LA "CLASSE" E' ACQUA di G.P.
[…] Ma c’è più da tornare ad un’altra pazienza.
Alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto di oltrepassare[…]
F. Fortini, Pazienza,1958
Vorrei tornare brevemente sugli ultimi scritti di La Grassa apparsi sul blog (il riferimento cade, soprattutto, su “Gli operai non sono una classe”) che hanno scatenato le solite accuse di “parricidio” da parte dei molti ministri del culto marxologico, i quali continuano a confondere le categorie teorico-scientifiche di cui Marx si è servito per indagare il “modo di funzionare” del capitalismo con la posteriore istituzionalizzazione del suo pensiero (da parte dei suoi interpreti successivi, ai quali va il merito di aver contribuito alla diffusione del pensiero marxista ma anche il demerito per aver accelerato la trasformazione del nucleo scientifico di detta teoria in una dottrina sclerotizzata). Si tratta di una valutazione spietata ma realistica, ben analizzata dal filosofo torinese Costanzo Preve. Quest’ultimo individua, con precisione, la ragione di tale torsione ideologica, avvenuta dopo la morte di Marx, nella committenza politica e sociale della classe operaia tedesca “organizzata in un partito ed in sindacati professionali”, la quale ha premuto nella direzione di un supporto concettuale che legittimasse le sue lotte immediate e le nuove funzioni svolte dalle organizzazioni del proletariato in quella fase storica.[1]
A qualcuno sarà sembrato un reato inammissibile quello di contestare la validità di una parola fortemente evocativa come “Classe”, nonostante sia ormai palese la sua inutilità (almeno nell’accezione classica) ai fini dell’orientamento nella realtà dei tempi che viviamo. C’è che si scandalizza, appunto, e c’è chi, invece, già a metà degli anni ’80, profetizzava: “Non mi pare improbabile che le parole “rivoluzione”, “proletariato”, “lotta di classe” e altre spariscano dal nostro vocabolario”[2].
E la parola comunismo? Marx nel Capitale, la sua opera più importante, la utilizza solo una o due volte al massimo, proprio perché non è sua preoccupazione quella di offrire improbabili ricette per le osterie del futuro, quanto di cimentarsi nell’indagine della dinamica capitalistica, verso il disvelamento della quale a poco servivano le prescrizioni utopiche e moralistiche sull’avvenire. Se poi ci si volge al cosiddetto soggetto intermodale che avrebbe garantito il passaggio da una formazione economica all’altra, non vi erano dubbi per costui: esso doveva nascere dalle viscere del processo produttivo capitalistico nell’alleanza “dei produttori effettivi… dal dirigente fino all’ultimo giornaliero”[3].
Qui il discorso si riversa nell’ambito dell’irriducibile dualismo tra forze produttive, in continua tensione ed espansione, e rapporti di produzione – protetti da un involto giuridico (la proprietà dei mezzi di produzione) sanzionati politicamente (l’ordine statale a difesa di tale proprietà) e riconosciuti socialmente (le idee dominanti di un’epoca sono quelle delle classi dominanti) – che si sarebbero frantumati sotto il peso della massima socializzazione della produzione.
In sostanza, Marx non parla di classe operaia ma di General Intellect quale prodotto inevitabile di un capitalismo che è attraversato da una contraddizione insanabile tra modo della produzione (tendente ad una socializzazione sempre più accentuata) e modo dello scambio (con appropriazione privata, da parte dei pochi, del prodotto complessivo). Nel momento di più grande divaricazione tra queste dinamiche, con le classi dominanti ridotte ad un pugno di elementi parassitari dediti alla speculazione borsistica (attraverso una sempre più odiosa appropriazione privata del plusprodotto sociale) le classi subalterne, ormai padrone dei processi produttivi, non avrebbero avuto difficoltà ad abbattere le prime (addirittura per via democratica). Marx era così convinto della irreversibilità della situazione che in una lettera ad Engels (se non ricordo male degli anni ’70 dell’800) paventa la possibilità di una precipitazione improvvisa dei moti sociali che non gli avrebbe consentito di portare a termine il Capitale. Mera boutade del Nostro o reale convincimento che una rivoluzione fosse ormai imminente? Non credo proprio si trattasse di una battuta di spitito, Marx era convinto della giustezza del suo modello scientifico e della sua analisi delle contraddizioni capitalistiche che annunciavano un parto ormai maturo nelle viscere stesse della vecchia società.
In realtà, il pensiero fisso di Marx non era rivolto esclusivamente alla definizione di una teoria generale del capitalismo quanto alla sua dimensione storica determinata, quella della fase in cui l’Inghilterra (de te fabula narratur) si imponeva come formazione sociale capitalistica, indicando la via alle altre potenze europee, Germania e Francia in primis. Già questo dovrebbe far riflettere i puristi dell’ortodossia marxista. Il Maestro era sì preoccupato di indagare la legalità generale sistemica ma nell’alveo una di forma storica pienamente svelata.
Stando a queste premesse marxiane, tutte convergenti sulla presunta formazione del lavoratore collettivo cooperante, allorché il processo di unione tra tecnici e lavoratori manuali nella produzione non viene a concretarsi, gli intellettuali comunisti capiscono che occorre adoperarsi per un riorientamento dell’analisi (in realtà un mero ripiegamento) su un altro soggetto di “transizione”, la classe operaia tout court. Ma quanto quest’ultima fosse inadatta alla rivoluzione lo capisce benissimo Lenin che si inventa un gioco dialettico (il “per sé” e l’ “in sé” della classe) per accreditarsi di fronte all’ortodossia sopperendo, al contempo, alle ovvie rigidità di quest’ultima con la teoria del partito d’avanguardia che guida le masse contro le orde armate del Capitale. L’assunto dal quale Lenin parte è inequivocabile ed intriso di profondo realismo: la classe operaia lasciata a sé stessa è solo capace di esercitare un’azione tradunionistica nient’affatto sovversiva, pertanto deve essere il partito ad indicarle la giusta strada.
Ma a Lenin dobbiamo, soprattutto, l’intelligenza di aver posto al centro della strategia rivoluzionaria il discorso sulle alleanze tra classi subordinate e loro singole porzioni, differenziate, al proprio interno, per cultura, ideologia e reddito ecc. ecc.
L’analisi leniniana è tutta incentrata sulla necessità di queste alleanze (nel caso russo si trattava della famosa alleanza operai-contadini, la cosiddetta smycka) da intendersi come una “costruzione” politica di difficilissima “fattura” a causa della differenze profonde esistenti tra città e campagna (alle quali corrispondevano una “materialità” ideologica ed una visione del mondo altrettanto antipodiche).
Oggi il nostro compito dovrebbe essere finalizzato proprio a ridefinire la stratificazione sociale che non è più inquadrabile nelle vecchie categorie ottocentesche e novecentesche, al fine di penetrare e ricomporre teoricamente il flusso di rapporti sul quale si muovono questi “insiemi” differenziati che ci ostiniamo a chiamare “classi”. E ciò vale tanto in basso che in alto, poiché così come non c’è la classe operaia non c’è la classe possidente. Al più, con molta indeterminatezza e per solo tracciare a grandi linee il problema, possiamo parlare di classi dominanti e di classi subalterne, con la consapevolezza che non ci siamo mossi di molto dal punto di impasse iniziale.
Quest’azione teorica è fondamentale per esaminare la spugnosità e le solidificazioni (quelle esistenti e quelle da favorire) tra detti gruppi sociali al fine di collegare tra loro quelle forze che si percepiscono ancora come antitetiche a causa dell’azione dell’ideologia dominante che “divide per imperare”. Non è certamente una operazione facile, come non lo fu la tentata e fallita costruzione dell’alleanza operai-contadini nella Russia post-rivoluzionaria. (leggere le memorabili pagine scritte da Bettelheim nel suo “Le lotte di classe in URSS su questo tema).
Chi ritiene che queste questioni siano poste sotto forma di un attacco allo schema imperituro della scienza rivoluzionaria marxista ha totalmente ragione ed è il nostro compito in questa fase, poichè dove vi sono paradigmi dati come immutabili non v’è più scienza ma religione, e dove i predicati della realtà prendono il posto di quest’ultima non vi è più movimento della storia ma grande narrazione ideologica.