CONTRO IL CONSUMISMO: FILO E ANTI di G. La Grassa

E’ difficile oggi parlare in generale del clima di ottimismo o pessimismo che pervade intere popolazioni. Intanto, ben diversa è la situazione di coloro che vivono in alcuni grandi paesi asiatici, oggi in fase di netto risveglio e di riconquista della loro rilevanza nella “Storia”, rispetto ad altri che appaiono “esausti” dopo secoli in cui sono stati al centro di quest’ultima. Inoltre, anche nei nostri paesi (europei) “esausti”, c’è sempre maggior divaricazione tra una massa popolare che, pur tra mille paure, seguita a privilegiare obiettivi di “progresso” (in una situazione sempre più difficile), e la maggioranza del ceto intellettuale che, pur con sfaccettature varie, sputa su questo progresso, dichiarandolo solo “materiale” mentre quello “spirituale” sarebbe in continuo sprofondamento.

Tutti conoscono bene il problema delle profezie che si “autoavverano”; o, detto altrimenti, che sono formulate secondo gli stessi schemi teorici applicati poi alla lettura della “realtà”. Non vi è dubbio che la sensazione vissuta quotidianamente, in specie leggendo giornali e guardando la TV – ma anche soltanto circolando per strada – è quella di una degenerazione culturale, di un imbarbarimento selvaggio dei comportamenti, di una volgarità nello sfoggio di ricchezza e benessere (da parte di coloro che ne godono). Del resto, se uno tiene conto del cinema d’oltreatlantico – “gira e rigira”, ancora il migliore nell’afferrare la realtà del proprio paese e degli individui che vi vivono; negli ultimi 2 anni, o giù di lì, ho visto circa una decina di film pregevoli a tal proposito – il quadro della società americana è ancora più desolante, proprio perché sembra assente ogni socialità. O, per essere più precisi, questa si afferma nella produzione di ciò di cui gli individui abbisognano per vivere (o sopravvivere), ma senza più alcun vero rapporto interindividuale di un qualche significato.

Voglio dire che un tizio guarda la TV, ed è evidente che qualcuno ha prodotto l’apparecchio e lo spettacolo che vi si rappresenta; un caio prende la macchina o l’aereo o beve birra in un pub, ed evidentemente tutto ciò che “circonda” caio abbisogna dell’attività “riunita” di gruppi di persone per essere apprestato. Per il resto, però, c’è silenzio assoluto e sguardi sospesi nel vuoto o invece scambio di insulti, pugni, colpi d’arma (bianca o da sparo), più qualche sudaticcio rapporto sessuale da sbrigare in fretta, poiché esiste sempre un “altrove” dove ci si deve precipitare …..per non fare null’altro di quanto già fatto, in una monotona ripetizione di atti frenetici; poi, da vecchi, l’immobilità e l’atonia più complete, una semplice “attesa” del “mutamento comune”. E sempre, in ogni caso, ognuno è cellula singola, chiusa in un ossessivo isolamento, da cui si esce solo con bevute e sfracassamenti di vario genere. Un quadro penoso e la cui descrizione sembra realistica; o per lo meno rappresentativa di un clima, di un comportamento generalizzato, e di una generalizzata assenza di cultura, di memoria, di riflessione su se stessi, sulla propria vita, ecc. Solo riflessi pronti per destreggiarsi nel presente, in perfetta solitudine, privi di una qualsiasi intenzione di comprendere dove e con chi si sta vivendo, e come ci si situa in questa vita. Meglio non parlare di emozioni, che sono a zero; salvo qualche singulto nevrotico e poche lacrime di dispetto e rabbia, soprattutto di impotenza.

Ora, il marxismo mi ha insegnato a non affidarmi alla semplice analisi del comportamento individuale, di indagare invece le cause strutturali di una certa conformazione (detta sovrastrutturale, cioè politica e culturale) della vita sociale, in cui si svolgono le attività degli individui. La critica al marxismo scolastico, che fissa leggi deterministiche per le “strutture sociali” (in questo apparentandosi alla rigida predestinazione di certe correnti protestanti), mi ha però anche insegnato a non trincerarmi dietro le cause sociali ineluttabili, e ineludibili, di certi degradi. Secondo l’opinione dell’odierna massa di irresponsabili, la colpa è sempre di qualcun altro: dei genitori, della famiglia, talvolta dei “cattivi compagni”, in ultima analisi della società. Anzi questa è la più bella scusa per ogni delitto, per ogni perversione. Farabutti ammazzano, torturano, perseguitano, violentano, ecc. Bisogna “capirli”: chissà dove sono vissuti, poverini, bisogna analizzare l’ambiente sociale d’origine, la famiglia e il comportamento dei genitori, i “traumi infantili” subiti, e via “vomitando”: alla fine, si conclude che loro sono i più innocenti, i colpevoli sono gli altri; ma questi altri, a loro volta, hanno avuto genitori, famiglie, cattive compagnie, traumi, delusioni amorose o che so io.

In definitiva, la colpa non è di nessuno, lasciamoli tutti liberi e felici, che si rieduchino sfogando i loro istinti di violenza, perversione, ammazzamento, ecc. Questa, diciamocelo fuori dai denti una buona volta, è la mentalità di sinistra (non comunista!) nata e cresciuta con il “mitico sessantotto”, con l’ulteriore, e ben più grave, degenerazione totale del settantasette e dei vari “movimenti” nati a getto continuo anche assai più di recente. Tuttavia, non lasciamoci deviare dal disgusto per questi debosciati, che si fingono eredi del comunisti (quelli “etici”, però, perché quelli delle “strutture” avevano tanti difetti, non però quello di stare subendo questo autentico “rammollimento cerebrale”).

 

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I più “furbi” hanno scoperto che, in realtà, il degrado dell’intera civiltà “occidentale” è causato dal consumismo, da uno stile di vita amante del “superfluo”, di tutto ciò che è materiale (e segno tangibile di una presunta superiorità solo esteriore), mentre si disprezza lo spirituale che, chissà perché, si conseguirebbe meglio nella frugalità, nell’ascetismo, nel rigore morale; dove la frugalità è predicata agli altri ma non praticata, e il rigore morale è quello dei preti nei sermoni della Messa domenicale.

E’ del tutto evidente, salvo che agli adoratori della “spontanea semplicità” delle masse popolari (fonte di ogni virtù), che – purtroppo! – il ceto degli intellettuali, schierato a maggioranza con i dominanti, è importante per la cosiddetta egemonia, cioè per forgiare l’“opinione pubblica” o, se non si riesce in tale intento, per disorientarla allora, impedendo l’adeguata diffusione di idee contrastanti con la riproduzione di specifici rapporti di predominio. D’altra parte, il ceto intellettuale è diviso tra le due ideologie dei dominanti capitalistici: il puro liberismo mercatista e lo statalismo assistenziale, nobilitato con l’etichetta di keynesismo. Ora prevale l’uno (per alcuni decenni nel dopoguerra) ora l’altro (dagli anni ’80 del secolo scorso); adesso la situazione è più incerta. Non è però solo questa la divisione tra fazioni diverse del ceto intellettuale. Ancora più insidiosa è quella tra chi predica le bellezze di uno sviluppo “in generale” e chi mette in guardia contro la catastrofe imminente se si persegue quest’ultimo.

Perché è insidiosa? Per quale motivo entrambe le fazioni, che si accapigliano fra loro con toni quasi sempre “sopra le righe”, fanno il gioco dei dominanti? Perché si incontrano su un punto comune: il consumismo. Questo è visto come positivo da alcuni settori intellettuali, è considerato fonte di emancipazione per grandi masse che ne erano escluse: in Italia fino agli anni tra ’50 e ’60, mentre in altri paesi vi sono date diverse e in alcuni, tipo Cina e India con oltre un terzo della popolazione mondiale, si comincia adesso. Altri settori intellettuali, al contrario, pensano si tratti di una profonda degenerazione della cultura, della morale, dello “spirito di altri tempi”. Filo e anticonsumisti sono piuttosto bipartisan, anche se spesso i primi sono considerati di destra e i secondi di sinistra. In effetti, l’anticonsumismo è più diffuso a sinistra; ma ci sono alcuni nomi di rilievo (inutile farli, tutti più o meno li conoscono) che convergono nella stessa direzione in nome della tradizione, della (antica) cultura dei nostri padri, ecc.

E’ quindi abbastanza comprensibile che, negli ultimi anni, larghi strati popolari a più basso reddito siano slittati a destra assieme a strati benestanti del lavoro autonomo (delle “partite Iva”), forse spesso di livello culturale abbastanza scadente, che fanno però lavori duri, e sentono messa oggi in pericolo la passata agiatezza da una fase di stagnazione, con grosse difficoltà di crescita ulteriore. Sensibili all’anticonsumismo sono invece soprattutto quelli che un tempo chiamavamo “piccolo-borghesi”, quelli però degli strati semiacculturati (tipici gli insegnanti, ma non solo), una parte dei quali, penso abbastanza consistente, svolge lavori meno duri (comunque non manuali) inseriti nella sfera pubblica o almeno alimentati da quest’ultima.

In ogni caso, credo che nell’attuale fase storica si sia prodotto uno iato profondo fra ceto intellettuale e massa della popolazione; non credo si possa oggi parlare di vera egemonia nella società da parte dei gruppi dominanti tramite, appunto, gli strati intellettuali (spesso così definibili in senso assai lato). Questi ultimi, più che a forgiare in senso proprio un’opinione pubblica, servono a disorientare, diffondere timori, creare insicurezza, predicare il più bieco relativismo (non nutrito di problematicità e riflessione profonda, bensì intessuto di vuoto chiacchiericcio o di confusi e insensati battibecchi). L’importante è sviare l’attenzione delle maggioranze affinché non si pongano i problemi decisivi della fase o epoca. Esclusa la possibilità che le grandi maggioranze della popolazione nutrano una vera ammirazione nei confronti di gruppi dominanti non più in grado di nascondere la propria meschinità – e l’incapacità di essere dirigenti e non solo dominanti – diventa fondamentale creare dei falsi obiettivi, conditi di terrori e incertezza del futuro (soprattutto “dei nostri figli”). A ciò serve sia la “lotta al terrorismo” (obiettivo non a caso posto come centrale dai predominanti “imperiali”) sia quella per salvaguardare l’ambiente, per affermare vari tipi di “libertà” (impossibile farne qui l’elencazione), ecc. Resta invece affidato alle religioni, ai loro corpi sacerdotali, l’affermazione, in positivo, di valori, di ideali, di “grandi temi”, ecc.

 

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Mi sembra ovvio che si debba cambiare strada. Chi ha nutrito in passato – pur se non in ambito religioso – valori, ideali, grandi temi, deve ripensare quel percorso, indubbiamente insabbiatosi. Ripensarlo per riproporlo con assai poche varianti, come fanno con caparbietà piccole minoranze – in ciò imitando il dogmatismo religioso, ma senza poter gettare sul tavolo la “carta vincente”: la salvezza dell’anima, un’altra vita (per di più eterna), ecc. – è perdente e ormai irritante per la sua assoluta stupidità. Un tale disse che è meglio avere a che fare con mascalzoni piuttosto che con deficienti, perché i primi ogni tanto si riposano. E’ vero; proprio per questo è meglio interagire con gli ideologi (quelli di rilievo) dei gruppi predominanti, anche con quelli apertamente reazionari, piuttosto che con certi settori “progressisti” che sono nemici del progresso “materiale” perché contrasta con quello “spirituale”.

Bisogna criticare ad ampio raggio e senza remissione l’intero arco della problematica relativa al consumismo; sia che si abbia a che fare con i filo che con gli anti. Del resto, tale impostazione non è altro che l’estensione ai più rilevanti temi sociali di quella neoclassica in economia. Il nodo essenziale non è certo quello della “superfluità” o meno dei beni, il che implica la scolastica distinzione dei bisogni in primari e secondari (e di ordine ancora inferiore). Già Marx aveva chiarito che perfino un bisogno ultraprimario, come quello dell’alimentazione, può essere soddisfatto in modi diversissimi, che esprimono differenti livelli di sviluppo; e non solo “materiali” ma anche eminentemente culturali. Ed esprimono evidentemente anche la divisione della società in tanti strati con svariati livelli di ricchezza, che non corrispondono perfettamente, ma certo hanno una qualche correlazione con i diversi gradi di potere (fino a quello predominante) di questi strati.

Innanzitutto, è necessaria l’ammissione che i tentativi di rivoluzionare completamente la formazione sociale, fino ad eliminare ogni forma di “sfruttamento” – più concretamente, di potere e di preminenza di alcuni gruppi su altri, spesso anche di aperta sopraffazione di alcuni da parte di altri, ecc. – sono del tutto falliti. E non per tradimenti, non perché si sono applicati male principi in sé mirabili, e altre sciocchezze del genere. Sono falliti perché non si era compresa adeguatamente la dinamica (sociale e non semplicemente economica) del capitalismo, non si era minimamente capito che tale “modo di produzione” non era l’ultimo della “preistoria” delle società divise in classi contrapposte, ecc. In base ad un’analisi così imperfetta e giunta a conclusioni così parziali, quello che è accaduto non poteva non accadere: il socialismo e comunismo tentati non potevano che essere di “caserma”. Nessun libero sviluppo di ogni individuo nel rispetto di quello di ogni altro, nessun inveramento sostanziale di quello che il liberalesimo pone solo in modo formale. Perché questo era l’intendimento di Marx, non una “eguaglianza” solo basata sulla comune miseria, in cui ognuno si aggrappa invidiosamente ad ogni altro per tirarlo verso il basso, al suo proprio livello. Questa “eguaglianza” è solo causa di un regresso materiale senza affatto innescare progressi “spirituali” (anzi!).

Alcuni sciocchi sperano adesso che ciò che non potevano procurare, oggettivamente, i meccanismi di sviluppo del capitalismo (secondo le previsioni marxiane rivelatesi illusorie), lo possa ottenere, altrettanto oggettivamente, il comune timore della catastrofe ambientale; Al Gore e Soros, assieme ai vari Cipputi, creeranno una società di consumi moderati (è per questo che Al Gore chiede fino a 150.000 dollari per conferenza “ecologica”, che un nostro ingrigito sessantottardo ha ottenuto 2 milioni di euro dall’ultima finanziaria per lottare contro gli OGM?). E da questi consumi moderati nascerebbe forse una nuova eguaglianza, una attenuazione dello sfruttamento, una più democratica discussione per perseguire gli interessi generali all’intera umanità? Lasciamo perdere.

La prima condizione da porre – ora che l’epoca della lotta per un presunto comunismo è finita, ora che si deve ripartire da zero in fatto di possibilità di creare la “società dell’eguaglianza” – è che non ci sia proprio alcuna rinuncia al progresso “materiale” in nome di quello “spirituale”. Tale rinuncia viene chiesta dai dominanti “occidentali” per impedire agli altri (ad esempio, Russia, Cina e India) di raggiungere livelli (materialissimi) di vita paragonabili a quelli dei paesi di più antico sviluppo capitalistico, livelli che rappresentano la base sociale necessaria per conseguire e stabilizzare (obiettivo non centrato dall’Urss e dalla Cina di un tempo) non il solo sviluppo, ma anche la potenza indispensabile a porsi in effettiva competizione nei confronti degli Usa. Simili richieste sono proprio foriere dei massimi contrasti e della massima inimicizia tra popoli. Indubbiamente, l’internazionalismo proletario è stata una grande favola (che ha avuto la sua funzione, ma non quella che si dichiarava). Vogliamo però adesso sostituirlo con l’antagonismo puro e semplice tra strati popolari di diversi paesi? O pretendiamo invece che, “altruisticamente”, questi strati dei paesi a capitalismo avanzato accettino di ridurre il loro benessere (raggiunto più che faticosamente tramite lotte, redistributive certo, ma durissime e piene di sacrifici e anche morti) per lasciare un po’ di posto ai popoli in crescita?

A parte l’illusorietà di simile programma, che condurrebbe tutti in una spirale negativa, puntare all’altruismo è il modo migliore per essere (giustamente) spazzati via (e magari non solo dal Parlamento, questa volta). C’è già abbastanza decrescita, o almeno stagnazione, a causa di una particolare configurazione (d’epoca) dei rapporti di forza geopolitici; dobbiamo, in linea di principio (poiché non è affatto vero che “volere è potere”, semmai è il contrario), porre la crescita come programma; non c’è scioglimento dei ghiacciai o effetto serra che tenga, per suggerire un suicidio politico. Dopo di che, si pone la domanda: ci va bene ogni crescita? No, per nulla; ma questo non significa voler “qualificare” la crescita nei termini della sua mera sostenibilità ambientale. Chi pone così il problema è proprio un fautore della “nefasta teoria dello sviluppo delle forze produttive”. I comunisti (ortodossi) di un tempo, i piciisti, la sostenevano poiché con essa veicolavano opportunisticamente nel popolo, per disarmarlo, l’inane attendismo di un oggettivo, progressivo, pacifico mutamento dei rapporti di predominio capitalistici. Oggi, gli ambientalisti, altrettanto opportunisti di quei piciisti, si oppongono allo sviluppo con gli stessi fini: mantenimento degli attuali rapporti di forza e di predominio; non più soltanto “tra classi”, bensì pure tra formazioni sociali, tra paesi. Essi si battono, subdolamente, surrettiziamente, per la continuazione della predominanza “imperiale” statunitense.

Essere contro gli ambientalisti non significa quindi né essere innamorati dello sviluppo in sé né desiderare il degrado ambientale, la devastazione del pianeta; significa soltanto la ripresa della vecchia lotta contro gli opportunisti che si fingevano per il popolo e lo volevano in realtà debilitare onde protrarre all’infinito il (pre)potere dei dominanti. Tanti sono gli “amici del popolo” che, in ogni epoca, provano questo spregevole giochetto, che riesce oggi solo per l’enorme appoggio che ha da parte dei giornali, editoria, film, TV ecc. finanziati dai dominanti con fiumi di denaro. Tanto più i dominanti sono screditati e incapaci di autentica egemonia (come accade oggi), tanto più essi pagano il ceto intellettuale per essere “anticonformista”, per essere “contro di loro”; ma un contro in grado di deviare l’attenzione degli strati popolari, di incutere loro timori e insicurezza, tutto ciò che possa servire a non capire i rapporti di forza oggi esistenti proprio in sede globale.

Caduta la prospettiva socialistica, rivelatasi inesistente l’oggettiva tendenza del capitalismo a sollevare, all’unisono, contro di sé i suoi affossatori, bisogna per forza ripartire dai contrasti, che si vanno acuendo, esistenti tra i dominanti. Questi contrasti sono però particolarmente evidenti sul piano internazionale, sono cioè soprattutto urti tra formazioni particolari nell’ambito di quella globale o mondiale; certamente, però, sussistono anche all’interno di ognuna delle particolari. Non esiste il semplice – e in fondo tranquillizzante – conflitto di classe pensato dal marxismo (tra due classi in definitiva, com’era tutto più semplice!). Esiste una molteplicità di contraddizioni che si aggrumano in due generi principali: a) tra strati sociali (in verticale quindi) entro ogni formazione particolare; b) tra gruppi dominanti in ognuna di queste formazioni, contraddizioni che sfociano però poi in una più complessa articolazione del reciproco scontro tra di esse sul piano mondiale (geopolitico).

Dobbiamo analizzare entrambi i generi del conflitto sociale, ma rendendoci più consapevoli di qual è il “capo del filo” da tirare per primo al fine di “srotolare il gomitolo”. Tutto il pensamento di questi due anni e mezzo del blog si è concentrato su questi problemi; e così continueremo contro gli opportunisti, e tirapiedi dei dominanti, che si fingono “amici del popolo” per meglio disorientarlo e condurlo in un cul de sac dopo l’altro.