DOBBIAMO CAMBIARE LA NOSTRA TESTA di G. La Grassa
“La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”. Queste le prime parole del Manifesto del partito comunista; testo di grande lucidità intellettuale e di brillantezza letteraria, estremamente affascinante ed incisivo proprio per la sua concisione e sicurezza asseverativa. Tuttavia, era un testo anche propagandistico, appunto il “manifesto” del movimento scatenatosi in un periodo cardine della storia, in cui precipitavano quegli avvenimenti (il famoso e mitico 1848) che decantarono effettivamente la situazione “di classe” all’interno del Terzo Stato (pur se certi processi erano in gestazione già da anni). Non bisogna fare del Manifesto un’opera da cui trarre troppo impegnativi concetti teorici o storiografici.
In realtà, la lotta tra “liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi” (continuazione della frase citata all’inizio) ha riguardato periodi storici decisamente più brevi e circoscritti di quanto non siano stati quelli in cui si sono scontrate le varie frazioni delle classi dominanti – in diverse epoche storiche caratterizzate dalla presenza di numerose forme di società, che definiamo formazioni sociali – per affermare la loro supremazia: sia all’interno di circoscritte aree geografico-sociali, sia su un piano generale, mondiale (sia pure del mondo via via conosciuto nelle diverse epoche storiche).
A volte in modo prevalentemente passivo, a volte con più sentita partecipazione attiva, le classi dominate seguivano quelle dominanti nei loro reciproci scontri, servendo la “propria”, che in definitiva assicurava la riproduzione dei rapporti – e dunque la possibilità di produrre e relazionarsi secondo specifiche connotazioni storico-culturali, tutte fondate su particolari forme assunte dal predominio di certe classi su altre – nell’area geografico-sociale in cui quei dati settori dei dominati (date “popolazioni”) abitavano e vivevano. Per la più gran parte del tempo storico, le “lotte di classi” sono state lotte tra blocchi sociali, culturali, religiosi, ecc. fra loro differenziati e costruiti attorno alla preminenza di gruppi dominanti in grado di stabilire la loro egemonia: sia esibendo la forza, capace di difendere gli interessi delle popolazioni a loro subordinate (e che li servivano) sia affermando una superiore influenza ideologico-culturale in grado di ammantare di “valori e idealità” determinati interessi anche, e spesso soprattutto (ma non solo), materiali.
Naturalmente, quando le lotte tra dominanti per la supremazia si facevano più acute e accanite, i loro “costi” – che, con il diffondersi di una economia mercantile e monetaria, richiesero quantità sempre maggiori di risorse finanziarie – divenivano pressoché proibitivi, mettendo sotto stress le popolazioni egemonizzate dai gruppi di dominanti in aspro conflitto. Scoppiavano allora rivolte popolari per la miseria estrema, le carestie, lo sfruttamento e prelevamento eccessivo di pluslavoro dai dominati. Tuttavia, come del resto notò e sostenne lo stesso Marx, tali rivolte non conseguirono mai un successo stabile e definitivo, ma furono sempre alla fine schiacciate; mai si verificò un passaggio da una forma di società all’altra in seguito alla sostituzione dell’egemonia dei dominati a quella dei dominanti. Le trasformazioni, le transizioni da una formazione sociale all’altra, sono sempre state guidate da nuove classi – costituite ogni volta da gruppi fra loro alleati temporaneamente per obiettivi comuni, ma che, una volta conseguiti questi ultimi, riprendevano il loro reciproco conflitto nella nuova formazione sociale – emerse all’interno della vecchia forma di società entrata in fibrillazione e rivoluzionamento; in ogni caso, non come avanguardia delle classi oppresse per guidarle all’emancipazione, ma solo come nuovo strato sociale assurto a posizione di predominio e di sfruttamento delle classi “basse”.
E va anche chiarito che è ormai assurdo pensare a necessità storiche ineludibili nel passaggio da una forma all’altra dei rapporti sociali, cioè a trasformazioni intrinseche alla dinamica riproduttiva nell’ambito della vecchia formazione sociale; la casualità, la dissoluzione della vecchia “struttura” relazionale, il “fluttuare” dei suoi elementi “sciolti”, l’emergere di altri – di nuove singolarità – e infine il loro raggrumarsi e coordinarsi in nuove forme di interrelazione interessate da nuove dinamiche riproduttive, hanno innescato e realizzato le diverse transizioni.
Per motivi che ho illustrato mille volte nella mia vita di marxista, e poi di critico del marxismo della tradizione, si era pensato – e il Manifesto illustra bene questa convinzione – che la società capitalistica dovesse essere l’ultima società divisa in dominanti (sfruttatori) e dominati (sfruttati, del cui pluslavoro i primi vivono). Errore di previsione che oggi va ammesso senza tante esitazioni e inutili credenze dogmatiche. Tuttavia, va compreso che l’errore, in qualche (notevole) misura, discende pure da quella frase iniziale sopra riportata, secondo la quale tutta la storia sarebbe stata contrassegnata dalla lotta tra oppressi e oppressori. La storia conosce lunghi e prevalenti periodi di lotta tra dominanti; la dinamica riproduttiva dei rapporti di ogni data formazione sociale è caratterizzata e alimentata per lunghe epoche storiche da questa lotta. Solo eccezionalmente, in brevi periodi di “grande subbuglio”, provocato dall’acutezza della lotta in questione, scoppiano le rivolte degli oppressi e dominati; mai veramente generali, anzi soprattutto localizzate nelle aree, più o meno vaste, di massima tensione e di sbriciolamento (degli apparati) del potere di dati gruppi dominanti indeboliti dal conflitto troppo intenso.
Questi processi, svoltisi in tutta la storia dell’umanità, hanno potuto essere travisati nella società del capitale. In effetti, in quest’ultima, il potere decisivo dei dominanti si è ben celato dietro l’apparente, ma certo manifesta, dinamicità della sfera economico-produttiva, duplicata – a causa della generalizzazione, solo capitalistica, della forma di merce dei prodotti, che esige l’uso del denaro – dall’altrettale (spesso perfino superiore) dinamicità di quella economico-finanziaria. A tale occultamento hanno contribuito “brillantemente” sia l’economia politica (e la stessa sociologia) dei dominanti (dei loro scienziati-ideologi) sia la teoria economica critica dell’ortodossia marxista, che è una serie di innumerevoli variazioni del kautskismo. Certo, vi ha contribuito in parte lo stesso Marx, in particolare concentrando la sua attenzione sul concetto di modo di produzione in quanto “nocciolo strutturale” di una sola forma di capitalismo (quello inglese, il primo a svilupparsi). Mentre però Marx consente una serie di aperture, che oggi si possono cominciare ad elaborare, il vecchio marxismo kautskiano conduce solo a ossificazioni sclerotiche e degenerative. Tra queste, cito solo le più gravi: la centralizzazione monopolistica dei capitali, con la conseguente previsione dell’ultraimperialismo che ha subito continue riverniciature d’epoca in epoca (una tesi, questa, di cui alcuni autori dell’“economia-mondo” sono gli, speriamo, ultimi epigoni); la fine delle funzioni svolte dagli Stati nazionali, tesi oggi del tutto risibile visto quel che sta accadendo (e negli ultimi tempi abbandonata, almeno mi sembra, perfino da Le Monde diplomatique, che ne fu alfiere a lungo).
Non m’interessa minimamente essere considerato presuntuoso, ma sono perfettamente consapevole che i miei ultimi lavori iniziano a fondare teoricamente quella che fu una costante intuizione di Lenin, sempre violentemente contrario all’ultraimperialismo di Kautsky, elemento-base dei “tradimenti” di quest’ultimo e del suo, prima sotterraneo e poi manifesto, filo-colonialismo e filo-imperialismo; così come accade anche oggi alle nuove correnti kautskiane “riviste e corrette” da quanti ho appena citato poco più sopra. Lenin però, per motivi che dovrebbero essere compresi a prima vista, non si liberò mai dell’ortodossia marxista, senza rendersi ben conto che questa fu opera proprio del revisionista e “rinnegato” da lui combattuto. Il marxismo di Lenin, a parte le sue eccezionali “aperture intuitive”, fu quello di Kautsky. Non è un caso che il dirigente bolscevico fu sempre incerto nell’individuare il momento in cui il “Papa rosso” dette inizio al suo “tradimento”. Prima lo collocò nel 1914, poi vide elementi di incipiente revisionismo ne La via al potere (1909), poi risalì ancora più indietro. Se avesse compreso a fondo il problema, avrebbe capito che fu Kautsky a fondare il “marxismo” in quanto supposta teoria della classe operaia; considerando quest’ultima non alla stregua di Marx quale operaio combinato (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), ma proprio come semplici tute blu (gli operai di fabbrica). Questo marxismo fu quello stesso di Lenin, che per fortuna si prese mille libertà pratiche (e di congiuntura) rispetto alla sua “struttura ossificata”, imbalsamata, seguita ancor oggi da tutti i rimasugli pseudomarxisti, ormai perfette mummie.
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Nei miei ultimi lavori, almeno mi sforzo, con pochi strumenti a disposizione (e ancor meno tempo), di produrre il disvelamento dell’inganno ideologico messo in atto – non consapevolmente, non in mala fede, se non da parte di pochi – dagli scienziati-ideologi dei dominanti e, purtroppo, da alcuni che fingono il linguaggio critico dei “rivoluzionari” (e della buona fede di questi ultimi dubito già assai di più; dato il lauto trattamento loro riservato dai dominanti con finanziamenti, posti importanti nelle Università o in Istituti di ricerca anche americani, presenza costante nei media, editoria facile, ecc.). Se ho preso così alla larga la svolta abbastanza impressionante compiuta dalla crisi in atto da tempo (oltre un anno) – con dimostrazione della sostanziale incapacità dei “tecnici” ed “esperti” di guidare le sorti dell’economia mondiale, dato che la loro inettitudine e smarrimento si vedono ormai ad occhio nudo – è per non sentirmi complice dell’inganno ideologico di cui appena detto.
Non è l’economia, malgrado la sua rilevanza e appariscenza, l’elemento fondante i processi sociali di medio-lungo periodo, quelli più “profondi” e cogenti, bensì sempre la politica con le sue lotte tra gruppi dominanti che attuano strategie complesse, in ambiti molto meno appariscenti, ma alla fine assai più consistenti (sia quando tali gruppi hanno successo, sia quando incorrono in gravi errori). Qualcuno diceva che nel lungo periodo saremo tutti morti. Per quanto grande economista, già quel qualcuno secondo me sbagliava; oggi, però, una simile affermazione sarebbe decisamente superficiale e irresponsabile.
Mi rendo senza dubbio conto che i più sono soltanto preoccupati – meno capisco quelli che invece si esaltano perché credono ancora al prossimo crollo del capitalismo – di quanto sta avvenendo nei “mercati finanziari” e che si sta già riflettendo, e siamo appena agli inizi, nell’economia detta reale (quella produttiva). E’ ovvio, per riprendere un’analogia già fatta più volte, che se si verifica una scossa di terremoto e gli abitanti di una casa da essa investita sono nel panico e alla ricerca disperata di qualche via di scampo, diventa impossibile volerli fermare per farli ragionare su che cosa sta accadendo a qualche kilometro di profondità, sotto la crosta terrestre. Tuttavia, per quanto anch’io mi senta all’interno di questa casa traballante, intendo continuare a svolgere questi ragionamenti forse un po’ freddi e distanti dall’oggetto di più immediato interesse e coinvolgimento emotivo. E’ molto pericoloso restare al puro livello giornalistico, veramente da blog, anzi da internet che, proprio in questi frangenti, mostra tutti i suoi limiti di chiacchiericcio e bla-bla tra “intelligentoni” che credono di aver capito tutto e di poter dare consigli, mentre sono semplicemente allo sbando e mostrano tutta la loro improvvisazione immediatistica, che è quella di chi tende a fermarsi alla più superficiale empiria.
La finanza ci sta bastonando, l’economia reale seguirà, assestando molto probabilmente robusti scossoni al nostro tenore di vita – non di tutti, ma della maggioranza – dopo un lunghissimo periodo di suo trend ascendente; parlo dei paesi del capitalismo “occidentale”, ma anche di quelli in crescita “ad est” da ormai un bel po’ d’anni. Tuttavia, si aprono scenari di più lungo periodo – incerti, di cui necessita un’interpretazione tramite ipotesi realistiche e dotandosi di una nuova strumentazione teorica – che influiranno non semplicemente sul tenore di vita, bensì sulla configurazione della formazione sociale mondiale, sulle sue varie formazioni particolari, sui mutamenti dei loro reciproci rapporti di forza susseguenti a sommovimenti non necessariamente simili a quelli del novecento, e tuttavia impetuosi e drammatici.
Ci sono quelli che gongolano perché pregustano il crollo del capitalismo. Altri che danno come minimo per scontato quello degli Usa, o almeno il loro drastico ridimensionamento quale massima potenza mondiale. Evidentemente le lezioni storiche non servono a nulla, gli insegnamenti del ’29 sono dimenticati. Gli Usa dimostrarono allora di possedere la più grande forza politico-militare, assistita da quella scientifico-tecnica e produttiva (che sussiste, potenzialmente, anche quando l’economia entra in panne). E lo possono dimostrare egualmente in questo frangente storico, se i competitori sbagliano strategie. Meno male che coloro che dirigono Russia e Cina, ad esempio, non sono degli sclerotici marxisti (quelli appunto “crollisti”) e nemmeno dei patetici antiamericanisti (i vari antimperialisti a “bischero sciolto”). Essi sanno bene con chi hanno a che fare; e non sottovalutano affatto gli staff strategici americani, quelli decisivi, quelli della sfera politica. Questi ultimi hanno certo commesso errori nella “lotta al terrorismo” – con le guerre in Irak e soprattutto in Afghanistan – perché avevano dato per sepolta non solo l’Urss ma pure la Russia sorta dalle sue ceneri. Non hanno però compiuto, come pensa la vulgata giornalistica odierna, un errore di valutazione nella crisi georgiana. Appare sempre più evidente che essi volevano saggiare le reazioni russe per avere nuovi elementi in più in vista di quella che sarà la netta revisione della strategia americana mondiale, chiunque vinca le ormai vicine elezioni presidenziali. La si smetta di ragionare sempre in base a quello che gli avversari fanno vedere “in superficie”. Si tenga almeno presente la possibilità di qualche alternativa meno appariscente e più sostanziosa.
Diamo per scontata l’impossibilità di evitare i guai della crisi che, in un certo senso, si è “ufficialmente” instaurata in questi giorni. Tutti gridano adesso agli errori dei finanzieri, alla montagna di “carta straccia” creata. E’ da circa due secoli che le crisi avvengono più o meno così, al di là degli strumenti finanziari di sempre nuova invenzione. Si capirà, una volta per tutte, che non vi è colpa specifica dei banchieri (e adesso anche degli assicuratori)? Abbiamo a che fare con “difetti” (eufemismo) intrinseci alla struttura dell’economia capitalistica, alla sua anarchica competizione, alla già sopra segnalata impossibilità di qualsiasi forma di “ultraimperialismo” o “capitalismo organizzato”; le idiozie del Capitale Totale, dell’automa autoriproduttivo, ecc. sono banali invenzioni di cervelli non pensanti. “Questo è il ‘mercato’, bellezza”; e non c’è centralizzazione capitalistica che tenga. Quindi, rassegniamoci tutti a dover passare questa crisi; che non produrrà affatto – altra invenzione di cervelli bacati – alcun crollo del capitalismo, ma comporterà molti rimaneggiamenti al suo interno.
Quello che conta adesso non è evitare la crisi, ormai in atto, né è credibile che la si risolva con le manovre della FED o della BCE o altre. Queste istituzioni possono operare alla bell’e meglio, ma non certo in modo risolutivo. Il problema cruciale – non risolvibile in generale, con una presunta cooperazione comune, che tuttavia sarà sempre dichiarata “ufficialmente” e mostrata “in pubblico” per pura ipocrisia – è invece quello di come ogni paese uscirà dalla crisi, in quale posizione rispetto agli altri; il problema è quello di individuare le mosse che indeboliscono di meno e che dunque – nel successivo periodo, finite nel ridicolo le tesi del crollo o della stagnazione “secolare” – pongono le basi per rafforzarsi di più.
Le soluzioni decisive in tal senso non sono quelle monetarie e finanziarie. Nemmeno si risolve il problema in questione cercando di aumentare i consumi (o la domanda complessiva, ivi compresi gli investimenti, magari “pubblici”); anche questi “aiutano” ma come semplici boccate d’ossigeno per ridare un po’ di fiato. Non parliamo nemmeno di certi dementi di sinistra, che hanno cianciato per decenni contro il “consumismo”; e che adesso, con “grande coerenza”, cianciano su un aumento dei salari o di un salario minimo garantito (idem come sopra, con l’aggiunta che certo sarebbe una misura di equità sociale). Siamo però sempre nel campo dei palliativi e delle boccate d’ossigeno. Il nodo centrale da sciogliere è come prepararsi per il periodo della fuoriuscita dalla crisi, che potrebbe essere – è molto probabile che lo sarà – un periodo di forte riacutizzazione della competizione su scala globale e, in ogni caso, di allontanamento definitivo dalle illusioni “ultraimperialistiche”.
Bisogna prepararsi con opportune scelte politiche strategiche. La competitività, lo “stare nel mercato”, sono, alla lunga, conseguenze, ricadute. di queste scelte politiche. Su queste dobbiamo ormai ragionare. Se però si crede che, in momenti come questi, si chiameranno le “masse” alla rivoluzione – sia che lo pensino i finti comunisti con riguardo alla Classe Operaia dei paesi avanzati, sia che lo pensino gli sterili antimperialisti amici dei “Popoli Diseredati” del fu terzo mondo – allora si è dei perfetti illusi; e anche molto dannosi perché si possono provocare brutte reazioni imprevedibili. Se la popolazione, nella sua maggioranza, vede ridursi il suo tenore di vita, vuole tornare a riconquistarlo e va con chi dà qualche affidamento in tal senso. Nel 1933 in Germania, è ora di dirlo alto e forte, i nazisti vinsero perché offrirono – a modo loro, secondo i loro programmi revanscisti e imperialisti che prevedevano certo il riarmo, ecc. – la soluzione vincente: in poco più di un anno, dalla loro ascesa al potere al congresso di Norimberga, i disoccupati scesero da sei a un milione, il prodotto nazionale tornò ad essere superiore a quello precedente l’inizio della crisi, la finanza fu soggiogata e messa al servizio delle ripresa industriale, ecc. Se si offre il “comunismo” di un fittizio innalzamento salariale, che non regge minimamente in mancanza di rilancio produttivo, con l’aggiunta della proprietà statale (gabellata per collettiva) che crea un esercito di impiegati “pubblici” (non proprio beneamati, in specie in Italia), e via dicendo, può accadere di tutto.
E’ su queste scelte politiche – pur se di larga massima, perché noi non siamo “tecnici” né abbiamo apparati economici o politici in mano – che converrà concentrare l’attenzione. Rendiamoci conto che un’epoca storica è finita, ma non sappiamo ancora quando e come inizierà la successiva. Bisogna cambiare testa, diventare un po’ più “adulti”. E bisogna battere in breccia lo stupido buonismo (falso e mieloso, ormai insopportabile) di questa sinistra miserabilista, ancora portatrice di lassismo e anarchia, seguita però da speculari settori di destra, tradizionalisti e reazionari antimodernisti. Non abbiamo bisogno di “padri di Giovanna” (andrebbero messi al muro senza processo). Si vedano invece e si studino i film sugli zombi, i politicamente più utili (per analogia) in questa fase. Ed infatti mi piace ricordare la frase più volte citata da Marx: le mort saisit le vif. Addosso a questo “morto” – di sinistra o di destra catastrofiste, crolliste, conservatrici, “frugali”, e chi più ne ha più ne metta – poiché ci piace il “vivo” e che cresca; naturalmente, scontando che bisogna attraversare inevitabilmente un periodo “nero”.
Quest’ultimo è assai preoccupante; ma è molto più preoccupante sapere che l’Italia – paese in cui c’è una sinistra nata dalla degenerazione piciista e sessantotto-settantasettina – ha ancora troppo ceto medio (in realtà “piccolo-piccolo”) che sopravvive di settore “pubblico” – insegnanti (che non insegnano nulla di buono), gentucola dello spettacolo e dei media ed altri fasulli del genere – ed è intrisa di mentalità anarcoide, antimeritocratica, politicamente “primitiva”. Si tratta di una massa di scriteriati pieni di livore e rancore verso chi produce, anche per mantenerli in quanto esseri superflui e anzi nocivi alla vita sociale. Tutta gente che si monta la testa con sogni di crolli, disordini e, magari, successivi avventi della vita semplice (per gli altri, non per loro, puri parassiti attaccati al corpo produttivo del paese); atteggiamenti che possono provocare giustificate reazioni “d’ordine” e di pulizia estremamente pericolose per chi sappia sfruttarle con astuzia. Prima si eliminano queste frattaglie sociali putrefatte, assieme alle loro degradate rappresentanze politiche, e prima avremo la possibilità di risanare parti non irrilevanti della nostra società e di ripensare, forse, una via di trasformazione.
PS. Volutamente, nessuno sbracamento in tanti commenti di fronte alla notizia appena arrivata della rottura definitiva per l’Alitalia, salvo dire che sarebbe bello se fosse stato dato veramente un taglio (disgraziatamente siamo nel paese di Pulcinella) a quella che era comunque una farsa tirata troppo per le lunghe, vista appunto l’incapacità di certa gente di “cambiare testa”; alcuni non sono indietro di una sola fase storica, ma almeno di due, perché il loro modo di pensare è rimasto agli anni ’60, massimo ’70. “Divertente”, si fa per dire, l’appello di Berti (e piloti in genere) a Berlusconi perché intervenga, perché trovi altre soluzioni. Comunque, mi fermo qui per non essere poi sempre accusato di mostrare “poca stima” (eufemismo) nei confronti di chi, commettendo simili svarioni, mostra di non usare il cervello ma solo “i riflessi condizionati” del cane che serviva agli esperimenti di Pavlov. Ormai la sinistra è piena zeppa di questi “cani”; ma anche la “destra”, se è vero che molti piloti sarebbero vicini ad AN. In una situazione mondiale così deteriorata, e che ci coinvolge sempre più pesantemente (con previsioni di crescita continuamente ribassate fino all’ultima con segno negativo) malgrado tutti i tentativi di sostenere il contrario, è stata un’autentica indecenza perdere così tanto tempo dietro all’Alitalia. Perfino nel nord-est ci sono decine di migliaia di posti già persi negli ultimi tempi, senza gli “ammortizzatori sociali” – quattro anni di cassa integrazione e tre di mobilità – previsti per gli “esuberi” del personale della compagnia aerea, e l’impegno, peraltro vago e contrastato recisamente da Brunetta, di cercare il loro collocamento in altre amministrazioni pubbliche. In ogni caso, prepariamoci ad altre sceneggiate da ogni parte: governativa e “oppositiva”; “è l’Italia, bellezza!”.