di M. Tozzato
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Relativamente alla contestazione organizzata per impedire la conferenza di Torino, Gianni Petrosillo ha già manifestato la sua solidarietà a Preve e De Benoist anche a nome della redazione e dei collaboratori del nostro blog; voglio comunque ancora ribadire sia la mia totale identità di vedute con quanto è contenuto nel breve intervento di Gianni sia l’ indignazione che provo nei confronti di questi indecenti “squadristi che si dipingono di rosso” del tutto incapaci di pensare . Ma adesso passiamo ad altro. Le riflessioni di La Grassa (e G. Petrosillo) che vengono presentate su questo blog e nei libri che GLG pubblica con cadenza regolare vengono fatte oggetto di interpretazioni contrastanti che producono spesso equivoci anche riguardo a questioni su cui si è già molto insistito e che sono state ribadite più volte. Il punto cruciale attorno a cui si concentrano i malintesi è quello del ruolo e delle prospettive politiche che i gruppi dominati possono sperare di interpretare e sviluppare alla luce del modello (ipotetico) teorico di G. La Grassa. Ad esempio, quando l’analisi si concentra sul sistema-paese italiano molti interlocutori si chiedono se l’auspicio di un ruolo dirigente di nuove classi imprenditoriali – che abbiano come obiettivo l’autonomia dalla superpotenza U.S.A. e lo sviluppo della capacità competitiva del sistema economico-produttivo e finanziario nazionale – con relativo incremento degli investimenti nei settori più avanzati, per livello tecnologico e “novità” di prodotto, possa risultare una prospettiva “accettabile” per gli strati sociali subordinati. Ci si domanda, cioè, se gli obiettivi sopra citati siano compatibili con la difesa e il miglioramento delle condizioni in cui i lavoratori svolgono la loro attività, con la ricerca del mantenimento e/o miglioramento di un tenore di vita che, ancora adesso, per alcune fasce del lavoro dipendente ed autonomo – soprattutto quello “super-precarizzato” – risulta piuttosto basso e in tendenziale declino e in generale se queste finalità non siano in contrasto con la prospettiva a medio-lungo termine di una trasformazione sociale in direzione di un ordine sociale più equo e più giusto. Si ammette, per la verità, che più volte La Grassa e G.P. hanno posto il problema di come possa costituirsi una alleanza tra il “piccolo” lavoro autonomo e il lavoro dipendente a medio-basso reddito ma, per lo più, questo tipo di indicazione viene ritenuta insufficiente. Ed effettivamente la proposta, in certo qual modo provocatoria, di una “ideale” Terza Forza – che adombra, forse per contrasto, la distinzione più volte ricordata da GLG tra Sinistra, Destra (i due specchi che rimandano l’uno l’immagine dell’altro) e Comunismo – sembra presentarsi, in una maniera apparentemente irrelata, come la necessaria evoluzione di una strategia di cambiamento che assume come realisticamente praticabile e prevedibile per un periodo molto lungo solo la prospettiva di una trasformazione (rivoluzione) dentro il capitale. La dialettica empiristica e interazionistica di La Grassa, decisamente antihegeliana, ma piuttosto vicina a quella marxiana (dall’Ideologia Tedesca in poi) e leniniana ( vedi la lettura di Hegel operata da Lenin nei Quaderni filosofici ) pone la questione della modificazione della formazione sociale capitalistica attribuendo il primato sistemico nel processo di cambiamento al conflitto strategico tra i gruppi dominanti. Da ciò consegue che le eventuali condizioni, che possono rendere possibile l’intervento attivo dei dominati nel processo di trasformazione sociale, hanno come presupposto l’apertura di una fase conflittuale di lotta per la supremazia in condizioni di relativo equilibrio di potenza tra le varie classi dei “decisori”, sia a livello globale (policentrismo) che a livello nazionale. L’emergere di gruppi capitalistici con prospettive strategicamente opposte a quelle della GFeID in Italia potrebbe, quindi, anche non risultare immediatamente favorevole al miglioramento delle condizioni di vita delle classi subordinate; bisogna considerare, però, che l’unica opzione alternativa realisticamente ipotizzabile e probabile è quella della degenerazione economica, politica e culturale del nostro sistema-paese con conseguenze sicuramente pessime per la gran massa dei lavoratori, sia “dipendenti” che “autonomi”. Comunque, nessuno di noi ha mai considerato una questione di importanza secondaria e/o trascurabile il problema di quali forme di difesa del tenore di vita e di resistenza all’oppressione possano essere utilizzate dai gruppi dominati nei paesi più avanzati e dalle masse oppresse nelle aree più povere e meno sviluppate del pianeta. E’ quindi sicuramente importante che emergano, ad esempio, forme di sindacalismo in totale contrapposizione e completa autonomia rispetto alle organizzazioni che detengono, da lungo tempo, il monopolio della rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Questi organismi sono, in realtà, delle entità giuridiche definibili senz’altro come veri e propri apparati di Stato. Appare evidente, infatti, che questi sindacati di stato, attualmente, svolgono la funzione di autentiche “cinghie di trasmissione” per gli interessi confindustriali e della grande finanza. Sarebbe auspicabile anche – sempre nella direzione di un recupero da parte dei dominati di una vera autonomia nel modo di organizzarsi e nella capacità di elaborare elementi di una cultura autenticamente antisistemica – riprendere in maniera nuova le parole d’ordine del &ldq
uo;mutuo soccorso” (o “mutuo appoggio” per usare le parole del grande anarchico e comunista P. Koprotkin) al di là della retorica relativa a quel settore dell’economia – definito significativamente “terzo” – che viene etichettato come la sfera dell’impresa e della cooperazione sociale e del volontariato, per rivelarsi, nella realtà, una pura appendice dello Stato sociale, soprattutto perché i guadagni ottenuti sono fondamentalmente legati agli ampi privilegi fiscali e ad una normativa contrattuale specificatamente “favorevole” nei loro rapporti con gli enti pubblici. Ovviamente non si può dimenticare il necessario riferimento all’antimperialismo, che si presenta nella forma immediatamente pratica e militante nei paesi aggrediti dalla “superpotenza” e dai suoi servi e nelle altre aree critiche di tensione geopolitica, mentre nelle “regioni” completamente asservite al dominio imperiale, come l’Unione europea, è necessario partire da parziali azioni di disturbo che muovano dalla rivendicazione dell’ “indipendenza nazionale” per stabilire, poi, un collegamento con iniziative politico-culturali che permettano di comprendere in maniera unitaria le problematiche di ogni singolo sistema- paese nel contesto più generale del quadro geopolitico globale. In un opuscolo pubblicato presso una piccola casa editrice nel dicembre 2004, e intitolato GLI AGENTI STRATEGICI DELLA TRASFORMAZIONE – dentro e contro il capitale, G. La Grassa definiva così il suo nuovo (rispetto al marxismo) concetto di rivoluzione :<<Penso[…] ad un rapido, tumultuoso, periodo di cambiamento delle strutture sociali esistenti da tempo; sia che ciò riguardi la produzione e la tecnica, o invece gli apparati del potere politico o quelli dell’egemonia culturale. Mi sembra comunque più proprio parlare di rivoluzione quando questa sfocia nel cambiamento soprattutto politico e, in subordine, culturale.>> E riguardo a fenomeni di cambiamento violento e radicale come il nazismo e il fascismo e forse, aggiungo io, anche a passaggi e cambiamenti implosivi-esplosivi come la svolta denghiana in Cina e il crollo dell’Urss e del sistema del Patto di Varsavia nell’Europa dell’est, La Grassa aggiunge:<< Il problema è semmai poi specificare, qualificare, di che rivoluzione si tratta, non di negare la novità radicale, e il suo veloce e perfino inatteso realizzarsi, di certi fenomeni storici che non implicano il superamento della società capitalistica, ma certamente una sua ri-strutturazione secondo modalità spesso violente e con mutamenti innovativi degli assetti politici e ideologici, verificatisi in tempi brevi, mutamenti che mettono capo a “sovrastrutture” solo apparentemente meno adeguate alla “base” rappresentata dal modo di produzione capitalistico.>> Rispetto allo schema marxista classico che interpreta, in ogni caso, la rivoluzione come l’azione delle classi dominate, articolate in uno o più “soggetti”, finalizzata <<alla trasformazione del capitalismo in altra formazione sociale (che è poi sempre pensata essere quella socialista e comunista)>> qualsiasi <<altro mutamento viene trattato come una sorta di controrivoluzione, di sbarramento reazionario al cambiamento, di difesa ad oltranza dell’ordine costituito. In questo modo – con una simile incomprensione della possibilità di rivoluzionamenti interni ad una transizione intercapitalistica – viene favorita l’azione di agenti strategici (politici e culturali in specie) del cambiamento (rapido e tumultuoso) delle istituzioni esistenti, agenti che appaiono perciò rivoluzionari anche agli occhi di settori importanti dei dominati e perfino di molti onesti e sinceri militanti della lotta per la trasformazione anticapitalistica.>>L’ultima parte di questa citazione non corrisponde quasi più, io credo, a posizioni riscontrabili nelle ultime elaborazioni di La Grassa; nel momento attuale – una congiuntura in cui eventuali agenti strategici contro il capitale possono (potrebbero) proporre ai dominati solo una politica di resistenza e di difesa delle condizioni di vita e di lavoro– sembra proprio risultare necessario “prendere posizione” (non direttamente, è ovvio, ma all’interno del dibattito teorico-politico che ci concerne) a favore di quei gruppi capitalistici dominanti che possano essere in grado di aprire una prospettiva di sviluppo all’interno del nostro sistema-paese e favorire, a livello mondiale, l’affermarsi di una fase policentrica.
Mauro Tozzato 16.03.2008