INTERVISTA A MARCO TARCHI
Direttore di Diorama Letterario (a cura di G. Repaci)
Intervista a Marco Tarchi:
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Professor Tarchi, lei è in Italia il maggior esponente della cosiddetta “Nuova Destra”, la corrente politico-filosofica fondata del francese Alain De Benoist. Ci può spiegare le ragioni della sua svolta, e il suo distacco dalla destra tradizionale.
Cosa mi separava da quel mondo? Averlo conosciuto a fondo, capendo che dietro le professioni di fede in una “terza via” ulteriore rispetto al liberalismo e al comunismo c’era solo un agglomerato incongruente di fideismo, arrivismo, conservatorismo, visceralismo, nazionalismo. Una miscela indigesta per me.
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Lei è da parecchio tempo un sostenitore dell’esaurimento della dicotomia sinistra/destra, tuttavia questa dicotomia è ancora oggi utilizzata per distinguere fazioni politiche contrapposte. Può spiegare quali sono a suo avviso le ragioni dell’esaurimento di questa dicotomia.
Detta in estrema sintesi – per un approfondimento mi permetto di rimandare all’articolo Destra e Sinistra: due essenze introvabili, che ho pubblicato nel n. 1/1994 della rivista “Democrazia e Diritto” e dovrebbe essere raggiungibile dalla pagina web www.diorama.it – a me pare che, anche qualora si assegni a queste categorie, seguendo l’indicazione di Giovanni Sartori, un valore puramente convenzionale, considerandole come segnalatori di posizione che aiutano ad orientarsi nella complessa realtà della politica, oggi il tipo ideale di individuo che di fronte alla totalità dei problemi in cui si imbatte si schiera sempre “a sinistra” o “a destra” rispetto alle alternative che ha di fronte non esista più. Le scelte di campo si effettuano per temi e problemi senza meccanicismi. Ci si può sentire contemporaneamente “più a sinistra” su questioni che investono la giustizia sociale e la distribuzione della ricchezza e “più a destra” su temi che toccano la sfera etica, o viceversa; “più a destra” se si discute di sicurezza e nel contempo “più a sinistra” se ci si riferisce alle dinamiche della politica internazionale, o il contrario. E così via, per tutte le combinazioni possibili. Ovviamente, i “duri e puri” che continuano ad attaccarsi a questi totem per non sentirsi perduti, o condannati a ragionare oltre le etichette, negano decisamente questa realtà, che tuttavia da oltre vent’anni è emersa ripetutamente alle più varie latitudini. Il primo segnale fu, nel 1984-88, il gran numero di ex elettori del Pcf che si spostò repentinamente verso il Front National di Le Pen. Che cos’erano? Fascisti inconsapevoli che chissà perché prima davano fiducia ai comunisti? Matti da legare? Burloni? “Compagni che sbagliano”? (Già: ma perché?). Forse erano persone che prima consideravano primaria la preoccupazione per il posto di lavoro in fabbrica e poi hanno iniziato a sentirsi inquiete per la crescente immigrazione. E’ un caso-limite, ma ce ne sono stati molti altri in seguito. Tutto il fenomeno neopopulista, ad esempio, ne reca il segno.
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Oggi a distanza di più di sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale si parla ancora, soprattutto nella sinistra, di Fascismo e Antifascismo. A suo avviso il Fascismo propriamente detto (1919 – 1945) è classificabile all’interno della dicotomia sinistra/destra o è al di fuori di questa dicotomia.
Penso che in materia abbia svolto considerazioni fondate lo studioso (israeliano e di una sinistra piuttosto radicale) Zeev Sternhell. Il fascismo ebbe molte facce e molte ispirazioni, a seconda dei contesti nazionali, della struttura delle opportunità politiche che si trovò di fronte – che in Italia o in Germania spingevano, ad esempio, a vedere nei comunisti il nemico/concorrente numero uno, ma in molti paesi dell’Est Europa agivano con tutt’altro effetto – ma all’origine fu un tentativo di fondere motivi ideologici nazionalisti e socialisti. Ebbe, come è stato scritto, al suo interno una sinistra, un centro e una destra. Io direi meglio più destre, più centri, più sinistre. Favorì in talune circostanze le strategie conservatrici o reazionarie di varie destre, ma quasi sempre sperando di servirsene e soggiogarle. Puntando su questa ipotesi di surroga, alleanza transitoria e sostituzione, si scontrò frontalmente con le sinistre, di cui pure dichiarava di condividere alcuni ideali. A causare questo conflitto fu la sua avversione al classismo e all’internazionalismo.
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Intorno alla Shoa soprattutto in questi ultimi anni si è creata una vasta industria ideologica, il cui scopo è quello di elevare l’Olocausto ebraico (che è veramente esistito, non mi fraintenda) ad unicum storico, in modo da assolvere preventivamente lo stato d’Israele dai suoi crimini nei confronti dei palestinesi. Le chiedo, è possibile a suo avviso parlare di “religione sionista”, senza possibilmente cadere nell’antisemitismo.
Il tema è da toccare con le molle. Non vi è dubbio che il genocidio della popolazione ebraica sia soggetto a pesanti strumentalizzazioni, ma io penso che, più che opporsi ad esse ricorrendo a toni polemici contro il sionismo, sia necessario bandire una volta per tutte il “ricatto della memoria” dalla discussione politica. Le politiche dello Stato di Israele vanno discusse in termini attuali e, se lo si ritiene opportuno o doveroso, criticate in quanto tali, rifiutando qualsiasi commistione con toni e argomenti che possono essere fatti passare, a torto o a ragione, per surrogati di antisemitismo. Che poi questa accusa venga usata spesso senza alcun fondamento, a puro scopo di delegittimazione di un avversario, è un dato di fatto. Ma, appunto, il miglior modo per rendere evidente l’infondatezza di queste accuse è tenersi sul piano della stretta attualità, senza divagazioni in terreni scivolosi e per molti versi deprecabili come quello di certo “revisionismo”.
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Professor Tarchi a suo parere c’è qualcosa di vero nella tesi per cui oggi il terrorismo islamico, o se si vuole l’islam politico, ha attaccato l’Occidente (vedi Torri Gemelle e Pentagono dell’11 settembre 2001), e che perciò l’Occidente debba difendersi?
L’ho scritto più volte: questo modo di vedere le cose è mistificante. E’ stato l’Occidente, su più piani – militare, ma anche culturale – a sferrare, all’indomani della svolta del 1989, un attacco al mondo arabo-islamico. La prima guerra del Golfo ne è stata la plastica dimostrazione: una trappola nella quale Saddam Hussein è caduto, favorendo involontariamente le strategie statunitensi, che del riferimento retorico all’occidentalismo hanno fatto uno strumento di condizionamento degli alleati europei, a partire da quelli che recalcitravano nel seguirli nella fase “muscolare” della messa in atto del loro disegno egemonico. Dal
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Che differenza c’è secondo lei tra gli imperi classici, tipo quello romano o quello macedone, e l’odierno imperialismo americano.
L’imperialismo statunitense è provvisto di una volontà omogeneizzante ignota, nelle proporzioni, agli imperi storici. Ed è provvisto, grazie alla dottrina del “destino manifesto”, di una convinzione messianica di incarnare l’unica civiltà fondata su valori universali che non ha precedenti. Qui non si guarda alla sola conquista di territori o governi, si mira al dominio incondizionato delle mentalità, delle anime.
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Qual è la sua opinione sulla resistenza irachena e afgana? Che differenza c’è tra terrorismo e resistenza.
C’è un bel libro di Alessandro Colombo, La guerra ineguale (Il Mulino), che mette perfettamente in evidenza come, nelle guerre asimmetriche, chi si trova in evidente e spesso schiacciante inferiorità di armamento debba ricorrere a strumenti non convenzionali per coltivare possibilità di successo. Gli attacchi di sorpresa e gli attentati fanno, da sempre, parte di queste risorse. Sapendo di essere annientati in campo aperto, i combattenti sfavoriti devono mimetizzarsi nella popolazione, colpire e fuggire. Spesso, per contrastare le loro azioni, gli eserciti regolari ricorrono ad azioni belliche che coinvolgono pesantemente i civili, ma si guardano bene dall’accettare la qualifica di terroristi, mentre la utilizzano sistematicamente per designare chi li attacca. E’ evidente, dunque, che oggi l’etichetta di terrorismo è utilizzata senza alcun criterio di obiettività, a puro scopo delegittimante e, nel senso proprio del termine, polemico. Quanto alla mia opinione sulla resistenza irachena e afgana, le reputo inevitabili e legittime di fronte a una situazione di occupazione del territorio da parte di truppe straniere ed ostili. Far passare le azioni militari nei due paesi per “missioni di pace” o di “ricostruzione” o anche solo per “operazioni di stabilizzazione” è ipocrita. Si tratta di interventi stranieri in guerre civili in atto.
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Ammesso che in futuro si possa superare l’obsoleta dicotomia sinistra/destra, su quali basi programmatiche potrebbe strutturarsi una nuova forza politica?
A questa domanda è impossibile rispondere in poche righe, o anche in poche pagine. A me sembra che vi siano molti temi e problemi su cui quanti si oppongono all’egemonia dell’odierno “pensiero unico” liberale potrebbero convergere, nell’analisi e in molti casi anche nell’operatività. Ma per riuscirci, prima ancora su un piano culturale e metapolitico che sul terreno propriamente politico, si dovrebbe innanzitutto liberarsi, da ogni parte, delle velenose eredità delle memorie degli ultimi due secoli, e in particolare del Novecento. Impresa indubbiamente difficile, in un paese e in un’epoca in cui c’è ancora chi agita i fantasmi del fascismo e del comunismo.
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Qual è la sua opinione sull’ascesa del neopopulismo in Europa? Può, secondo lei, il neopopulismo rappresentare un’alternativa all’americanizzazione della politica?
Anche qui, come si può riassumere un tema al cui studio si sono dedicate centinaia di pagine? Me la cavo con un cenno: nel neopopulismo convergono inquietudini, suggestioni e proposte eterogenee, che non si possono accettare o respingere in blocco. Forse se ne dovrebbero selezionare alcune, rivederle, riorientarle e farne il punto di partenza per un progetto di ricostruzione della politica che miri a ricreare le fondamenta di un concetto autentico di popolo, inteso come entità consapevole e raccolta attorno a una comune identità, capace di riappropriarsi dello scettro del potere.