SVILUPPO E RAPPORTI SOCIALI di G. La Grassa

Presentazione di G.P.

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Come annunciato ieri vi proponiamo sul nostro sito (www.ripensaremarx.it) un nuovo saggio di La Grassa intitolato “Sviluppo e rapporti sociali”. A mio modo di vedere, i punti più interessanti di questo lavoro riguardano la critica antieconomicistica ai fenomeni di concentrazione e di centralizzazione dei capitali e dei mezzi di produzione (sui quali la scuola marxista classica ha costruito i suoi vaneggiamenti circa l’inevitabile “ultima ora” del capitalismo) e il lungo dibattito, apertosi nei primi anni ’60, sullo sviluppo delle forze produttive e sul loro presunto primato rispetto ai rapporti di produzione.

Secondo il pensiero di Marx, il passaggio dalla forma mercantile semplice (la società dei piccoli produttori disseminati) alla forma pienamente capitalistica (con la massima concentrazione dei mezzi di produzione) costituisce un grande avanzamento poiché è con l’affermazione di un modo di produzione socialmente organizzato che si realizzano le condizioni storiche per la successiva costruzione di una società comunista. Come dire, il principio di razionalità e di pianificazione delle attività nella produzione, introdotto dal capitalismo, è propedeutico all’affermazione della futura formazione economica comunistica. Di fatti, il capitalismo è stato il primo sistema ad aver sviluppato la potenza sociale del lavoro grazie alla concentrazione dei mezzi di produzione e degli stessi produttori in uno stesso luogo fisico. Tale concentrazione favorisce, a sua volta, l’introduzione del macchinario (e dei sistemi di macchine) nei processi produttivi, accrescendo, oltremodo, il rendimento del lavoro (e dunque la produzione di beni) e allontanando lo spettro delle crisi da sottoproduzione, tipiche delle fasi precedenti in cui l’economia umana era ancora fortemente dipendente dai cicli della natura (siccità, raccolti insufficienti, disastri naturali ecc. ecc.).

La contraddizione principale di questo modo di produrre risiede, per Marx, nello iato che si viene a determinare tra accrescimento della potenza sociale del lavoro (con uno sviluppo inarrestabile delle forze produttive) e appropriazione privata dei prodotti sul mercato, a favore di una sempre più ristretta classi di proprietari (dunque, tra modo della produzione e modo dello scambio).

Dato che questa divaricazione non è ricomponibile, si sarebbe presto raggiunto il punto in cui i rapporti di produzione borghesi (fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione) non avrebbero potuto ingabbiare di più le forze produttive, ormai giunte ad un livello di massima socializzazione. L’ultimo “scatto” per l’abbattimento delle classi dominanti sarebbe stato favorito dal restringimento della loro base sociale a fronte dell’allargamento delle fila proletarie.

In mezzo a questo passaggio risolutivo si trova l’analisi marxiana  della formazione dei monopoli determinata dalla concorrenza tra i capitalisti (intesa come “seguito naturale” della concorrenza tra produttori mercantili semplici). Si tratta di un fatto decisivo perché secondo Marx, l’atto di espropriazione dei produttori disseminati precapitalistici, da parte degli usurpatori capitalistici, si era compiuto in un periodo di tempo piuttosto lungo (due secoli almeno).  Ma lì si trattava di privare un’ingente massa di individui della loro piccola proprietà, mentre adesso, essendo la proprietà concentrata nelle mani di pochi soggetti, l’operazione di riappropriazione da parte dei lavoratori si sarebbe svolta con maggiore celerità. Credeva Marx che il suo secolo sarebbe stato quello buono per l’avvento del comunismo? Questo non è dato di saperlo ma certamente egli confidava in uno sbilanciamento dei rapporti di forza a favore del proletariato già nel corso della sua vita.

Del resto, il Moro, non vedeva grandi difficoltà nella realizzazione di questa nuova prospettiva perché, in fin dei conti, si trattava di far godere la società (nel suo complesso) dei frutti di un lavoro che era già pienamente socializzato nella produzione, mentre occorreva abolire l’accaparramento privato dei prodotti di tale lavoro (implicante anche la soppressione del lavoro salariato), e la stessa ristretta classe parassitaria posta ai vertici di tale formazione.

Purtroppo, alla luce degli sviluppi successivi, sappiamo che questa tesi non ha trovato riscontro nella realtà. Ciò non toglie che una previsione dimostratasi errata ad una posteriore (in termini storici) prova dei fatti, possa aver goduto di una certa verosimiglianza nel momento in cui è stata formulata. Il guaio, dunque, non viene tanto dall’ “azzardo” marxiano (certo conta anche questo) ma da chi, non avendo nemmeno compreso i termini di quella enunciazione si è limitato a riproporla depauperandola dei suoi elementi essenziali. Il riferimento è a quel nugolo di economicisti d’ispirazione marxista che hanno inteso i fenomeni di centralizzazione come meri fatti economici. Come sostiene La Grassa in questo saggio, alla base dell’interpretazione marxiana del monopolio ci sono due principi che riguardano la stessa concezione del capitalismo in quanto formazione sociale peculiare: 1) la sua capacità di sviluppare dinamicamente le forze produttive, 2) la formazione, nel processo produttivo medesimo, del lavoratore collettivo cooperativo e associato.

Se la prima caratteristica pone le premesse materiali per la realizzazione della futura società comunista (a ciascuno secondo il suo bisogno), è solo con la seconda che si crea il soggetto sociale intermodale “a garanzia” del passaggio da un modo di produzione ad un altro. La centralizzazione “non è il formarsi dell’impresa monopolistica (di cui parlerà l’economia più tardi) bensì l’estraneazione dei capitalisti proprietari dalla produzione in senso stretto, la loro trasformazione in classe di sostanziali rentier, di percettori di rendite…E, ancor di più, il monopolio conduce alla formazione del lavoratore produttivo collettivo o combinato…l’effettiva base sociale di una trasformazione anticapitalistica…” In sostanza, La Grassa ci sta qui dicendo che “il vincolo posto dal monopolio allo sviluppo produttivo dipende da un mutamento del rapporto sociale tra capitalista proprietario…e l’intero corpo lavorativo produttivo (e cooperante)”.

2. Chiarito questo aspetto possiamo adesso ragionare sul discorso attinente alle forze produttive ed ai rapporti di produzione. Le prime critiche all’impostazione seconda la quale le forze produttive avevano il primato sui rapporti sociali di produzione, hanno avuto origine dalla disputa tra il partito comunista cinese e il partito comunista sovietico (compresi i satelliti occidentali orbitanti intorno a quest’ultimo). Si credeva (difficile dire quanto per opportunismo e quanto per profonda convinzione teoretica) che l’incessante spinta data alle forze produttive avrebbe accelerato il processo di dissoluzione dei rapporti sociali capitalistici, fino alla realizzazione del comunismo. In Italia, fu questa la “formuletta” magica con la quale il PCI (filosovietico) giustificò il suo riformismo e il sostegno alle classi dominanti.

Essere, pertanto, a favore del primato dei rapporti di produzione (ricordiamo gli importanti contributi di Bettelheim in tale direzione, ma anche quelli i Althusser), aveva significato, in quel preciso momento storico, essere contro un’interpretazione distorta del marxismo (e del leninismo) e contro l’ economicismo ed il neorevisionismo dei partiti comunisti istituzionali.

Inoltre, lo smascheramento di questa concezione teleologica costituiva il primo passo per sotterrare definitivamente la fantomatica via pacifica al comunismo, con la quale si scagionava l’attendismo dei corrotti gruppi dirigenti comunisti. Ciò non vuol certo dire che i sostenitori del primato dei rapporti sociali fossero, tout court, contro lo sviluppo. Anzi, furono proprio gli iniziatori di tale dibattito antiortodosso a denunciare la maggiore dinamicità del capitalismo rispetto alla stagnazione a cui andava incontro il modo di produzione statal-sovietico.

Possiamo dire che quel dibattito, all’epoca estremamente avanzato, è stato ridotto ad una barzelletta da chi oggi si è limita ad invertire i termini del problema fornendo un’altra sponda ideologica (proprio come i neorevisionisti di allora) alle classi dominanti. Si è così passati dalla celebrazione delle forze produttive (non è un caso che tale operazione veda coinvolti molti personaggi che solo ieri sostenevano il contrario di ciò che affermano oggi) alla necessità di decelerare lo sviluppo per salvare il pianeta dal collasso.

Siamo consapevoli che nemmeno il discorso sui rapporti di produzione (e quindi del complessivo modo di produzione: rapporti sociali+forze produttive) sia adeguato a cogliere le trasformazioni avvenute nell’ambito della formazione capitalistica globale. Per questo La Grassa sostiene che stiamo teorizzando ancora il flogisto:  viviamo cioè una fase transeunte nella quale intuiamo il cambiamento (in alcuni elementi più superficiali) ma non riusciamo ad afferrarlo concettualmente, perché privi delle categorie teoriche adeguate.

Ed ora buona lettura.