IL CREPUSCOLO DEI COMUNISTI MORENTI di G.P.

I comunisti hanno tenuto il loro congresso alle terme di Chianciano, e dove sennò, c’è forse luogo migliore per lenire i malanni della senilità e trovare sollievo dall’artrite, dai nervi che saltano, dal decadimento mentale e da tutto ciò che un corpo piagato e piegato dallo scorrere del tempo è costretto a sopportare?

I tentativi bertinottiani di rifare il trucco al decaduto comunismo storico, avranno forse spinto sempre più in alto la sua carriera istituzionale (o, anche, quella di qualche suo enfant prodige, tutto chiacchiere e distintivo proletario), ma non hanno impedito al cadavere di andare in decomposizione.

Il deficit teorico e di prospettiva politica era ormai definitivo e non si trattava più di recuperare alla lotta (come molti militanti pensavano e pensano tutt’ora), quei settori sociali tradizionalmente di sinistra che si erano spostati a destra, né di tornare sul territorio per riprendere contatto con l’uomo della strada e, tanto meno, di schierarsi al fianco dei lavoratori in carne ed ossa (dopo averne snobbato le istanze più cogenti per sostenere esotiche e suggestive, ma del tutto immaginarie perchè lontane dal nostro contesto d’azione, soggettività terzomondiste e altermondialiste pronte alla “Revolución”).

In realtà, ci si può sempre risollevare dai terremoti epocali che fanno cadere l’impalcatura categoriale della propria visione delle cose (come quella del lavoratore collettivo cooperativo associato, quale soggetto rivoluzionario che si sarebbe formato naturalmente all’interno del processo produttivo, a fronte di una proprietà sempre più parassitaria), ma non è pensabile “stare al mondo”, dopo la produzione di detti eventi sconvolgenti, senza rimettere in funzione un rinnovato meccanismo teorico, con il quale fornire categorie e concetti più adatti a cogliere i movimenti (apparenti e non apparenti) della “realtà” (da sottoporre al costante “vaglio della pratica politica”). Se questo non avviene si crea un vuoto di senso nel quale prendono posto e si affastellano detriti e sedimenti ideologici di varia natura.

Questo vuoto teorico, in RC, è stato appunto riempito facendo appello all’identitarismo della tradizione estetico-romantica di sinistra (che ricomprende tutto l’armamentario resistenziale ed antifascista), allo spirito ecumenico-cristiano (l’empatia verso gli ultimi della terra e i diseredati di ogni specificazione) e all’introiezione di elementi passivizzanti dell’ideologia dominante, benchè dialetticamente capovolti (vedi le coppie concettuali “globalizzazione-globalizzazione dal basso”, “libera circolazione delle merci-libera circolazione degli individui”, dispersione dello strato operaio-movimento dei movimenti ecc. ecc.). Su questi fattori ha lavorato Bertinotti (aiutato dai professoroni che gravitano intorno al partito e che lasciano fare, tanto, nella peggiore delle ipotesi, ci penseranno le tendenze autoimplosive del sistema a rimettere tutto a posto), con più consapevolezza di quelli che lo hanno seguito, per la liquidazione sostanziale di una tradizione (che nei suoi punti più alti ha, comunque, raggiunto obiettivi di tutto rispetto), ormai ritenuta inservibile per il compito fissato: andare ad occupare lo spazio politico liberato dal PD.

Il gruppo dirigente di RC stava spingendo sempre più sullo sfondo l’identità comunista d’antan perché suo obiettivo precipuo era quello di dare rappresentanza al ceto degli assistiti di Stato, nonché a quella parte di sindacato che di questi ceti è l’espressione, rimasto sguarnito dopo la svolta pienamente liberaldemocratica del Partito di Veltroni.

Fine più ingloriosa non ci si poteva aspettare per un partito che, negli intenti, era nato per rifondare e rifondere il comunismo.

A Chianciano, dopo aver fatto fuori tutto il precedente gruppo dirigente, sono ora saliti in cattedra (o sarebbe meglio dire sul pulpito) i puristi della classe, quelli che dopo aver addebitato (ma non senza motivo), la debacle organizzativa ed elettorale a Bertinotti e soci, tenteranno di dar seguito ad una più forte opposizione sociale al capitalismo partendo da principi già smentiti dalla storia. A questo proposito non si può non dar ragione ad un reazionario come Geminello Alvi che sbarra da subito la strada alle velleità ferreriane:

“…E dopo liti e pianti tutti se n’andranno però con una stessa presunzione: che a sinistra, evoluto com’è al centrismo il Partito democratico, ci sia uno spazio enorme per loro. E non si sarà mancato di citare gli immigrati, e dire che sono loro il futuro della sinistra dura e pura. Altro errore. Perché a sinistra a fare concorrenza a Ferrero o Vendola c’è qualcosa di più serio di Diliberto o dei no global: c’è l’Islam più integralista. Non v’è religione più livellante, e con una rete di solidarietà più minuta, decisiva per conquistare ieri Bisanzio, oggi l’Islam moderato. L’elemosina obbligata, i sistemi di mutuo soccorso sono stati un modo formidabile per aggregare le masse più umili. Né manca l’anticapitalismo: ogni crescita della ricchezza, che derivi dagli interessi, viene esecrato. L’Islam avrà, temo, tra gli immigrati ben altro successo del comunismo in caricatura di Nichi Vendola e Luxuria. In conclusione: non ci hanno capito niente, ma seguiteranno, dalemianamente, a spiegarci tutto”.

E’ precisamente questo che non hanno ancora capito Ferrero e groupuscules trotzkisti alla perenne riscossa.

Ma darei ragione anche La Grassa quando dice che questa svolta fideistica accelererà la tanto sospirata tumulazione della salma. Del resto i pastori e i preti, valdesi o cattolici che siano, servono proprio a dare l’estremo addio.