PER FAVORE CONSUMATE DI PIU'

Vi proponiamo un articolo apparso su Il Giornale di ieri, a firma dell’Economista americano Arthur C. Brooks. Condividiamo solo parte dell’impostazione dell’autore, poichè, secondo noi, non è stimolando la domanda (e dunque i consumi) che si genera maggiore prosperità in un qualsiasi sistema-paese, laddove abbiamo più volte ripetuto che sono soprattutto le politiche dell’offerta, attraverso la creazione di nuovi output (quelli delle terza rivoluzione industriale), a favorire uno sviluppo duraturo. Ciononostante, Brooks mette ben in evidenza quanto l’ipocrisia del “vivere semplicemente” sia solo una sciocchezza da intellettuali che godono di tutte le comodità possibili, al calduccio delle società occidentali, predicando agli altri la frugalità che non applicano a sè stessi. E’, invece, con la crescita e con lo sviluppo economico, anche a costo di qualche esternalità negativa, che paesi come la Cina o l’India sono riusciti a garantire un tenore ed un’aspettativa di vita più alti ai propri cittadini.

Certo, anche il gap tra ricchi e poveri è destinato ad approfondirsi (è il capitalismo baby!) ma almeno la gente comincia a non morire più di inedia.

 

PER FAVORE CONSUMATE DI PIU’

di Arthur C. Brooks

Arthur C. Brooks, docente di Economia e politiche governative alla Syracuse University, è il rappresentante della nuova destra Usa. Una destra ottimista e moderata, che pone al centro l’uomo. Dal 1˚ gennaio 2009 presiederà l’American Enterprise Institute, il centro considerato la roccaforte dei neoconservatori.

Come insegnava Gandhi, dobbiamo «vivere semplicemente, perché altri possano semplicemente vivere». Invocata da frustrati progressisti occidentali, la frase è diventata – attraverso i decenni – una sorta di morale da slogan adesivo. Recentemente, ha visto un’ondata di popolarità nel mondo accademico da me frequentato, fra coloro che nutrono una visione particolarmente utopistica di un’era futura.

Malgrado l’irritante ipocrisia nascosta nella panacea del «vivere semplicemente», sembra che questo pensiero sia utile e degno di essere ricordato. Se noi tutti consumassimo di meno e traessimo più diletto dalle cose non materiali, lasceremmo più beni agli altri, specialmente a coloro che, nel mondo, possiedono molto poco. Giusto?

Del tutto sbagliato. Anzi – in realtà – uno dei malintesi più pericolosi del nostro tempo, basato sulla visione distorta del fatto che viviamo in un gioco mondiale a somma zero, nel quale, se io possiedo di più, significa che qualcuno, da qualche parte, deve possedere di meno.
Certo, la nostra vita non è semplice. Consumiamo un complicato assortimento di prodotti presi da ogni parte del globo, dal computer di fabbricazione cinese sul quale sto scrivendo questo pezzo, alla maglietta del Guatemala che molti indossano. Questo fatto, che è causa di grande dispiacere per i sostenitori della semplicità, rappresenta in realtà, per molta gente in tutto il mondo, una via di salvezza dalla brutale povertà.

Prendete la Cina, che solo nel 1990 aveva un PIL pro capite inferiore a 400 $ e dove 38 bambini su 1000 morivano prima di raggiungere un anno di età. Da allora al 2006, il reddito medio è più che triplicato, e la mortalità infantile è scesa al 23 per mille. Secondo la Banca Mondiale, la Cina da sola ha inciso per oltre il 75% sulla riduzione di povertà in tutti i Paesi in via di sviluppo. Lo ha fatto in larga misura attraverso il complesso mondo dei consumi e del commercio internazionale.

Dal 1990 al 2006, il valore delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti è aumentato di oltre il 1000% in termini reali, ciò che rappresenta letteralmente milioni di posti di lavoro legati all’esportazione. Tutti i prodotti cinesi che compriamo possono complicarci la vita, ma danno verosimilmente a qualcuno in Cina i mezzi per mantenere la propria famiglia.
Oppure prendiamo l’America Latina, che è il partner commerciale locale dell’America con la massima velocità di crescita. Dalla stipulazione del N.A.F.T.A. (North American Free Trade Agreement), detestato dai sostenitori della «vita semplice», e con l’espansione del commercio con l’America del Sud negli anni Novanta, l’America Latina è riuscita quasi a raggiungere l’obiettivo fissato dalle Nazioni Unite per lo Sviluppo del Millennio nell’istruzione primaria per tutti, mentre le percentuali di mortalità infantile sono scese di circa la metà.

La storia è la stessa per molte altre parti del mondo, compresa l’Asia Orientale e l’ex blocco sovietico. Per trovare una parte del mondo che non sia stata toccata dal nostro famelico consumismo, dobbiamo guardare all’Africa sub-sahariana, dove il commercio è rimasto prevalentemente invariato nella percentuale del Pil dal 1980. Negli ultimi 40 anni, mentre il resto del mondo si è sviluppato in tandem con i nostri sistemi consumistici lontani dalla «semplicità», l’Africa si è sfibrata. Infatti, nel 1970 l’Africa rappresentava il 15% dei Paesi poveri nel mondo; oggi questo continente ne rappresenta il 68%.
Se davvero vivessimo tutti nella semplicità, aiuteremmo i Paesi del mondo a regredire ai livelli economici del Giappone nel 1950, della Cina nel 1990, o dell’Africa sub-sahariana oggi. Se noi, caritatevolmente, rifiutassimo di acquistare nuovi abiti e nuovi televisori, andremmo a creare davvero, involontariamente, conseguenze letali alla gente più vulnerabile.
Naturalmente, gli angoli più poveri del mondo hanno bisogno di ben altro che del commercio e del lavoro, per raggiungere uno sviluppo completo. Hanno bisogno di libertà e di istruzione, oltre a tutto il resto. Ma una pancia piena e un bambino florido sono una buona partenza per una vita migliore, e questo implica la domanda di ciò che i poveri possono fornire, domanda che può venire solo da quelli fra noi che hanno avuto la fortuna della prosperità.

Vi sono certamente costi per noi, legati alla nostra complicata vita consumistica: costi per l’ambiente naturale, per le risorse non rinnovabili, e forse per le nostre anime. Ma nessuno di questi costi può giustificare una sentenza di morte per la gente che lavora in quelle nazioni, che vendono a noi merci e servizi. E ancor meno, se pretendessimo che i poveri del mondo debbano trarre beneficio da un nostro ritorno alla semplicità. Ciò che conta, piuttosto, sono i nostri sforzi continui per produrre, commercializzare e prosperare, con sistemi che siano in sintonia con i nostri valori di fondo.
«Vivere semplicemente» non permetterà ad altri «semplicemente di vivere». Farebbe ritornare l’orologio ad un tempo in cui, non ascoltati e non visti, i più poveri del mondo «semplicemente» morirebbero.

Arthur C. Brooks

(Traduzione di Rosanna Cataldo


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