IL MERCATO D'AZZARDO di M. Tozzato

Non hai veramente capito qualcosa,

finché non riesci a spiegarlo a tua nonna

Albert Einstein

 

1175958320_g_0Non essendo in possesso di competenze specifiche, tentare di articolare riflessioni sensate su argomenti come la dinamica dei sistemi finanziari e la cornice istituzionale e giuridica del  sistema economico può essere giustificato solo da urgenti esigenze di tipo politico in senso lato. Mi pare che La Grassa e Petrosillo abbiano ripetutamente messo il dito sulla piaga: questa “urgenza” esiste e quindi anche i miei tentativi, che riescano o  meno, li ritengo come degli esperimenti da provare. Sul Sole 24ore del 13.01.2008, Guido Alpa ha ampiamente recensito l’ultimo libro di Guido Rossi intitolato Il mercato d’azzardo . Il libro di Rossi a quanto pare, principalmente, si rivolge <<al mercato finanziario e alla disciplina del diritto societario>> e parte dall’assunto di fondo che il “disordine” in cui versa il diritto societario come anche la crisi della corporate governance (1) e della globalizzazione finanziaria possa trovare solo nello strumento giuridico la leva per la risoluzione dei problemi a loro inerenti. Scrive Alpa:<<Il potere politico della società per azioni, i principi/pregiudizi societari, la dissociazione tra proprietà e controllo che diventa dissociazione tra fittizia proprietà dei risparmiatori ed effettiva proprietà degli investitori istituzionali, la costituzionalizzazione dei gruppi di comando sotto forma di minoranze azionarie dispotiche, il nuovo volto del capitalismo finanziario governato da regole compiacenti il gruppo di comando, sono i settori in cui si svolge l’indagine>>. L’autore dell’articolo poi scomoda Fernand Braudel per ricordare che i successi del “capitalismo” sono stati sempre accompagnati dai “fallimenti del mercato”. Anche in questo caso, quindi, sebbene non si parli del cosiddetto Stato sociale e assistenziale, si ritiene necessario “introdurre correttivi” perché il modello capitalistico   sia in grado di tutelare gli interessi di risparmiatori, soci, dipendenti, creditori e consumatori:<< La storia della società per azioni è la storia dell’incessante rincorsa tra legislatore e corporation per disciplinare i conflitti d’interesse che muovono e distorcono il capitalismo>>. I capisaldi del modello tradizionale della società per azioni ovvero la responsabilità limitata, lo scopo di lucro e la libera trasferibilità delle azioni non hanno garantito a sufficienza <<la tutela degli interessi degli investitori>> come è stato ampiamente dimostrato dalla storia scorrendo la successione degli avvenimenti a partire <<dalle Compagnie delle Indie>> per passare << agli scandali finanziari di John Law, fino alla crisi del 1929>>. La causa di ciò consisterebbe nella convinzione <<che il libero mercato debba affidarsi a regole minime>> rispondendo ai problemi  <<con  la costruzione giuridica della concorrenza tra ordinamenti, con l’autonomia degli statuti , con la validazione dei patti parasociali (2), con l’esaltazione della libertà contrattuale, insomma con la “privatizzazione” dei modelli giuridici e quindi con il sacrificio di forme di controllo e quindi dell’interesse pubblico.>> Il recensore (e quindi l’autore del saggio presumo) a questo punto afferma con forza la tesi che oggi <<non vi è più la dissociazione della proprietà dal controllo, come predicavano (inascoltati) Berle e Means negli anni Trenta, ma la “dissociazione della proprietà dalla proprietà”. Le sofisticate costruzioni dei fondi di private equity (3) fanno sì che non vi siano più solo due livelli nell’universo societario – il livello dei soci-investitori e il livello degli amministratori – ma tre livelli, costituiti dai sottoscrittori, dagli amministratori e da un ristretto numero di soci, questi ultimi sì effettivi proprietari, sottratti ai controlli più sicuri e severi perché partecipi di holding non quotate in Borsa.>> Prendendo spunto oltre che dalle innumerevoli pagine di La Grassa sul tema anche dall’articolo apparso di recente sul nostro sito www.ripensaremarx.it : La “Rivoluzione manageriale” di James Burnham (di G. Duchini) mi pare che si possa ribadire che la fase del capitalismo occidentale a cui fa riferimento Burnham nel suo libro del 1941 si ponga ancora dal lato di un management che oltre che occuparsi della gestione tecnico-amministrativa dell’impresa deve comunque rispondere  alla “proprietà” e non solo alla “proprietà familiare” in senso stretto perché anche il << consolidamento giuridico delle nuove forme di società di “azionariato diffuso” delle “Public Company”>> pur manifestandosi come la negazione dell’apparenza di <<una sorta di democrazia economica di massa nell’espressione dell’azionista- risparmiatore senza alcun potere societario e da tosare, da parte dei gruppi degli azionisti-manageriali, in ragione delle strategie finanziarie societarie>> non garantiva del tutto la “libertà” per i gruppi strategici dominanti di manovrare la massa del capitale finanziario nella maniera più spregiudicata ed efficace. La  funzione comunque decisiva della proprietà come “scudo protettivo” stimolava il tentativo del management strategico di tentare scalate al controllo azionario attraverso il leveraged buy-out(4) , ma anche questo tipo di manovra con il mutamento sia giuridico che organizzativo delle forme di governance dei grandi gruppi bancari e industriali rischia di rivelarsi superata. Ancora Alpa ci dice infatti:<<Lo scopo della S.p.A. non è più quello di creare valore per gli azionisti, ma profitti per coloro che detengono le quote della holding [Le private equity. N.d.r.] >>. Cosicchè <<la concezione della S.p.A. come nesso di contratti>> si manifesta in una situazione in cui <<il controllo è affidato alla minoranza (proprietaria), la creazione di differenti categorie di azioni priva del voto gli ignari risparmiatori, le piramidi societarie allontanano la titolarità dalla responsabilità, i flussi finanziari transitano verso le società periferiche. La prassi “autocratica” è legalizzata […]; il sistema legittima un’irresponsabilità collettiva.>>
La conclusione dei “due Guido” ci sembrerebbe alla fine abbastanza ingenua, se non sapessimo che certe tesi sono proprio avanzate per “portare acqua”  a determinate strategie e politiche:<< Nella “globalizzazione che funziona”, come suggerisce Stiglitz, il contratto, la lex mercatoria  non possono sostituirsi all’intervento legislativo multilivello: contratto e lex mercatoria  sono strumenti deboli, asserviti agli interessi privati; le società multinazionali sono organismi fragili e non possono sostituirsi agli Stati; solo il diritto può dare una risposta utile, efficiente e concretamente positiva, attraverso la redazione di principi universali di trasparenza dei mercati.>> Allora ci vorrebbe un “Solone” onesto, integerrimo e per di più indipendente dai grandi gruppi finanziari e dalle grandi potenze geopolitiche (USA in testa) che legiferasse secondo i criteri del “Vero e Giusto Diritto” in questo caso civile, societario, finanziario e “pubblico dell’economia”: mi pare che la cosa sia un “pochino” utopistica ! In modo altrettanto mistificante è posta la questione se sia possibile ritenere  vero che le multinazionali abbiano bisogno degli Stati: ne hanno certamente un grande “bisogno”, ma non  della loro “produzione giuridica”  bensì della loro “potenza” e della loro “capacità di agire” strategica nello spazio geopolitico mondiale.  

 

(1)   << All’interno di un’azienda (corporation) si definisce Corporate Governance l’insieme di regole, di ogni livello, (leggi, regolamenti etc..) che disciplinano la gestione dell’azienda stessa. La corporate governance include anche le relazioni tra i vari attori coinvolti (gli stakeholders, chi detiene un qualunque interesse nella società) e gli obiettivi per cui l’azienda è amministrata. Gli attori principali sono gli azionisti (shareholders), il management e il consiglio di amministrazione (board of directors)>>.

(2)   <<Patti aventi per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano>>.

(3)   <<Il private equity è uno strumento di finanziamento mediante il quale un investitore apporta nuovi capitali all’interno di una società (target), generalmente non quotata in borsa, che presenta un’elevata capacità di generare flussi di cassa costanti e altamente prevedibili. L’investitore si propone di disinvestire nel medio-lungo termine realizzando una plusvalenza dalla vendita della partecipazione azionaria. Gli investimenti in Private Equity raggruppano un ampio spettro di operazioni, in funzione sia della fase nel ciclo di vita aziendale che l’azienda target attraversa durante l’operazione di private equity, sia della tecnica di investimento usata.>>

(4)   <<Operazione di acquisizione di una società, effettuata ricorrendo soprattutto al capitale di prestito e che quindi punta allo sfruttamento della leva finanziaria. Generalmente si costituisce una società […] con ridotto capitale di rischio e ampio indebitamento […] e si acquista l’azienda che interessa; successivamente si ha la fusione tra le due società con il trasferimento dell’indebitamento sulla società acquisita. Il flusso di redditi che si presume consistente e che in futuro sarà generato dalla gestione aziendale consentirà il rimborso dei debiti assunti.>>

Mauro Tozzato                              16.01.2008