il più importante riguarda il futuro delle relazioni sino-africane. L’impegno e la determinazione delle autorità cinesi a prendere piede sul continente, il dinamismo economico delle sue imprese petrolifere e commerciali, la cooperazione militare e culturale, sono altrettanti paletti i cui impatti, già percettibili, annunciano profondi sconvolgimenti nell’universo delle relazioni sino-africane.
TITOLO II: PROSPETTIVE SINO-AFRICANE
L’ampiezza dell’offensiva cinese sul continente africano non lascia indifferenti tanto le sfide che suscita sono molteplici. Infatti, il ritorno marcato della Cina interviene in un contesto geopolitico mondiale caratterizzato dalla ridefinizione di un nuovo ordine politico ed economico nel quale l’Africa ha penato a trovare riferimenti. Questa situazione si verifica anche in un momento critico dove il continente, benché attraversato da conflitti multipli, sta tentando d’innescare un movimento di democratizzazione sotto l’occhio vigile delle vecchie potenze coloniali, ma anche sotto la spinta significativa delle sue popolazioni, le cui aspirazioni per un po’più di cittadinanza non cessano di farsi valere. Sul piano economico, la presa di coscienza di uno sviluppo collettivo è sempre più forte e mobilita i governi africani attraverso la promozione del NEPAD. In questo contesto, la strategia di potenza spiegata da Pechino non può mancare di generare confusioni profonde su un triplice piano: politico, economico e di sicurezza. Quali sono gli impatti politici della diplomazia cinese sul futuro della democrazia in Africa? Essa è sinonimo di opportunità economiche o di pericoli per lo sviluppo del continente? Quali sono i rischi sottostanti alla presenza cinese in Africa nel settore della pace e della sicurezza collettiva? Altrettante questioni che segnano le nuove relazioni sino-africane e che esigono risposte urgenti, e almeno un approccio prospettico per descrivere le grandi tendenze.
CAPITOLO I: GLI IMPATTI POLITICO-ECONOMICI DELLA POLITICA CINESE
La caduta DEL MURO di Berlino nel novembre 1989, non ha soltanto segnato la fine dei totalitarismi nell’Europa dell’Est. Ha sparso anche i venti della democrazia attraverso i continenti chiamando ad una più grande partecipazione dei popoli alle scelte che li riguardano. In Africa, gli anni 90 inaugurano l’era delle conferenze nazionali e della democratizzazione della vita politica. Nel corso della conferenza di La Baule del 1990, il Presidente Mitterrand suonò le campane a morte del monopartismo. A partire da questa data, si è assistito alla messa in atto progressiva di aiuti, funzionali agli sforzi di democratizzazione dei regimi africani. Quest’approccio è stato più o meno mantenuto dal suo successore Jacques Chirac secondo il quale, "essere portatori d’aiuti oggi, significa appartenere alla grande famiglia delle nazioni industrializzate e democratiche." Una famiglia che ha la sua cultura, le sue solidarietà ed i suoi riflessi, in particolare la buona gestione, la trasparenza, il dialogo, il rigore, l’efficacia. È per questo che i portatori di aiuti tendono ad allontanarsi dai paesi aiutati che non rispettano questi stessi criteri che, d’altra parte, si impongono a loro stessi(34)". Questa tendenza è così chiaramente percettibile nei paesi anglofoni in cui la Gran Bretagna non esclude più di utilizzare sanzioni economiche per condannare le derive autoritarie dei membri del Commonwealth. Fu il caso della Nigeria, sotto il regime, del dittatore Sani Abacha o del Presidente Robert Mugabé dello Zimbabwe. È anche diventata una quasi-norma della politica d’assistenza africana dell’Unione europea, e degli Stati Uniti. Nello stesso tempo, sono adottate, dalla creazione dell’ UA nel 2002, misure politiche ferme tendenti a promuovere la stabilità dei paesi africani, fra queste, il rifiuto di riconoscere i governi conseguenti a putsch militari. Grosso modo, il ritorno della Cina si verifica nel momento in cui la ricerca di un ambiente politico stabile, sulla base di norme di devoluzione del potere trasparenti, è un’opzione più concreta. Nello stesso tempo, l’apertura cinese è volta a modificare profondamente le prospettive di sviluppo economico del continente.
29 Vedere allegato VI p 64. 
30 F. Lafargue. « La Chine et l’Afrique : un mariage de raison », Diplomatie, sept-oct 2005
31  Renaud  Delaporte,  « la Chine a lancé une OPA amicale sur l’Afrique », Agora Vox novembre 2006
32 Ibid.
33 Vedere allegato VII p 65.
34 Jacques Chirac, Discorso pronunciato alla XIX Conferenza dei capi di Stato della Francia e dell’Africa, Ouagadougou, Paris, Productions 108, 5 décembre 1996, pp.10-11.