GLI OPERAI NON SONO UNA CLASSE (per loro fortuna!) di G. La Grassa

Gli operai non sono una Classe. Intendo parlare delle cosiddette tute blu (alcuni dicono collari blu, ma sono tuttora attaccato alle vecchie tute); mi riferisco cioè ai lavoratori delle fabbriche industriali addetti alle mansioni meno specializzate, quelle ancora oggi piuttosto diffuse malgrado torme di intellettuali saputelli affermino che certi lavori sono spariti; che ogni lavoro, anche il più semplice, è ormai ricco di saperi e cognizioni specialistiche. Esistono invece molti lavori non qualificati; anche perché certi settori, ad es. quello dell’edilizia, pur non essendo “avanzati” sono sempre assai rilevanti per i loro contributi al Pil (direttamente o tramite l’indotto) e all’occupazione di forza lavoro (in gran parte semplice manovalanza). Del resto, anche in settori (della penultima ondata innovativa) come il metalmeccanico – e molti altri, praticamente tutti quelli industriali – è ancora ben presente la fabbrica.

Per il momento, non mi diffondo sul concetto di classe in Marx; detto in breve, si trattava dell’intero corpo lavorativo salariato, da cui la proprietà capitalistica (l’altra classe, quella dominante) estraeva il pluslavoro (in forma di valore) quale suo profitto. La classe era quella occupata nelle unità produttive (fabbriche), ma non si limitava semplicemente al gruppo (certo più numeroso) dei lavoratori manuali (comunque delle mansioni meno qualificate). Per Marx, anzi, la classe operaia sarebbe stata deputata alla rivoluzione sociale – cioè alla trasformazione del capitalismo e, con questo, di ogni possibile società fondata sullo sfruttamento del (plus)lavoro da parte dei proprietari (dei mezzi produttivi) – proprio perché egli la pensava come figura del lavoratore collettivo cooperativo, come coordinamento di tutti i lavoratori (dall’alto dirigente fino al minimo esecutore) nell’ambito delle varie unità produttive, senza che alcun membro di queste collettività di lavoratori avesse un potere speciale (e protetto dalla Legge, e dai suoi esecutori “polizieschi”) sull’insieme dei mezzi produttivi impiegati nella fabbrica.

Rivelatosi improponibile il coordinamento cooperativo dell’intero collettivo di lavoro – e trasformatasi la cellula produttiva capitalistica in impresa, dove il cosiddetto management (lasciamo stare adesso la sua interna suddivisione in agenti della razionalità strumentale e di quella strategica) si trova nettamente staccato dall’insieme dei lavoratori delle più “basse” mansioni – i marxisti, come minimo a partire da Kautsky (il che significa tutti i marxisti), hanno pensato la classe operaia come fosse la sola parte di essa addetta a tali mansioni (le sopra indicate tute blu). Sarebbe dovuto essere ovvio che una “classe” siffatta, privata delle sue mansioni più specificamente “mentali” e direttive, non aveva alcuna possibilità di sostituire la “borghesia” capitalistica, una classe sociale divenuta realmente egemone perché in grado di enucleare dal suo seno, o comunque di stabilire contatti stretti, con un dato ceto intellettuale capace di sistematizzare idee, valori, ecc. creando una ideologia (in quanto sistema di idee) che permea l’intera società e “olia” i meccanismi della riproduzione dei suoi specifici rapporti sociali.

Il 90 (e più) per cento dei dirigenti di tale classe – in realtà, lo ripeto, solo una parte di quella pensata da Marx, la parte più bassa, deprivata delle potenze mentali della produzione e, con queste, delle potenze culturali tout court – è stato non a caso di origine “borghese” (piccolo e medio soprattutto); non si trattava certo di dirigenti nutriti della cultura delle tute blu, ma semmai di quella (e anche della più alta, di maggior pregio) della classe contro cui essi si battevano con lo scopo dichiarato di seppellirla. Gli intellettuali del sedicente “proletariato” erano tutto salvo che di sentimenti, abitudini, forma mentis proletari. Quando hanno preteso di esserlo – come ad esempio nella rivoluzione culturale cinese (con i suoi sciocchi imitatori “sessantotteschi” qui da noi) – hanno solo saputo distruggere le più alte opere di cultura, senza crearne una sola che meritasse di essere salvata e ricordata (quando penso all’Oriente è rosso, che era ancora la “cosa meno oscena”, mi viene la pelle d’oca).

 

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Gli operai (le vecchie tute blu) sono un ceto sociale, o forse un insieme di più ceti, nient’affatto in sparizione, ma certamente in riduzione sia assoluta che relativa (percentuale). Essi sono – giustamente, del tutto giustamente – interessati a godere di un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che, negli ultimi anni e in particolare nel nostro paese, non sono gran che floride. Non pensano affatto alla rivoluzione, al comunismo. Hanno salari il cui potere d’acquisto non cresce più da anni, si trovano in almeno relativa regressione rispetto a numerosi altri gruppi e ceti sociali di cui è composta la società capitalistica odierna, anni luce lontana dalla “divisione in classi”, semplificata e rudimentale, predicata dal marxismo.

Questi operai si trovano in difficoltà, e vedono certi personaggi di rara inutilità combattersi e insultarsi per la falce e il martello e altri simboli di altrettale modernità. E questo è ancora nulla di fronte a quelli che predicano loro il “politicamente corretto”: un miscuglio di mentalità radicaloide e di cattolicesimo buonista, che difende tutti i “diversi” fissandoli però nella loro diversità invece di integrarli nella società. Si tratta quindi di una difesa razzistica e reazionaria, che semplicemente vuol proteggere la diversità (come fa il WWF con specie animali e vegetali in via di estinzione), pretendendo soltanto di farla passare per un valore positivo invece che negativo.

Gli operai sono gente molto più pratica degli insulsi di “sinistra”, permissivisti e lassisti; sono contrari allo sfruttamento non certo nel senso scientifico marxiano (estrazione di pluslavoro in forma di valore), ma semplicemente come insieme di cattive condizioni di lavoro nelle fabbriche, di lavoro precario e mal pagato, di insicurezza nel lavoro come nella vita quotidiana. Devono assistere allo spettacolo di mentecatti (se si concede loro una buona fede alquanto dubbia), che vanno sulla “Piazza Rossa” a Mosca (con il colbacco) a festeggiare qualcosa che non è più produttivo di effetti positivi per la loro vita odierna (e magari chiedono anche che una salma imbalsamata venga portata in Italia). Debbono sentirsi predicare che i loro salari e il loro lavoro sono certo importanti, ma non entusiasmanti come la battaglia per le “quote rosa”, per i Dico, per il “gay pride”, per la rappresentanza dei transessuali, ecc. Per non parlare dei Movimenti, del social Forum e altre c….te del genere. Finalmente, la non Classe ha detto un preciso “va adda’ via i ciap” a questa accolita di fasulli.

La maggior parte di questi ultimi, del resto, è costituita da intellettuali che, di fatto, “amano il popolo” esattamente come amano l’Uomo, cioè l’Umanità, ma nel suo complesso, anzi nel suo genere; guai però se da questa “Umanità” balzano in rilievo singoli individui concreti, con i loro mestieri (più o meno ricchi di saperi o invece spogli degli stessi), con le loro precise esigenze (anche di un minimo di ordine), ecc. In tal caso, infatti, gli intellettuali ringhiano perché questi individui non si sbracano per la “rivoluzione” come loro; o, per meglio dire, non amano fare quella che loro adorano, standosene al calduccio a casa propria mentre altri dovrebbero “farsi il culo” per seguire i loro “illuminati consigli”: in realtà, delle immani scemenze tipiche di chi non ha mai vissuto qualcosa di concreto.

Dire degli operai che non sono la Classe, come pretendono gli intellettuali futili di cui sopra, non è fare un’offesa a questi gruppi o ceti sociali. Tutto il contrario: essi hanno pur sempre dalla loro parte la praticità e l’ordine (anche mentale) imparati in fabbrica che, come ben sapevano coloro che si sono dedicati concretamente alla rivoluzione, hanno il loro aspetto negativo – di subordinazione e di “sfruttamento” (nel senso banale, quotidiano, del termine) – ma anche quello eminentemente positivo, per cui tali ceti, alla fine, comprendono chi li prende in giro con paroloni e chi effettivamente tiene conto delle loro esigenze di individui reali (non genericamente appartenenti alla Classe o all’Umanità e ad altre invenzioni di “filosofi” generici).

In definitiva, gli operai non sono una classe; soprattutto non sono La Classe che, emancipando se stessa dallo sfruttamento (estorsione di pluslavoro/plusvalore), avrebbe emancipato dallo stesso l’intera Umanità. Soprattutto, il ceto operaio non rappresenta il lavoratore combinato cui pensava Marx; un’idea nient’affatto peregrina o balorda, né tanto meno utopistica, poiché era invece basata sull’individuazione di certe tendenze reali, o comunque realistiche nella loro possibilità, ma che non si sono storicamente realizzate. Può accadere a volte che, studiando un embrione, se ne intravedano linee di sviluppo che poi si atrofizzano.

Che, però, le sole tute blu fossero La Classe in questione, questa è stata una vera fiaba raccontata per oltre un secolo. Tuttavia le fiabe, se lette nell’età dell’infanzia, sono molto positive, stimolano l’immaginazione e la fantasia, divenendo spesso fonte di creatività nell’individuo adulto; guai se però quest’ultimo non vuole crescere, e cristallizza le idee assorbite da piccolo udendo raccontare le fiabe. Allora, si rischia di diventare pigri e indolenti: nel migliore dei casi come un Oblomov, grande personaggio letterario, ma che non prenderei in considerazione quale esempio di fattiva e concreta prassi politica. Gli intellettuali che parlano ancora di Classe – dimenticando fra l’altro l’effettiva concezione di Marx a tal proposito – rischiano di apparire “bambini invecchiati”, una figura che è ridicola o almeno, quando la si voglia considerare con grande benevolenza, patetica. Si legga, e ci si commuova, alla lettura del grande romanzo di Ivan Goncărov, ma si ricordino sempre le sferzate di Lenin contro l’oblomovismo quale caratteristica negativa dell’“animo” russo, incapace di scrollarsi di dosso la passiva attesa di eventi solo fantasticati e sognati in un perpetuo dormiveglia; gli attardati “marxisti” odierni sono gli eredi di quello “spirito”.

Non c’è La Classe, ci si svegli! Bastano (e avanzano) gli operai reali, non rivoluzionari ma assai pratici e che si muovono per obiettivi del tutto concreti. Per la trasformazione radicale dell’esistente occorrono invece condizioni obiettive particolari e un nuovo pensiero dell’età adulta (e forse, perché no, anche un po’ disincantata).