IL GENERALE E LO SPECIFICO di G. La Grassa

 

Presentazione di G.P.

 

Vi proponiamo un breve saggio di Gianfranco La Grassa (sito www.ripensaremarx.it), ricco di spunti critici, soprattutto, per il suo slancio teorico e per i suoi fondamentali stimoli volti a porre le basi di una rinnovata pratica politica, più prossima alle evoluzioni dell’attuale fase storica.

Il Nostro, partendo da una citazione di Marx, tratta dall’Introduzione del 1857, mette in evidenza come il pensatore tedesco, nell’indagine sulla società capitalistica, non si sia limitato ad estrarre le determinazioni comuni e generali a più epoche storiche (valevoli per l’eternità e per qualsiasi modo di produzione umano), ma, al contrario, si sia preoccupato, di cogliere, attraverso l’elaborazione di una teoria di fase, la specificità del modo di produzione sociale, quella del capitalismo inglese che egli aveva sotto gli occhi.

Certo, Marx si serve di alcune necessarie generalizzazioni ma solo perché è più semplice, in virtù di una necessaria schematizzazione teorica, “isolare mediante comparazione” ciò che di comune vi è nella storia, ovverossia mettere“…effettivamente in rilievo l’elemento comune”, al fine di risparmiarsi una ripetizione. E di fatti Marx aveva già espresso questo concetto in “Lavoro Salariato e Capitale”, opera del ‘47:

 

I rapporti sociali entro i quali gli individui producono, i rapporti sociali di produzione, si modificano, dunque, si trasformano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, delle forze produttive. I rapporti di produzione costituiscono nel loro assieme ciò che riceve il nome di rapporti sociali, di società, e precisamente una società a un grado di sviluppo storico determinato, una società con un carattere particolare che la distingue. La società antica, la società feudale, la società borghese sono simili complessi di rapporti di produzione, e ognuno di questi complessi caratterizza, nello stesso tempo, un particolare stadio di sviluppo nella storia dell’umanità. (sottolineature mie)

 

Tutt’altra cosa è però fermarsi all’astrazione generale per farne la verità della Teoria fuori dal tempo e dallo spazio, trascurando quelle determinazioni che costituiscono lo scarto essenziale di ogni epoca, ciò che appunto Marx indica come il “concreto della produzione”.

Insomma, anche Marx, contrariamente a quanto sostenuto dai suoi esegeti biblici, non intendeva (né pretendeva, come si evince dalle sue stesse parole) elaborare paradigmi teorici universali, ma si poneva, piuttosto, l’obiettivo prioritario di individuare le caratteristiche meno contingenti del modo di produzione capitalistico, restando però nell’alveo dei rapporti sociali della “concreta” formazione sociale del suo tempo.

Per questo il barbuto di Treviri aveva ridicolizzato la “saggezza degli economisti moderni”, i quali, nel comune e nel generale, avevano “disciolto” la forma storica specifica del capitalismo per farla discendere dalla notte dei tempi:

 

“Gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Così di storia ce n’è stata, ma non ce n’è più " (Miseria della filosofia).

 

Gli economisti più o meno coevi di Marx continuavano a descrivere il capitale come una cosa, come la somma degli strumenti di produzione utili a trasformare materie prime in prodotti finiti da scambiare sul mercato, altro “paesaggio naturalistico”, dove s’incontravano uomini ugualmente liberi di comprare e di vendere. Ma le cose erano sempre andate così?

Che cos’è in realtà il Capitale? Esso : "non è dunque soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di merci, di valori di scambio, di grandezze sociali”. Appunto, di grandezze sociali: “L’operaio riceve in cambio del suo lavoro dei mezzi di sussistenza, ma il capitalista, in cambio dei suoi mezzi di sussistenza, riceve del lavoro, l’attività produttiva dell’operaio, la forza creatrice con la quale l’operaio non soltanto ricostituisce ciò che consuma, ma conferisce al lavoro accumulato un valore maggiore di quanto aveva prima. Qui si sostanza il rapporto di dominanza nella sfera produttiva che si dissolve nella sfera circolatoria, dove effettivamente l’operaio è libero di vendere o di non vendere la sua forza-lavoro, tanto che l’economista moderno potrà dire “che gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro sono gli stessi…[ma] ciò significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. L’uno condiziona l’altro, allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e il dissipatore” (Lavoro salariato e Capitale).

Ed ecco i grandi meriti di Marx, l’aver individuato le basi specifiche del modo di produzione capitalistico con le quali proiettarsi sullo studio della formazione sociale che meglio le incarna, quella inglese.

Dando, dunque, per scontata la validità di tali acquisizioni non possiamo fingere che nulla sia accaduto in questi 150 anni e più. Oggi, il capitalismo borghese “l’unico indagato da Marx ed erroneamente preso per il modo di produzione capitalistico” (La Grassa) è stato sostituito da quello dei funzionari del capitale (nell’attuale fase storica di predominanza statunitense). Siamo dunque in presenza di un’altro stadio (La Grassa preferisce a questo termine quello di ricorsività) che richiede un nuovo “sforzo di specificazione”. Sforzo che dovrà, altresì, orientarsi alla “versione” spaziale della formazione capitalistica globale, perché si tratta di un elemento distintivo, quanto ancora trascurato, del nostro“concreto” storico.

Per questo, più che mai urge una declinazione al plurale del capitalismo, volta ad analizzare la segmentazione in orizzontale delle formazioni sociali (e dei dominanti strategici) che di quello sono l’espressione geopolitica. Basti osservare ciò che accade ad oriente (in specie nei paesi del vecchio "socialismo reale") dove ci sono formazioni che hanno "determinazioni comuni" alle nostre (mercato e impresa o, ancora, i metodi di estorsione del pluslavoro nella forma del plusvalore), ma che si differenziano rispetto al capitalismo occidentale per tante altre caratteristiche. Certo, si tratta di formazioni non ancora "stabilizzate" che, tuttavia, nulla hanno a che vedere con il cosiddetto "socialismo di mercato" predicato dai molti ideologi moderni.

Questi sono, per l’appunto, i temi abbozzati nel saggio che vi invito a leggere.