UNA “INSOSTENIBILE” TEORIA DELLO SVILUPPO CONTENIBILE

di M. Tozzato

 

[Nota di G.P.]

Pubblichiamo l’articolo di Mauro Tozzato al quale fa riferimento La Grassa nel pezzo che trovate appena sotto questo. Vorrei però dire prima due parole. Il nome “Ripensaremarx” al blog l’ho dato io perché volevo si capisse da dove provenivamo e quali erano state le “esperienze” teoriche che ci avevano guidato fino a quel momento. Il merito di La Grassa (che entra di diritto tra i più grandi studiosi e interpreti del pensiero marxista della nostra epoca) è stato quello di aver messo in evidenza come alcune previsioni marxiane non si fossero mai avverate (e non è cosa da poco tenuto conto della pletora di profeti che affollano le vie del “comunismo irrealizzato”) e come tanti  suoi epigoni avessero travisato, in molti punti cruciali, il suo pensiero (leggi la confusione tra lavoratore collettivo cooperativo assimilato alla ben più angusta classe operaia).  Da questi assunti (e non solo questi) La Grassa è partito per “rimettere le cose al loro posto” ed approntare una teoria (quella degli agenti strategici) che, senza rinnegamenti o aggiustamenti di comodo, arrivasse a cogliere il nucleo logico e le incessanti trasformazioni della società capitalistica di tipo occidentale (da lui oggi definita “formazione dei funzionari privati del capitale” originatasi negli USA), secondo direttrici meno “fantasmatiche” di quelle attualmente in voga.

Ingredienti ottimi sulla cui combinazione non possiamo ancora dire di più data l’epoca di transizione nella quale ci troviamo ad operare. Con una metafora si potrebbe dire che la Storia serve “piatti caldissimi” che devono prima intiepidirsi per poter essere sottoposti alla prova dell’assaggio. Se il piatto fuma ancora quando si porta il cucchiaio alla bocca si rischia di scottarsi e di non percepire il suo sapore, se è invece troppo freddo non se ne coglie il gusto originario; insomma vale quello che diceva Lenin per cui il rivoluzionario deve saper attendere il momento migliore per agire, né il giorno prima né quello dopo (e lo può fare se nella sua azione è supportato da una "pratica teorica" adeguata).

Noi abbiamo visto così riaffiorare, con questo tentativo lagrassiano, quel modo di fare scienza che era proprio di Marx e del primo marxismo. Ci interessa, pertanto, tornare a comprendere criticamente la formazione sociale capitalistica così come essa si mostra hic et nunc; proprio come Marx si era, a sua volta, preoccupato di “fare i conti” con la società (il modo di produzione sociale) che era sotto i suoi occhi. Marx giunse certamente ad abbozzare anche qualche previsione (a dir la verità qualcuna di queste si è spinta troppo oltre) ma senza scrivere mai una ricetta definita per l’osteria del futuro. Per esempio, a proposito di anticipazioni sbagliate, si può “rimproverare” al fondatore della “baracca” di aver voluto proiettare, in maniera troppo lineare, il modello capitalistico inglese (de te fabula narratur), in quanto forma specifica di quella formazione particolare, al capitalismo tout court ed ai suoi "avanzamenti" futuri (fino al giorno ultimo della sua crisi irreversibile). Oggi sappiamo, invece, che le formazioni capitalistiche americana o russa, per citarne qualcuna, hanno caratteristiche simili ma non assimilabili e sono solo lontanamente accostabili a quella inglese dell’ottocento. 

Per me, in particolare, che riuscivo solo a percepire l’impasse nel quale il marxismo si era impantanato (ma rispetto al quale non vedevo vie d’uscita praticabili) lo studio del pensiero di La Grassa è stato come, mi si passi l’espressione “sauliana”, una “folgorazione lungo la via di Damasco”.

Credo che, volendo parafrasare le parole di Pascal (riprese a propria volta da Althusser) sul rapporto tra antichi e moderni, si tratti ora di “salire sulle spalle” stesse di Marx per vedere (interpretare) i limiti della nostra epoca (che sono profondamente diversi da quelli che  il  pensatore di Treviri osservava nel tempo nel quale si è trovato a vivere). Questo non è tradire Marx ma è seguire lo spirito che ha animato la sua ricerca scientifica.

Del resto, gli ortodossi più accaniti e i saltimbanchi postmoderni dovrebbero, invece di lanciare anatemi, tener sempre ben presenti le parole del Lenin di “Stato e rivoluzione”:  “Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale "trattamento". Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia. Tutti i socialsciovinisti – non ridete! – sono oggi "marxisti". E gli scienziati borghesi tedeschi sino a ieri specializzati nello sterminio del marxismo, parlano sempre più spesso di un Marx "nazionaltedesco" che avrebbe educato i sindacati operai, così magnificamente organizzati per condurre una guerra di rapina!”

Cambiate i soggetti dell’invettiva leniniana, che so’ con gli interpreti del Marx che avrebbe anticipato la globalizzazione o con quelli che si servono di Marx per perorare la decrescita e vedrete che l’uomo della Lena non la pensava così diversamente da noi. E ora buona lettura. (G.P.)

 

 

Alcuni anni fa aveva trovato una certa risonanza il tentativo di collegare in maniera più stretta le problematiche ecologiche con il marxismo. Esiste ancora in circolazione una rivista, erede di quella che negli anni novanta ebbe una certa diffusione, che però attualmente pubblica solo un numero monografico ogni anno. Uno dei testi fondativi del cosiddetto ecomarxismo fu pubblicato dall’economista James O’Connor negli U.S.A col titolo  Capitalism, Nature, Socialism (1988). Nella traduzione italiana del 1990 si legge:<< il punto di partenza di una teoria “ecomarxista” della crisi economica e della transizione al socialismo è la contraddizione tra i rapporti di produzione (e le forze produttive) capitalistici e le condizioni della produzione capitalistica […]. Marx ha definito tre tipi di condizioni di produzione. Il primo tipo riguarda “le condizioni fisiche esterne”, o gli elementi naturali che entrano nel capitale costante e in quello variabile. Il secondo tipo riguarda la “forza lavoro” dei lavoratori, definita come “le condizioni personali della produzione”. Il terzo tipo è quello cui Marx si riferisce quando parla delle condizioni comunitarie, generali della produzione sociale, e cioè delle reti di comunicazione.>> Insomma O’Connor rileva che le forze produttive – ovvero la forza lavoro e i mezzi di produzione comprese le infrastrutture e i mezzi necessari per il trasporto di cose attraverso il  territorio – sono composte da una parte fornita dalla ricchezza naturale e dalla dotazione biologica degli esseri viventi e in particolare da coloro che compongono quella che chiamiamo “ l’umanità” e da un’altra che è il risultato del lavoro umano esercitato,  comunque sempre, tramite mezzi e oggetti di lavoro che sono già ricchezza naturale trasformata ovverosia “prodotti”, valori d’uso lavorati. Un successivo breve passo del saggio citato sopra ci aiuterà a capire che la teoria ecomarxista non si è propriamente negli ultimi anni “defilata” ma, piuttosto, si è progressivamente  indirizzata verso una prospettiva che non ha più nulla a che fare con nessuna delle tradizioni marxiste e tantomeno con il  fondatore del marxismo stesso. Scrive infatti O’Connor:<<un “socialismo ecologico” sarebbe diverso da quello immaginato dal marxismo tradizionale, primo perché – sotto il profilo delle “condizioni di produzione” – la maggior parte delle lotte assumono una dimensione “romantico-anticapitalista”, e cioè sono “difensive”, più che “offensive”; secondo, perché è ormai diventato evidente che, nel capitalismo, la tecnologia, le forme del lavoro, ecc., incluso l’ideologia del progresso materiale, sono diventati parte del problema, e non la sua soluzione.>> Il suo “erede”, il maggiore teorico della decrescita S. Latouche, in un saggio del 2004, perciò, scrive:<<In sostanza, per alcuni lo sviluppo è la fonte di tutti i mali mentre per altri esso costituisce la soluzione miracolosa di tutti i problemi. Vi è da una parte chi milita in favore di un problematico “altro” sviluppo (o di una non meno problematica “altra” mondializzazione) e dall’altra chi, come noi, intende uscire dallo sviluppo e dall’economicismo. […] Dopo il fallimento del socialismo reale e lo scivolamento vergognoso della socialdemocrazia verso il social-liberalismo [Il termine usato mi pare infelice. Il socialismo liberale è concettualmente e storicamente tutt’altra cosa dal “liberalismo di sinistra” – che ha avuto il suo padre “nobile” in John Rawls – e cercheremo di argomentare attorno a questa interessante questione in un prossimo intervento. N.d.R.], queste analisi possono contribuire a ripensare in modo nuovo una società veramente alternativa alla società di mercato e a partecipare alla sua costruzione.>> Ora, però, proviamo a riprendere il “filo” del nostro precedente intervento riallacciandoci alle tematiche dei sostenitori di quello che Latouche chiama “altro sviluppo”. I professori di chimica fisica Enzo Tiezzi e Nadia Marchettini in un libro del 1999 scrivono:<<Nel 1987 il rapporto Brundtland delle Nazioni Unite aveva riportato una definizione cornice di sviluppo sostenibile: “Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni”>> Facendo riferimento alle riflessioni del prof. D. Pitea i due autori continuano:<< Il concetto di sostenibilità può essere espresso mediante un sistema di indicatori. Fondamentalmente però, ed è quello che si vuole qui mettere in evidenza, si tratta di un concetto che trova le sue radici in tre giudizi di valore.

a) Uguaglianza di diritti per le future generazioni. Questo giudizio afferma il diritto alle risorse della Terra per gli individui che vivranno in futuro e assume, come uno dei principi guida dell’azione politica, la giustizia fra le generazioni.>> Il secondo giudizio di valore consiste nella <<trasmissione fiduciaria   di una “natura intatta”>> e si articola nelle due posizioni di cui si è  già parlato nello scorso intervento relativamente alla “sostenibilità debole” e “forte”. Come il prof. Daly nel precedente articolo, anche il prof. Pitea (citato da Tiezzi e Marchettini) non è, però, molto chiaro in alcuni punti della sua esposizione; nel caso della sostenibilità debole il principio base consiste nel mantenere, anche per il futuro, <<una somma costante di capitale materiale e di capitale naturale>>. Subito dopo, comunque, si specifica che un eventuale andamento decrescente del capitale naturale inteso come “fondamenti naturali della vita” può essere compensato, nella teoria della “sostenibilità debole”, da <<un aumento del valore reale dei beni prodotti>>. Ancora una volta i nostri professori non riescono a distinguere bene tra valore d’uso e valore di scambio perché anche se per “valore reale” dei beni si volesse intendere la loro utilità bisognerebbe comunque poi trovare il modo di sommare le varie utilità e determinare un loro equivalente in moneta per potere fare dei confronti e dei calcoli. Il confronto dovrebbe essere fatto, in una prospettiva ecologica pura,  tra il “capitale naturale” perso e il “capitale materiale” prodotto, in termini qualitativi e di utilità (benessere sociale e naturale), ma dovendosi trovare strumenti per una comparazione di carattere economico – e quindi risultando decisivo il poter determinare quanto è necessario produrre per la “compensazione” – non si può prescindere da una valutazione monetaria. Si tratta, mi sembra, di un problema che è necessario  risolvere. Riguardo alla “sostenibilità forte”, che Pitea ritiene l’unica opzione accettabile, così egli si esprime:<<la sostituzione del capitale naturale con capitale materiale è possibile solo in misura limitata>> ed è quindi <<necessario evitare almeno i danni materiali irreversibili. A ciascuna generazione, la Terra, con le sue risorse, è assegnata in modo fiduciario e ciascuna generazione ha il dovere di lasciare alle generazioni future una natura “intatta” (ossia, in condizioni equivalenti)>>. Il terzo giudizio di valore, di cui Pitea parla, riguarda la giustizia internazionale:<<Non solo le generazioni future devono avere il diritto di godere di una “natura intatta” ma, all’interno di una stessa generazione, l’uguaglianza di possibilità a livello mondiale deve essere considerata un elemento costitutivo: ciascun individuo ha diritto a un “ambiente intatto”. La dimensione della giustizia internazionale pone quindi i fondamenti per un equilibrio di interessi tra i paesi sviluppati (il Nord del pianeta) e i paesi sottosviluppati o in via di sviluppo (il Sud).>> Ma già la definizione di sviluppo sostenibile che è riportata nel rapporto Brundtland pone alcuni problemi di fondo che richiedono attenzione. Certamente bisogna confrontare e valutare i diritti delle generazioni future e di quelle attuali ma quando ci trovassimo nella situazione che per salvaguardare i sacrosanti e legittimi diritti dei nostri figli, nipoti e pronipoti venisse richiesto una rinuncia ad un certo livello nel tenore di vita  presente, magari per classi e popoli che non nuotano nell’oro, chi effettuerà la corretta valutazione riguardo alla ripartizione dei sacrifici e ancor prima chi opererà le scelte specifiche, numerose e difficili, e in che maniera, con quali procedure verranno fatte queste scelte ?  Se poi parliamo dei paesi il cui sviluppo è maturato entro il  “terzo quarto” del XX secolo e li confrontiamo con i paesi che sono diventati “emergenti” nella fase successiva – nella quale i problemi della sostenibilità dello sviluppo, secondo gli economisti ecologici, è diventata una vera e propria “emergenza planetaria” – dovremo, seguendo le ipotesi degli ambientalisti, prima di tutto, stabilire a chi spetterà di  decidere a quale tenore di vita  “dovranno arrestarsi” questi paesi emergenti, non solo per salvaguardare i nostri discendenti, ma soprattutto per garantire le nostre (dell’Occidente e del Giappone) esigenze economiche e ambientali. In un breve articolo di commento  all’ultimo libro di Latouche, apparso sul Corriere del 22.03.2008, Carlo Formenti pone alcuni problemi che mi pare possano riguardare anche i sostenitori di una teoria “forte” dello “sviluppo” –messo tra virgolette perché Herman Daly, ad esempio, preferisce piuttosto parlare di “stato stazionario”- sostenibile. Scrive Formenti che secondo Latouche <<basta invertire il flusso del tempo, tornando alla produzione degli anni Sessanta, e “rilocalizzare” economia e politica, contenendole nei limiti di entità spaziali omogenee sul piano geografico, sociale e storico.>> Ma, continua Formenti, <<è bizzarro immaginare che il processo di globalizzazione, dotato di mostruosa inerzia, possa essere “ricacciato nella bottiglia”; né meno bizzarro, per un pacifista che parla di “serena” transizione alla decrescita, è rimuovere il fatto che, almeno finora, i tentativi di rilocalizzazione identitaria hanno prodotto solo inaudite violenze [e per di più sono diventate spesso, su larga scala, un  elemento per alimentare crescita e sviluppo nelle aree meno sviluppate: tutto il contrario della decrescita o dello sviluppo ambientalmente compatibile. N.d.R.]>> Per concludere Formenti pone a Latouche e compagnia un paio di  belle domande:<< se, come ammette lo stesso Latouche, la servitù dei sudditi del mondo globalizzato “è più volontaria che mai”, come pensa di cambiare il loro immaginario consumista? Tutti nei campi di rieducazione (un vizio in cui le “rivoluzioni culturali” cadono spesso) ?

 

                  Mauro Tozzato            24.03.2008