“LA CRISI ITALIANA” DEGLI ANNI ’70:

LE ALLEANZE DEL PCI CON  I  “PRODUTTORI” di G. Duchini

 

    Mi capita talvolta di rovistare tra i vecchi libri, alla ricerca di una memoria collettiva perduta. Il mio passato di ricordi nel Pci, di fine anni ’60, non mi abbandona; questa volta incappo casualmente in un piccolo testo pubblicato nel ’71 da Giorgio Amendola intitolato “La crisi Italiana.”

La sua lettura è illuminante: una luce accesa su una soffitta mentale, dove, di volta in volta, si riconoscono gli “oggetti storici,” quelli delle contese politiche italiane di un lontano periodo, con un loro  epilogo successivo,  durato tutta una fase storica fino alla caduta del muro di Berlino del 1989. L’analisi  del testo comprendeva un  periodo della storia italiana, a ridosso della fine degli anni ’60, che costituiva uno spartiacque tra un dopoguerra glorioso di  lotte e di speranze collettive riposte nel “un mondo Socialista” ed un declinante e melanconico periodo successivo di perdita di memoria e di aspettative. 

Vorrei però a questo proposito aggiungere una breve considerazione che può rappresentare una cornice storica, entro cui definire una tipicità e/o specificità italiana, da intendersi come momento di “Crisi” (e così doveva essere rappresentata nella storiografia economica-politica ufficiale); una specificità che si voleva fosse appartenuta ad una genesi primordiale, un “dna”  da decriptare nelle sue concatenazioni storiche; in realtà è sempre mancata un’analisi di ricerca teorica differenziata del capitalismo nostrano, oggi si direbbe  “geopolitica”, anche se quest’ultima potrebbe risultare riduttiva se non integrata in un’analisi a tutto campo, un po’ come il richiamo fatto  da G. La Grassa nel suo saggio “Il generale e lo specifico.”

      Partendo  dall’immediato dopoguerra possiamo ricostruire sommariamente  il significato storico di una spartizione geografica tra i paesi vincitori, delineando in tale contesto,  due sistemi contrapposti ed espressi in formazioni economico-sociali diverse (Usa-Urss). Tale contrapposizione rappresentava due mondi distanti eppure, per certi, aspetti dialoganti  ideologicamente; mi riferisco, in particolare, ai partiti comunisti occidentali ideologicamente in lotta contro i sistemi economici occidentali ma “economicamente” comunicanti (per esempio il Pci nel sistema delle imprese della “Lega delle Cooperative”); nelle pieghe  storiche di questa   contrapposizione, si sovrapposero, trovando una loro collocazione funzionale al sistema di appartenenza, i partiti comunisti occidentali ed in particolare il Pci, che dalla contrapposizione iniziale al sistema allora vigente (capitalismo anni ’50) si caratterizzò sempre più come “quinta colonna” dei processi fondamentali e strutturali del cambiamento e della trasformazione del capitalismo italiano.  

   Questa torsione della storia comunista assecondò il mutamento che maturò nel confronto tra i due sistemi Usa (liberista) e l’ Urss (Socialista), dove l’oggetto del contendere si nascondeva dietro l’ideologico quesito fondamentale: quale organizzazione sociale  fosse quella migliore, in virtù di una  più “equa e solidale” distribuzione di risorse e di redditi tra le classi sociali? Ma la domanda vera era un’altra: quale sistema avrebbe prevalso?

In pratica, il compito primario posto, dalle grandi potenze (Usa e Urss),  verteva essenzialmente su come mantenere i propri blocchi imperiali con possibilità di allargare il proprio raggio di dominio attraverso le guerre (vedi Usa, nei confronti del Vietnam, Cambogia, Laos ), e con esse come sviluppare intense campagne ideologiche onde esportare la propria democrazia, cioè il proprio modello economico sociale nel mondo. Su questa concorrenza Est-Ovest, i partiti comunisti occidentali trovarono linfa vitale alla propria sopravvivenza ideologica, che nell’immediato secondo dopoguerra del secolo scorso  alimentò un immaginario collettivo – ed in particolare in quello italiano grazie alle innumerevoli pubblicazioni comuniste (dall’Unità a Rinascita, a Vie Nuove, ..) – nell’idea di un superamento delle economie del campo socialista all’inizio degli anni ’60; ciò, ovviamente, non avvenne, anzi la tendenza di quegli anni lasciava presagire l’esatto contrario, nonostante le imprese gloriose dei primi “Sputnik” spaziali, targate Urss.

    Parallelamente a questo mancato superamento della potenza economica del “Socialismo Reale” su quella Usa, non si allentò la presa ideologica-politica sul mondo occidentale da parte del mondo politico comunista, che si sviluppò in una storia di politica nazionale  (pcìismo in Italia),  in ragione di una specificità  del nostro capitalismo dotato di una certa autonomia nazionale, sopratutto industriale, nonché di attività fortemente competitive  nei mercati internazionali,  grazie al sostegno finanziario-bancario. La perdita di gran parte di quel quadro dirigente e politico (le morti di Togliatti e Mattei) anticipò il lento ma inesorabile ridimensionamento industriale-nazionale (con l’ingresso massiccio di capitali finanziari a prevalenza Usa), determinando la chiusura di un’intera una fase storica, con conseguente profonda trasformazione della formazione economica-sociale nazionale.  

       Nello stesso periodo dei primi anni sessanta, le prime esperienze dei governi di “Centro-Sinistra” si fecero carico di finalità che andavano ben oltre la loro colorazione politica;  iniziarono  cambiamenti non solo ideologici, con segni premonitori dei processi più profondi nel capitalismo, dove il Finanziario (Usa) rappresentò l’aspetto trainante di quella trasformazione economica-sociale, con la svolta decisiva nel periodo che va dall’inizio degli anni ’90 ai giorni nostri, successivamente cioè all’implosione dell’Urss (caduta del muro di Berlino del 1989) e di “Mani pulite”(1992).

    Questa premessa, lunga e sintetica al contempo, può rappresentare un punto di vista di un’analisi da assumere per la spiegazione di quegli avvenimenti, concatenati l’uno all’altro secondo un filo conduttore che indirizzava i partiti comunisti (compreso il gruppo dirigente del PCI), dagli anni ’60 in poi. Vigeva nei confronti dei partiti comunisti occidentali una sorta di tutela (controllo) velata e non scritta, che non poteva non trovare sbocchi politici diversi da quelli poi concretatisi: con la trasformazione dei comunisti da osservatori critici a soggetti agenti per lo sviluppo del sistema; su quest’ultimo punto, si inserisce una chiava di lettura particolare, quella del Pci, che aderisce in toto allo sviluppo delle forze produttive, in chiara contrapposizione al “rivoluzionamento dei rapporti produttivi” del Pc cinese (rivoluzione culturale degli anni ’60), notoriamente contrapposto a quello sovietico.

     La relazione di Amendola su come uscire dalla “crisi” fu tenuta a ridosso della  scissione del gruppo del Manifesto (1969) che assieme ad altri gruppi politici extraparlamentari si allinearono sulla stessa lunghezza d’onda del Pc cinese. Per questo Amendola venne considerato appartenente all’ala più filosovietica (del Pci) in quanto aderente alle tematiche dello sviluppo delle forze produttive. La relazione sulla crisi fu, per l’appunto, un rilancio dello sviluppo capitalistico italiano da realizzarsi, come forza politica, con nuove e più qualificate  alleanze strategiche in vista di un ingresso, a pieno titolo, nei gangli vitali dei processi dello sviluppo capitalistico italiano, caratterizzato dalla forma del Capitalismo di Stato (con l’apertura politica del Pci chiamata “Compromesso Storico,” 1972-73)

       Secondo Amendola, la linea di espansione monopolistica del Capitalismo Italiano, iniziata negli anni ’50 ed ostinatamente perseguita negli anni ’60 dai governi di centro-sinistra, entra in crisi nonostante il boom economico. Tale tipo di espansione aggrava le contraddizioni tra le due Italie (Nord-Sud) e si dimostra “incapace di utilizzare tutte le risorse produttive del paese, e di assicurare una piena espansione produttiva. Quindi esportazione dei capitali, esportazione degli uomini, disoccupazione…” Tali difficoltà possono essere rimosse soltanto attraverso un determinato sviluppo delle lotte politiche e sociali, nelle quali “la classe operaia sappia realizzare solide e vaste alleanze coi ceti medi delle campagne e delle città. Il centro dello scontro è nelle fabbriche.” Un analisi dello scontro, visto da Amendola (e Pci) centrato sulla classe operaia (salario) e, attraverso essa, sulla creazione di un sistema di alleanze sociali in funzione antimonopolistica; una nuova politica economica da realizzare con le “Riforme di Struttura” o di Programmazione (economica) che, eliminando gli ostacoli opposti allo sviluppo economico,  “rendesse possibile l’utilizzazione di tutte le risorse produttive del paese, al fine di assicurare una piena occupazione, arrestare l’emigrazione, elevare le condizioni di vita delle masse lavoratrici, essenzialmente attraverso un forte incremento dei consumi sociali..” Questa funzione antimonopolistica del Pci nasce da una crisi della piccola e media industria italiana in totale dissesto, in seguito al fallimento della politica di industrializzazione basata sugli incentivi che avevano tenuto in vita per un certo periodo (’69-70, anni  delle grandi lotte operaie “dell’autunno caldo) le piccole imprese e con esse centinaia di migliaia di operai; il venir meno degli incentivi con la stretta creditizia, non consente più a quelle imprese di resistere. Il compito precipuo del Pci (messo in evidenza da Amendola) dovrebbe essere quello di riorganizzare interi settori della produzione industriale entro il quadro di una politica di programmazione, senza far pagare agli operai la crisi in atto. Da qui, l’ alleanza con i produttori, con il riconoscimento dato a questi ceti produttivi (piccola e media impresa) di essere la forza motrice della rivoluzione, accanto alla classe operaia ed ai contadini.

    Il sistema di alleanze antimonopolistiche proposto da Amendola, e recepito poi in pieno da tutto il Pci, aveva come obbiettivo il Socialismo: uno schieramento antimonopolistico per fare “avanzare nella democrazia verso il socialismo”. Una necessità storica derivata da una maggiore espansione monopolistica, caratterizzata da grandi concentrazioni finanziarie ed industriali (pubbliche e private), e favorita dai governi di centro-sinistra; serviva, a questo proposito, una forte inversione di tendenza da realizzare attraverso un nuovo sistema di alleanze della classe operaia con i ceti produttivi.

    La storia ha seguito ben altri percorsi portandosi via un’interpretazione del marxismo e del capitalismo durata un secolo. Le versioni teoriche dell’epoca che avevano, a loro dire, individuato le contraddizioni principali (lotta tra Capitale e Lavoro e tendenza irreversibile alla centralizzazione dei capitali), hanno segnato il passo di fronte alla capacità del sistema di autoriformarsi e di uscire rafforzato dai suoi momenti di crisi.  Non era certo con  le lotte operaie che si poteva controllare  il Monopolio (sia esso Finanziario o Industriale) per realizzare la “socializzazione delle forze Produttive”. Per altro, il Pci aveva scelto una trasposizione casereccia di tali teorie, sostanziantesi nelle suindicate alleanze con i produttori, nelle “Riforme di Struttura” e/o nella “Programmazione Democratica.”

  

 

G.D.    giugno ‘08