L'ASIA CENTRALE VOTATA ALLA GUERRA CIVILE?

(II ed ultima parte, fonte diploweb.com, Traduzione di G.P.)

Riflessioni a partire dal caso tagiko

Didier Chaudet, ricercatore al centro Russia/NEI del IFRI

 

Ci sono le condizioni per il riapparire di un conflitto in Asia centrale?

 

Per sapere se le condizioni sono effettivamente soddisfatte, ci occorre rispondere a due domande. Innanzitutto, esistono strutture d’opposizione, in particolare islamiste, capaci di giocare il medesimo ruolo del PRI? Ed esistono linee di rottura politiche forti che somigliano a quelle esistenti in Tagikistan ed in altri paesi della zona? Nell’Asia centrale post-sovietica, ci sono soltanto due movimenti, tutti e due islamisti, che sarebbero capaci di combattere i poteri costituiti. Si tratta del Hizb-Ut-Tahrir (H.T.), in tutta l’Asia centrale, e del movimento islamico dell’ Uzbekistan, o M.I.O.

A prima vista, Hizb Ut-Tahrir, in Arabo "partito dalla liberazione", sembra essere il partito più pericolosa. Apparso nel 1953 in Medio Oriente, non ha mai conquistato il cuore delle masse. Sembra avere conosciuto più successi fuori della sua regione d’origine. Infatti, si tratta del gruppo islamista più popolare dell’Asia centrale.

Nonostante sia fuori legge in tutta la regione, conta da 15.000 a 20.000 membri[viii). La repressione molto dura condotta dai regimi locali contro il HT non riduce l’attrazione popolare verso esso. Sembrerebbe anche che questo abbia un impatto presso popolazioni tradizionalmente poco politicizzate o deluse tanto dal potere quanto dai partiti d’opposizione. Per esempio, sarebbe in particolare forte presso le donne rispetto ai partiti ufficialmente registrati in Tagikistan[ix). Le cause di tale successo sono multiple. Innanzitutto, il HT ha una struttura ideologica molto forte, semplice, o semplicistica. Secondo questo partito, lo scopo ultimo è il ritorno al califfato, simbolo politico dell’unione di tutti i musulmani. Quest’istituzione è stata abolita nel 1924 da Mustafa Kemal, il fondatore della repubblica turca. Un certo numero di movimenti islamisti sostengono un ritorno del califfato come mezzo per restaurare la grandezza musulmana. La visione dello Stato califfale come visto dal  HT può essere seducente soltanto per i Centro-asiatici. Innanzitutto, raccomanda un modello sociale detto islamico, che sarebbe una forma moderata di socialismo. Vista la situazione economica difficile della maggioranza delle popolazioni locali, questa proposta non può che piacere. D’altra parte, il progetto statale del HT respinge la nozione di stato nazione e le frontiere tra paesi musulmani. Ma dalla caduta dell’URSS, la nascita di autentiche frontiere tra paesi artificialmente separati gli uni dagli altri per la prima volta, ha ostruito pratiche commerciali importanti. Pratiche che ancora oggi, sono essenziali per le numerose famiglie bisognose. Infine, e soprattutto, la grande maggioranza centro-asiatica a dirsi musulmana. Tuttavia, essi non hanno che una conoscenza sommaria delle ideologie legate all’islam, ed anche più generalmente della teologia musulmana. Per molti di loro, uno Stato islamico sarebbe soprattutto uno Stato con un dirigente giusto, ed un paese liberato dalla corruzione. Ciò è un ideale condiviso da tutta la gente della regione. D’altra parte, si nota che il Partito della Lliberazione è un movimento che raccomanda ovunque la stessa ideologia. Malgrado tutto, sa adattarsi alle situazioni locali. Così, in Asia centrale, il suo discorso cambia sottilmente da una repubblica all’altra. In Kirghisistan, il partito si fa portabandiera delle rivendicazioni economiche e sociali. In Uzbekistan, invece, paese dove la repressione è uno strumento di gestione politica, sono i metodi governativi, ed i problemi politici, ad essere regolarmente denunciati. Questa flessibilità ha un legame con il successo ottenuto nella regione.

D’altra parte, il HT si sostiene anche su un’organizzazione ed una disciplina di partito molto efficace. Il partito è organizzato in piccole cellule composte da cinque a sette persone soltanto. Solo il capo della cellula conosce il livello superiore della gerarchia locale. Tale organizzazione rende l’infiltrazione da parte di servizi di informazione relativamente difficile. L’infiltrazione è resa ancora più difficile dalla disciplina imposta ai membri. Devono un’obbedienza assoluta al partito, sotto pena di essere esclusi. D’altra parte, hanno l’obbligo di promuovere il movimento, in particolare presso i loro parenti, le loro famiglie. E’ arduo per un membro dei servizi di informazioni tagiki o uzbeki agire in tali condizioni. In ogni caso, questo lavoro d’implicazione della famiglia porta spesso i suoi frutti. Infatti, se non sono presi dall’ideologia, molti entrano nel movimento in reazione all’arresto di un padre, di un figlio, di un fratello, già membro. Certamente, questo movimento è importante. Per questo, si può considerarlo capace di condurre una guerra frontale in un paese dell’Asia centrale, o in tutta la regione? Secondo le fonti a disposizione, ciò sembra improbabile. Naturalmente, l’ideologia dell’HT è radicale. Promuove lo choc della civilizzazione. Il futuro Stato califfale non sarà quello di membro dell’ONU, non avrà alcun legame diplomatico con gli Stati Uniti. Sarà, d’altra parte, automaticamente in guerra con Israele. Invece, il partito rifiuta ogni djihad, o guerra santa, prima della costituzione del califfato. Hizb Ut-Tahrir si dice apertamente come non violento. E nonostante la forte repressione condotta in particolare dall’Uzbekistan, la violenza ed il terrorismo sono categoricamente respinti. In seguito alle pressioni locali, alcuni membri del partito sembrano avere voluto cambiare quest’approccio, senza successo. Secondo l’ideologia generale di HT, occorre passare tre tappe per ottenere il potere. Innanzitutto, occorre stabilire un’organizzazione fattibile nella regione. Quindi occorre fare un lavoro di propaganda presso la Comunità musulmana del luogo. Quando una vasta maggioranza dei cuori è stata conquistata, si può passare alla terza fase. Consiste in grandi manifestazioni pacifiche che devono capovolgere il potere costituito. Tale approccio punta sul lungo termine, e spiega il flebile successo pratico di HT nella restaurazione del califfato. Negli scritti del partito, la violenza pre-califfale è accettata soltanto in una sola situazione. Si tratterebbe di un colpo di Stato condotto da ufficiali che riprendono il programma del partito. Ma, le forze militari e poliziesche dell’Asia centrale, primi beneficiari dei regimi in auge, si guardano bene, dal passare al nemico. D’altra parte, la formazione molto laica della frangia superiore di questi corpi rende l’idea di una collaborazione ancora più improbabile. D’altra parte, se il HT attira la simpatia di molti, sarebbe errato esagerare la sua influenza. Nel marzo 2005, forti tensioni in Kirghisistan hanno comportato la caduta del presidente in carica dalla dissoluzione dell’URSS, il presidente Akayev. In questa fase di disordine, un HT autenticamente influente avrebbe potuto pesare sul movimento. Ma il partito fu quasi invisibile durante ciò che si è chiamato "la rivoluzione dei Tulipani". Si è mostrato incapace di mobilitare vasti movimenti di folla. Lo stesso è accaduto nel sud del Kirghisistan, dove l’ H.T. ha un’importanza regionale non trascurabile. Si è dunque lontani dalla forza regionale di cui ha potuto beneficiare il P.R.I.

L’approccio ideologico del H.T. gli ha impedito di amalgamarsi con altri attori dei suddetti eventi. Il rifiuto di una collaborazione si sosteneva in particolare su un rigetto della nozione di democrazia. Il H.T. considera infatti questo regime come un’invenzione occidentale anti-islamica. In raffronto, i tagiki islamisti hanno sempre mostrato una flessibilità ideologica. Come visto più su, hanno saputo amalgamarsi con altri membri dell’opposizione durante la guerra civile. Certamente, i regimi locali s’affrettano ad attribuire al H.T., o a ipotetiche frange  dissidenti, attacchi terroristici e sommosse locali. Ma, ogni volta, il HT smentisce, e soprattutto, non c’è alcuna prova di tale implicazione. Sembrerebbe che l’azione principale dei membri del Hizb dalla sua nascita sia stato di diffondere opuscoli di propaganda nelle cassette delle lettere dei loro vicini. Occorrerebbero militanti molto più attivi e rapidi ad un uso della forza per fare temere una nuova guerra civile condotta da questo partito.

Il movimento islamico dell’ Uzbekistan (M.I.O.) sembra rappresentare una minaccia molto più reale del HT. Questo gruppo ha, infatti, molti più punti in comune con il P.R.I tagiko dell’inizi degli anni 1990. Come questo, è stato tradizionalmente e profondamente ancorato in un territorio. Infatti, gli uzbeki islamisti si trovano dall’inizio dell’indipendenza molto più nella valle del Ferghana che altrove. Questa valle, divisa tra tre repubbliche, si situa nel cuore dell’Asia centrale. È popolata in grande maggioranza da uzbeki (85% della popolazione). La tradizione islamica è stata sempre molto forte, cosa che ne ha fatto un terreno fertile per qualsiasi movimento di re-islamizzazione[x). Più generalmente, in Uzbekistan, come in Tagikistan, l’attaccamento all’islam è forte, e legato all’identità nazionale. D’altra parte, ancora come in Tagikistan, il movimento islamico si concentra inizialmente sulla lotta in un solo paese, l’Uzbekistan. Il capo militare del movimento dalla sua creazione, Juma Numangani, non è riconosciuto come un campione di erudizione islamica. Non ha mai affermato posizioni politiche molto sottili. Invece, secondo il parere di ogni persona che lo ha incontrato, ha sempre riassunto la sua ideologia in termini molto semplici. Si tratta soprattutto, e soltanto, di un odio profondo contro il regime dittatoriale d’Islam Karimov. È stato detto che dopo l’11 settembre il movimento islamico dell’Uzbekistan si sia deterritorializzato. Sarebbe diventato Movimento Islamico del Turkestan o Movimento Islamico dell’Asia centrale, associandosi con altri islamisti. Tuttavia, questa dichiarazione, spesso ripresa, non è fondata su alcuna prova tangibile, secondo Vitaly V. Naumkin[xi).

Il movimento islamico resta dunque un movimento eminentemente nazionale. Ciò rende i suoi obiettivi più realizzabili, dunque più concreti e pericolosi per il futuro. D’altra parte, il M.I.O., contrariamente al HT, non ha mai raccomandato la non violenza. Ha combattuto al fianco dell’opposizione nella guerra civile tagika. Ha condotto azioni militari che miravano a colpire l’Uzbekistan nel 1999 e 2000. Ed esso si è legato Al Qaida e  ai taliban. Ha combattuto al fianco di questi ultimi in occasione della campagna americana in Afganistan, alla fine 2001. Gli sono stati attribuiti i disordini del marzo-aprile 2004 a Tachkent ed a Boukhara[xii). Ed ha rivendicato gli attentati suicidi contro le ambasciate americana ed israeliana di luglio 2004. Si ritrova, dunque, molto di ciò che era il P.R.I all’inizio degli anni 1990 nel M.I.O. Il movimento ha obiettivi nazionali, ed un chiaro desiderio di sovvertire il regime uzbeko. Si appoggia storicamente su una base inizialmente regionale. È pronto ad utilizzare la violenza, e lo ha provato a varie riprese.

Tuttavia, come per il H.T., è difficile vedere nel M.I.O. una struttura capace di cominciare una guerra civile. Innanzitutto, contrariamente al potere tagiko degli inizi degli anni 1990, il potere uzbeko non è debole. Lo ha provato fin dall’indipendenza. Infatti, l’Uzbekistan aveva questo in comune con il Tagikistan, il fatto che esistesse già una forte opposizione islamista. Ma il centro uzbeko ha avuto i mezzi per rompere quest’opposizione prima che potesse fermamente conquistare un territorio. Dall’inizio degli anni 1990, il M.I.O. vive in esilio. Certamente, una rete di simpatizzanti forse esiste sempre sul territorio uzbeko. Tuttavia, la massa dei militanti, capace di combattere le forze armate locali, ha dovuto fuggire da tempo, inizialmente in Tagikistan, quindi in Afganistan. Ed infine nella zona tribale pakistana, alla frontiera pakistano-afgana. Non si può dunque parlare più di una base regionale solida per il M.I.O. all’interno del territorio uzbeko. Anche nel suo periodo di gloria, in occasione degli attacchi del 1999 ed del 2000, il movimento islamico non era stato capace di mettere seriamente in pericolo Islam Karimov. La campagna americana ha d’altra parte messo seriamente in cattive condizioni il movimento. Numerosi membri sono stati catturati o uccisi a fine 2001. Il sostegno uzbeko alla guerra contro il terrorismo era specificamente legato alla determinazione degli obiettivi da parte degli americani dei campi d’addestramento del M.I.O. È stato riportato che Juma Namangani, capo del movimento, è stato ucciso in occasione della campagna. Infine, questo partito non ha potuto sollevarsi da quest’ultimo inconveniente una volta rifugiatosi nel territorio tribale pakistano. Infatti, tensioni sempre più forti hanno opposto gli uzbeki islamisti ed i loro alleati taliban. Il capo degli uzbeki islamisti, Tahir Yuldashev[xiii), sosteneva una battaglia contro il regime al potere di Islamabad. Contrariamente ai taliban, che desideravano combattere primieramente la NATO in Afganistan. Gli uzbeki islamisti si sono gradualmente sollevati contro le tribù che avevano offerto loro ospitalità. Infatti, i combattenti del M.I.O hanno contribuito all’ aumento della criminalità. Hanno anche organizzato assassinii contro i membri influenti di tribù che non la pensavano come loro. Nel 2007, ciò ha comportato una battaglia sistematica tra tribù ed Uzbeki. Quest’ultimi sono stati sconfitti, ed hanno perso almeno 200 uomini. Quest’ultima sconfitta, ed il disaccordo con i loro alleati, sembra mettere l’Uzbekistan definitivamente al riparo. Almeno per quanto riguarda azioni maggiori che vengono dal M.I.O. Certamente, le strutture che potrebbero rappresentare un pericolo per la stabilità della regione sembrano non essere in grado di agire. Non c’è reale equivalente del P.R.I. nella regione, capace di incanalare le opposizioni, combattere i regimi al potere. Tutto sommato, alcune cause, spesso evocate più su, sono presenti. E questi problemi, soltanto, potrebbero essere fonti d’instabilità. Un paese o un’ area non ha bisogno di due campi strutturati per affondare nel caos. Un numero sufficiente di persone spinte alla violenza, in un modo o nell’altro, vi basta.

C’è innanzitutto la struttura politica ricorrente in Asia centrale. Sicuramente, esistono differenze tra i vari paesi. Tutto sommato, tutti sono regimi presidenziali forti. Non c’è alternativa pacifica dall’indipendenza degli "Stans" post-sovietici. La divisione del potere con partiti realmente d’opposizione è ancora inimmaginabile. La realtà del potere appartiene sempre alla cerchia presidenziale. Rappresentanti di alleanze aleatorie, di clan, di interessi regionali, fanno una pressione costante attorno a un solo centro di potere. È ovvio che quest’organizzazione politica non ha avuto soltanto difetti. Così, contrariamente al Tagikistan, gli uomini forti locali hanno potuto prendere sotto il loro controllo le forze armate. Hanno ereditato paesi con frontiere artificiali, con forti minoranze, e con una economia sinistrata. Il vuoto ideologico lasciato dalla dissoluzione dell’URSS ha dato campo libero all’islamismo, al nazionalismo, ed al separatismo. Tuttavia, i presidenti al potere hanno saputo evitare la guerra civile. Nursultan Nazerbaïev ad esempio, è riuscito ad evitare una divisione del suo paese tra Russi e cosacchi da un lato, e Kazaki dall’altro. Ha saputo, d’altra parte, conservare un equilibrio tra i vari clan ed le varie cerchie di potere. E sono senza dubbio le sue scelte economiche che hanno permesso al Kazakhstan di diventare lo Stato più ricco dell’Asia centrale. Ma gli altri stati della regione non hanno al loro attivo risultati così positivi. I presidenti centro-asiatici hanno avuto timore della "sindrome tagika". Si intende con questo termine la debolezza espressa dal centro di fronte alle opposizioni. Questa sindrome, in particolare in Uzbekistan, ha trovato un rimedio che potrebbe, a termine, essere peggiore del male. Infatti, il presidente Karimov ha scelto di ridurre al silenzio ogni forma d’opposizione. Ciò gli ha permesso di superare la succursale islamista radicale dell’inizio degli anni 1990, ma è anche la forte repressione che tocca ogni opposizione che permette al H.T. di avere un certo successo in Uzbekistan. In misura maggiore, la sua politica anti-islamista è diventata, a termine, una politica anti-islamica. Ogni attività islamica fuori del controllo del potere è diventata illegale con una legge del 1998. Questa legge, ironicamente intitolata, "per la libertà religiosa e le organizzazioni religiose", permette di fermare una persona avente una mise giudicata troppo religiosa. Quanto alla tortura, una volta che un cittadino viene fermato dalle forze dell’ordine, essa è "sistematica", secondo il professore Théo Van Boven. Il risultato delle sue ricerche fu sottoposto alla commissione dell’ONU che si occupa dei diritti dell’uomo nel 2003[xiv). Una tale politica può deteriorare l’opposizione sul breve termine. Ma difatti, spinge anche ad una radicalizzazione sul lungo termine. È, dopo tutto, il metodo che fu utilizzato in tutto il Medio Oriente arabo ed iraniano, con i risultati che si sanno. Così, una repressione troppo violenta, ed una certa rigidità politica, potrebbero portare l’Asia centrale a giorni difficili. Questa rigidità si trova, fino ad un certo punto, nella politica attuale del presidente Rahmon. Certamente, quest’autoritarismo è necessario per rimettere in riga gli ex capi di guerra. Tuttavia, come si è detto più su, una troppo grande concentrazione di potere in poche mani potrebbe fare riapparire la "sindrome tagika". Sembra già contribuire a fare riapparire il problema islamista. D’altra parte, si trova in tutta l’Asia centrale questa divisione subnazionale tra gruppi regionali, clan, ed altre alleanze informali. La coesione di questi gruppi è ottenuta con il clientelismo e con il denaro che ogni gruppo può spillare allo Stato per i suoi. Essendo ogni posto d’importanza sempre precario, in quanto legato alla situazione di ogni gruppo di fronte alla presidenza in un dato momento. Una Situazione simile infligge alle repubbliche dell’Asia centrale un’altra peste che si è riscontrata in Tagikistan, cioè la corruzione. Per questo, i presidenti sono tanto corteggiati che minacciati da queste cerchie di potere, di cui occorre soddisfare gli appetiti con equità. La loro fedeltà non è mai incondizionata, cosa che può significare tensioni con il potere centrale, come in Tagikistan. Così, in Uzbekistan, il presidente Karimov deve fare in modo di conservare un certo equilibrio tra varie elite régionali[xv). E per il presidente tagiko e per il presidente uzbeko, ogni errore può significare tensione politica, o azioni violente. Si è avuto un esempio con gli attentati di Tachkent il 16 giugno 1999. Quest’atti furono attribuiti dal potere al M.I.O. Tuttavia, come ricorda Boris- Mathieu Pétric[xvi), per l’opinione pubblica uzbèka, il colpevole è un altro. Si tratterebbe del gruppo regionale "Sambuh" (Samarcande – Boukhara). O più precisamente le elite di questa regione legate al vice primo ministro fino al novembre del 1998, Djurabekov. Era a lui che Islam Karimov doveva il suo posto di presidente dell’ Uzbekistan. La sua influenza era senza uguali su tutte le strutture dello Stato. Dopo averlo allontanato, il presidente si attaccò ai suoi partigiani nelle varie amministrazioni. Tre mesi dopo questa "pulizia" politica, sei bombe esplodono in posti chiave della capitale uzbèka. Nel marzo 1999, Djuradekov fu reintegrato nel governo. Come ricorda B-M Pétric, l’organizzazione degli attentati faceva pensare che avrebbero potuto essere molto più mortali, e toccare I. Karimov stesso. Sarebbe dunque logico pensare che l’ipotesi della "via uzbèka" sia valida. Ciò significa che l’azione più spettacolare contro il presidente uzbeko non è di natura islamica. Sarebbe direttamente legata, come la guerra civile tagika, ad opposizioni tra elite, regioni, e clan. La stessa lotta, potenzialmente mortale, tra fazioni, esiste dunque altrettanto sia in Tagikistan che altrove. Infine, ed a seguito di ciò che è stato appena evocato, c’è anche la grande povertà della maggioranza della popolazione. In Tagikistan come in altre parti, esiste un canale tra un’elite che conserva gelosamente le redini dell’economia locale, ed il resto della popolazione. Questo canale, che dovrebbe essere riempito soltanto da riforme economiche e politiche, può essere un fattore di tensioni per il futuro. Non sono i movimenti islamici che sono da temere, in primo luogo, in Asia centrale. Certamente, questi movimenti esistono, e non si deve trascurarli. Alcuni, come il movimento islamico dell’Uzbekistan, sono stati e restano una reale minaccia. Tuttavia, questi possono sostenersi su problemi molto più profondi, che prosperano a prescindere da quelli. Se l’HT ed il MIO fossero distrutti completamente nei prossimi anni, altri prenderebbero il loro posto. Che siano islamici o no non cambierebbe nulla alla minaccia di destabilizzazione. Le tensioni economiche tra i gruppi, o la logica rapace ed intollerante sviluppata da alcune cerchie di potere, potrebbero avere nuovamente terribili conseguenze regionali. Non è certo che movimenti islamici possano approfittarne. In compenso, cosa che è più sicura, è che il caos monterebbe a scapito dei popoli della regione, e di tutte le grandi potenze. La Cina, l’India, o la Russia, hanno un interesse diretto a non
vedere questi Stati autodistruggersi. Sono fornitori di petrolio e di gas, come pure mercati da conquistare. Per gli Stati Uniti, impegnati nella guerra contro il terrorismo, questi Stati sono, come il Pakistan, la prima "linea del fronte" per la stabilizzazione dell’Afganistan. Tuttavia, tutte queste potenze hanno preferito sostenere i poteri in sella, il male minore. L’idea di un grande gioco, di una concorrenza tra grandi potenze, ha prevalso sul trattamento dei problemi locali.

Questa logica è comprensibile. L’alternativa richiede un investimento finanziario e politico a lungo termine. Significa un aiuto economico più grande. Ma anche una più grande domanda di trasparenza e di flessibilità da parte dei poteri costituiti. L’Unione europea comincia appena a realmente interessarsi all’Asia centrale. Saprà essa equilibrare meglio interessi diplomatici di breve termine e necessità di sicurezza di lungo termine? È in ogni caso ciò che si può desiderare. È infatti difficile non concepire le tensioni non regolate di oggi come una fonte di future difficoltà per la sicurezza. Difficoltà che saranno più difficili da gestire che non la guerra civile in Tagikistan.

 

Didier Chaudet, enseignant à Science Po



[viii] International Crisis Group, « Radical Islam in Central Asia: Responding to Hizb-Ut-Tahrir », ICG Asia Report, n°58, 30 juin 2003.

[ix] Faranjis Najibullah, « Central Asia: Hirz Ut-Tahrir Gains Support From Women », RFE / RL (Radio Free Europe), 11 juillet 2007.

[x] Vicken Cheterian, « La vallée de Ferghana, cœur divisé de l’Asie Centrale », Le Monde Diplomatique, pp.16-17, mai 1999.

[xi] Vitaly V. Naumkin, Radical Islam in Central Asia. Between Pen and Rifle, Oxford : Rowman and Littlefield Publishers, 2005, pp. 108-109.

[xii] Les autorités ouzbèkes ont affirmées qu’elles avaient découvert l’organisation d’attaques terroristes à une large échelle. L’action de la police aurait forcé le groupe terroriste à se dévoiler, provoquant une lutte armée entre forces spéciales et terroristes, ainsi que des attentats suicides. Pourtant, le fait que le M.I.O. ait été l’instigateur n’est pas avéré. Il semblerait que l’attaque soit née d’une action locale menée par de simples citoyens fatigués de l’attitude policière. Mais on ne peut exclure le soutien au moins logistique d’anciens du M.I.O.

[xiii] Ancien numéro 2 du M.I.O à l’époque de Juma Namangani.

[xiv] Shahram Akbarzadeh, Uzbekistan and the United States. Authoritarianism, Islamism and Washington’s Security Agenda, New York – Londres : Zed Books, 2005, p.97.

[xv] Michael A. Weinstein, « Uzbekistan and the Great Powers: Courting Instability », PINR, 3 janvier 2005.

[xvi] Boris-Mathieu Pétric, Pouvoir, don et réseaux en Ouzbékistan post-soviétique, Paris : PUF, 352 p.

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