KANT A HOLLIWOOD a cura di G. La Grassa

Chiederei di inserire o nel blog o nel sito questo articolo di Enrico Bellone tratto dal numero di marzo de "Le Scienze". Ho una serie di perplessità in merito, ma ritengo ormai utile "torcere il bastone nell’altro senso" di fronte a quello che non è da definirsi "irrazionalismo" (termine implicante comunque "alto lignaggio" intellettuale), ma semplice demenza e stupidità. Nel ’68 ci fu una vera sbornia di "antiscientismo"; tuttavia, in fondo, fu una "sana ubriacatura" che, in qualche caso, permise una migliore (o meno peggiore) "lettura delle cose". Oggi, gli epigoni degenerati di quelle tendenze sono divenuti un vero "cancro" per ogni forma di conoscenza e di valutazione (critica ma fattiva) del presente. Non si venga a dire incoscientemente: "non sono i veri nemici". E’ una valutazione superficiale; forse che solo l’aperto scientista o, ancor meglio, l’autentico neoliberista sono i peggiori nemici? Sono, semmai, i più scoperti e quindi, forse, i meno pericolosi. Inoltre, non hanno molto influsso sui ceti più subordinati e di minor preparazione culturale. Assai pericolosi sono proprio quelli che predicano tutto ciò che è più facilmente compreso da persone meno preparate (che non sono solo quelle a minor livello di reddito, sia chiaro!).
Un secolo e mezzo fa Eugen Duhring non era certo un "nemico principale" rispetto ai capitalisti prussiani & C. Eppure Engels gli dedicò un volumone di critica aspra e serrata, che poi divenne anche un "testo sacro" delle scuole di partito. Il populismo russo non era certo il nemico principale rispetto allo zarismo e ai suoi più diretti rappresentanti politici. Eppure Lenin ci "spese" alcuni dei suoi testi principali e più impegnativi, fra cui "Che cosa sono gli amici del popolo" e "Contro il romanticismo economico" (che era quello di Sismondi, definito socialista reazionario da Marx fin dal "Manifesto" del 1848).
Certo, i bisbisnipoti di quegli autori nefasti non hanno la loro stessa importanza né esercitano grande influsso se non su bande di "giovinotti" senza cultura e piuttosto "disadattati" (anche se spesso di "buona famiglia"). Tuttavia, non vi è dubbio che l’Italia è già un paese arretrato, assai incolto scientificamente, dove le ideologie antimoderniste possono comunque esercitare influssi del tutto reazionari che ledono soprattutto gli interessi dei dominati, intralciando la loro lotta e ribadendo il loro essere egemonizzati dai dominanti. Quindi, pur non essendo in tutto d’accordo con l’articolo di Bellone, esprimo parere favorevole ad una sua pubblicazione nel blog. Come segnale "Contro" rispetto ai retrogradi, che vogliono diffondere culture atte a ribadire l’attuale rapporto dominanti/dominati. 
 
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SULLO SVILUPPO SOSTENIBILE di M. Tozzato
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Nel tentativo di sintetizzare, nei limiti delle mie capacità, alcune delle elaborazioni che fanno riferimento alla teoria dello sviluppo sostenibile prenderò spunto inizialmente dagli scritti di Enzo Tiezzi, professore ordinario presso il   Dipartimento di  Scienze e Tecnologie Chimiche e dei Biosistemi dell’Università di Siena. In un saggio risalente, credo, al 2004 Tiezzi scrive:<<Le nuove teorie dello sviluppo sostenibile e dell’ “ecological economics” ci pongono davanti un nuovo paradigma: non più un’ economia basata su due parametri, il lavoro e il capitale, ma un’economia ecologica che riconosce l’esistenza di tre parametri, il lavoro, il “capitale naturale” e il “capitale prodotto dall’uomo”. Intendendo per capitale naturale l’insieme dei sistemi naturali (mari, fiumi, laghi, foreste, flora, fauna, territorio), ma anche i prodotti agricoli, i prodotti della pesca, della caccia e della raccolta e il patrimonio artistico-culturale presente nel territorio, si vede come sia fondamentale oggi investire in questa direzione. Daly (1) scrive: <<per la gestione delle risorse ci sono due ovvi principi di sviluppo sostenibile. Il primo è che la velocità del prelievo dovrebbe essere pari alla velocità di rigenerazione (rendimento sostenibile). Il secondo, che la velocità di produzione dei rifiuti dovrebbe essere uguale alle capacità naturali di assorbimento degli ecosistemi in cui i rifiuti vengono emessi. Le capacità di rigenerazione e di assorbimento debbono essere trattate come capitale naturale, e il fallimento nel mantenere queste capacità deve essere considerato come consumo del capitale e perciò non sostenibile.>> Ci pare utile ricordare, a questo punto, ciò che Marx scrive nella Critica al programma di Gotha :<<Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva !) altrettanto quanto il lavoro, che , a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. […] I borghesi hanno buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perché proprio dal fatto che il lavoro ha nella natura la sua condizione deriva che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro.>> Prima di tutto dobbiamo quindi tenere presente, se vogliamo parlare di “capitale naturale” e  di condizioni materiali della produzione, lo specifico modo storico di appropriazione di queste condizioni e di questo “capitale”  e , quindi, il tipo di rapporti sociali e di gruppi dominanti che  determinano la maniera in cui l’impiego delle  risorse energetiche e naturali e lo smaltimento delle “scorie” della produzione vengono concretamente a realizzarsi. I problemi ambientali – come l’alterazione dei cicli bio-geochimici della biosfera, i mutamenti climatici, i vincoli di assorbimento dei rifiuti e degli inquinanti, l’impoverimento dei suoli, la perdita di biodiversità,  il riscaldamento globale, ecc. –   sono uno dei risultati di quel conflitto strategico per la supremazia che si gioca a livello geopolitico e economico a tutti i livelli: locale, nazionale e mondiale. Così come le iniziative militari, le aggressioni imperialistiche e le “guerre”, apparentemente meno cruente,  tra le grandi corporation finanziarie dei paesi “pre” e “sub” dominanti e delle potenze emergenti generano povertà, morti violente, collassi nella produzione e nel tenore di vita , alla stessa maniera anche la crisi ecologica è attualmente, in primis,  il risultato della lotta degli USA per mantenere il proprio primato contro le potenze che iniziano a contrastarla su scala globale quali ad esempio Cina, Russia ed India. Questo conflitto implica anche che le potenze emergenti, in questa fase, ritengono necessario – anche se almeno in Cina il problema comincia ad essere preso in considerazione – continuare in una politica, sostenuta fortemente dallo Stato, che per accelerare i tempi della crescita e dell’accumulazione sacrifica e trascura, tra le altre cose, una  tutela, sia pur minimale, dell’ambiente naturale e sociale e un piano di conservazione degli equilibri ecologici, delle risorse energetiche e per la salvaguardia dei suoli.  Ma ritorniamo ora allo scritto   del prof. Tiezzi, sopra citato:<<Herman Daly abbandona così le certezze dell’economia classica e il determinismo della “mano invisibile del mercato” affrontando il tema della complessità ecologica in questi termini:<<ci sono due modi di mantenere il capitale totale intatto. La somma dal capitale naturale e di quello prodotto dall’uomo può essere tenuta ad un valore costante; oppure ciascuna componente può essere tenuta singolarmente costante. La prima strada è ragionevole qualora si pensi che i due tipi di capitale siano sostituibili l’uno all’altro. In quest’ottica è completamente accettabile il saccheggio del capitale naturale fintantoché viene prodotto dall’uomo un capitale di valore equivalente. Il secondo punto di vista è ragionevole qualora si pensi che il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo siano complementari. Ambedue le parti devono quindi essere mantenute intatte (separatamente o congiuntamente ma con proporzioni fissate) perché la produttività dell’una dipende dalla disponibilità dell’altra. La prima strada è detta della “sostenibilità debole” , la seconda è quella della “sostenibilità forte”.>> A questo punto bisogna proprio dire che alcuni aspetti del ragionamento risultano poco chiari. Prima di tutto vediamo che viene usato il termine valore ma in un modo in cui non si riesce a comprendere se ci si riferisce al valore d’uso o ai valori di scambio espressi  in termini monetari, cioè ai prezzi. In un
caso come nell’altro sembra che si voglia tener conto soltanto del rapporto quantitativo in cui possono combinarsi il “capitale naturale” e il “capitale prodotto dall’uomo”. L’ipotesi di praticare uno “sviluppo sostenibile debole”, in questi termini, risulta del tutto incomprensibile perché esso appare plausibile solo quando si tenga conto della forma qualitativamente equivalente   dei valori d’uso che dovrebbero sostituire la parte di capitale naturale iniziale ormai definitivamente “consumata” e non più recuperabile. Si rientra così nella tematica delle innovazioni di prodotto ecologicamente compatibili e anche se per alcune di esse, ad esempio nel caso degli OGM (Organismi Geneticamente Modificati), il dibattito è tuttora aperto, ci pare che i risultati della ricerca scientifica più recente  stiano creando le condizioni, in svariati campi di applicazione, per nuove soluzioni “ambientalmente” e “eco-socialmente” valide.

. Le stesse fonti energetiche alternative – rispetto alle quali sono state, su questo blog, avanzate giuste osservazioni riguardo la loro “economicità” – appartengono a questo tipo di innovazioni tecnologiche e sarà solo continuando nella ricerca scientifica e tecnica che potranno diventare eventualmente una soluzione valida per il prossimo futuro. Daly continua il suo ragionamento con l’affermazione che il <<capitale naturale e quello prodotto dall’uomo sono fondamentalmente complementari e, solo in misura marginale, si possono considerare intercambiabili. Quindi è la sostenibilità forte il concetto rilevante […]Il capitale naturale e il capitale prodotto sono complementari;e il capitale naturale è divenuto il fattore limitante. Più capitale prodotto, lungi dal sostituire il capitale naturale, fa aumentare la domanda di quest’ultimo in maniera complementare, facendolo diminuire per supportare temporaneamente il valore del capitale prodotto e rendendolo, in tal modo, ancora più limitante per il futuro>>. Prima di riprendere la parola Tiezzi cita ancora Daly:<<Siamo passati da un mondo relativamente ricco di capitale naturale e privo di capitale prodotto (e di uomini), ad un mondo che è, al contrario, povero di capitale naturale e ricco di capitale prodotto>>. Lo scienziato italiano poi riprende il discorso con l’affermazione che in questa<<fase l’unica strada di sostenibilità passa dall’investire nella risorsa più scarsa, nel fattore limitante>> e perciò <<se accettiamo il fatto che il capitale naturale e quello prodotto dall’uomo sono complementari e non possono sostituirsi l’uno all’altro, cosa ne consegue ? Ne consegue che se i fattori sono complementari quello in minore quantità sarà il fattore limitante.>> La proposta di Tiezzi è, allora, una politica di “sviluppo sostenibile” espressa in questi termini:<<Sviluppo sostenibile significa quindi investire nel capitale naturale e nella ricerca scientifica sui cicli biogeochimici globali che sono la base stessa della sostenibilità della biosfera.>> Si tratta, secondo Tiezzi, di investire sia nella ricerca scientifica, il che non può non risultare quasi ovvio, sia nelle attività che possono incrementare il “capitale naturale” anche se non si capisce bene in quali termini questa nuova capitalizzazione delle risorse e delle condizioni naturali possa prescindere da massicci interventi di tipo scientifico-tecnico. La produzione di oggetti naturali che non siano soltanto prodotti naturali utili, cioè valori d’uso, implica il ripristino pianificato e coordinato di ambienti ed ecosistemi mentre la parola “capitale” ha per noi il significato di mezzi di lavoro e oggetti di lavoro, complessivamente definibili mezzi di produzione,  soggetti ad appropriazione privata da parte di specifici “agenti” nella società che si trovano ad interagire all’interno di un determinato reticolo di rapporti sociali. La scelta di dirottare risorse per investimenti che possono non assumere immediatamente la forma di merce con un valore da realizzare nel mercato, implicherebbe, per gli stati e le grandi multinazionali, la disponibilità a distogliere beni e denaro che potrebbero essere impiegati nel conflitto per la supremazia per conseguire un  incremento di potenza economica, politica e culturale. Nel momento attuale alcuni tipi di investimenti per il disinquinamento e lo smaltimento di scorie e rifiuti sono entrati a far parte dell’area del business finanziario-imprenditoriale, ma nella  fase presente non pare, ancora, che questi tipi di  investimenti possano svolgere  un ruolo trainante.   Ad ogni modo Tiezzi non trascura di considerare uno dei problemi cruciali dal punto di vista economico-ambientale: quello delle risorse non rinnovabili. Egli infatti scrive:<<Rimane la categoria delle risorse non rinnovabili che, strettamente parlando, non possono essere mantenute intatte a meno di non rinunciare al loro uso. (Ma se tali risorse non possono essere mai usate, allora non c’è alcun bisogno di conservarle per il futuro!). E’ tuttavia possibile sfruttare le risorse non rinnovabili in maniera “quasi sostenibile”, graduandone la velocità di sfruttamento in base a un corretto confronto con la velocità di creazione di sostituti rinnovabili.>> Diventa perciò necessario <<che ogni investimento nello sfruttamento di una risorsa non rinnovabile sia bilanciato da un investimento compensativo in un sostituto rinnovabile (per esempio, che l’estrazione del petrolio venga bilanciata dalla coltura di alberi che consentano di produrre alcol da legna).>> Il problema delle scelte energetiche è , anche nel nostro paese, in questo momento all’ordine del giorno e alimenta dibattiti in ambito politico, economico e scientifico ma, probabilmente, non si può negare, almeno in linea di principio, la correttezza del ragionamento dello scienziato toscano su questo punto. Nel nostro prossimo intervento cercheremo di completare la panoramica riguardante il quadro generale dell’economia ecologica odierna per poi passare alle obiezioni di Latouche nei confronti delle posizione che potremmo definire ortodosse riguardo alla teoria dello sviluppo sostenibile.  

 

(1)   Herman Daly (1938) è uno studioso di  economia  ecologica americano, professore presso la School of Public Policy of University of Maryland, College Park negli Stati Uniti.

 

 

Mauro Tozzato                        09.03.2008