LA DOMENICA DELLE SALME di G.P.

 

Il governo americano non vedeva altre alternative al salvataggio diretto delle due agenzie di rifinanziamento ipotecario Fannie Mae e Freddie Mac, del resto si trattava di proteggere il proprio sistema finanziario dagli eccessi dei suoi stessi capitalisti agenti in tale sfera.

La finanza, in un sistema di tipo capitalistico, è una impresa come un’altra che opera però con strumenti particolari. Il suo compito è appunto quello di produrre sempre più denaro (il suo prodotto specifico) attraverso i movimenti speculativi (il suo processo produttivo), moltiplicando, come in un gioco di specchi riflettenti, le immagini che le merci si restituiscono tra loro. Questa è la sua “attività” principale che può anche perdere la bussola ed andare al di là degli interessi generali di sistema.

Così ci si sono messi in tre (Henry Paulson, segretario del Tesoro americano, Ben Bernake presidente della Fed e James Lockhart responsabile della Federal Housing Finance Agency) per avvallare un’azione risanatoria con la quale, grazie ad un investimento del Tesoro (pari a circa 100 mld di dollari), si dovrebbero rimettere le cose al loro posto ed in breve tempo, almeno secondo i piani americani.

L’altra possibilità, sempre invocata dai puristi del liberismo e mai presa realmente in considerazione dall’establishment politico statunitense (data la “missione sistemica” delle due agenzie) era quella di sottomettersi alle leggi imperiture del mercato, ma col rischio di far crollare l’intera impalcatura finanziaria del Paese. Solo i nostri stolti e prezzolati analisti (sempre pronti a piegarsi alle infauste teorie delle scuole d’oltre atlantico, dove magari si recano a studiare) potevano credere ad un harakiri della potenza predominante, la quale si sarebbe immolata come un agnello sacrificale sull’altare dei principi inviolabili del laissez faire. Questi valgono sempre come eccezione quando si ha la potenza per governarli, proprio nella stessa misura in cui si subiscono come regola quando, invece, si è troppo deboli per prendere l’iniziativa.

L’ennesimo intervento dello Stato americano in economia, come il precedente per salvare la Bear Starns, sta facendo gridare allo scandalo i fautori del libero mercato, i quali vedono come un sacrilegio l’invasività degli organismi pubblici nella sfera privata, anche laddove certe azioni hanno l’obiettivo contingente di porre un limite alla mancanza di “misura” che vige nel regno delle merci. Quest’ultimi apostoli incoscienti sono talmente ammaliati dalla loro stessa ideologia che credono realmente all’azione di una mano invisibile, pronta a rimettere le cose in ordine quando il mercato si squilibra in qualche punto.

Se da questi uomini (che ricoprono delle funzioni e che sono maschere di rapporti sociali) dipendesse la riproducibilità dei rapporti capitalistici tout court, possiamo stare sicuri che il capitalismo, come formazione sociale generale, sarebbe già morto e forse mai nato.

Purtroppo per noi, e per tutti quei marxisti che vedono dietro le cicliche crisi finanziarie la fine imminente dell’economia di mercato, la questione è molto più complicata. D’altro canto, occorre non enfatizzare mai troppo tali interventi regolatori dello Stato che hanno solo lo scopo di ristabilire temporaneamente, non un equilibrio, ma una maggiore tangenza tra sfera produttiva e sfera finanziaria, con quest’ultima che in breve tempo tornerà nuovamente a distaccarsi dalla prima per un "istinto primordiale” che è del tutto funzionale alle dinamiche strutturali del capitalismo stesso. Inoltre, si deve accuratamente evitare di riprodurre l’errore opposto per cui l’azione dello Stato sarebbe rivolta a garantire il miglior contemperamento degli interessi in gioco, per finalità collettive. In verità, quando lo Stato assume l’iniziativa è per ristabilire una certa priorità (sotto forma d’interesse generale) che può sfuggire di vista a causa dell’autonomia relativa di ciscuna sfera sociale, in particolare di quella finanziaria, essendo questa attraversata, come le altre, da un campo di forze che orienta l’azione dei gruppi e degli individui alla soddisfazione dei loro interessi immediati. Poiché quest’ultimi possono non coincidere con quelli detti complessivi (in realtà sempre parziali, poiché legati agli interessi degli agenti strategici che operano in altre sfere del conflitto), tanto da indebolire la formazione particolare nella quale si trovano ad agire, sarà la funzione strategica esercitata dagli agenti politici a riportare il tutto ad una maggiore uniformità.

La riproduzione sistemica generale, attraverso lo sviluppo e l’allargamento dei rapporti a dominanza, avviene, all’interno delle diverse sfere sociali, (politica, finanziaria e ideologico-culturale) con caratteristiche differenti la cui eccessiva divaricazione può comportare dispersione delle forze.  

In quest’ottica deve essere considerato qualsiasi intervento correttivo da parte degli agenti che occupano la sfera politica (quelli che hanno una visione d’insieme del mondo nel quale si muovono), i quali cercano di coordinare e di concentrare il flusso conflittuale all’interno della loro formazione particolare, per ampliarne la capacità d’azione, dentro e fuori il proprio contesto nazionale di riferimento. Vista sotto questo aspetto, la logica del capitale non alimenta illusioni da autoconsunzione ed, anzi, i motivi di debolezza da sempre sottolineati dai catastrofisti di ogni risma diventano il sintomo più evidente del suo dinamismo intrinseco.