«E c’era tanta gente alle bandiere e garrivano al vento i balconi»
(Jacques Prévert, « Storie e altre storie ») di P. Pagliani
Sabato scorso c’è stato il “trionfo personale” di Walter (o meglio, “Uolter” come lui preferisce, l’unico Italiano che conta sulla mano a partire dal mignolo).
Lasciando da parte la stucchevole battaglia delle cifre tra Ueltroni (Uolter Ueltroni) e quei campioni di simpatia di Cicchitto e Capezzone, avrei solo qualche commento a freddo.
Il leader PD ha dichiarato davanti a una gran folla (tanta, indubbiamente, non importa far la conta) che "le banche devono restare autonome e indipendenti dal controllo politico". Diamo atto, così all’impronta, che in questo momento di crisi e mentre i governi ultraliberisti stanno nazionalizzando più o meno surrettiziamente decine di istituti di credito, che quella di Ueltroni (Uolter Ueltroni) è indubbiamente una dichiarazione “anticonformista”, in controtendenza.
Un po’ meno all’impronta inviterei a rileggere alcuni miei post precedenti: quello intitolato “Crisi finanziaria: la Storia è veramente maestra?” e quello intitolato “La crisi è strutturale?”. In quest’ultimo rilevavo che “il paradosso è che è la Destra che deve convincere la Sinistra a non mettersi di traverso all’interventismo statale”. Non mi sbagliavo, a quanto sembra. Mentre dal primo (ma si veda anche “I banchieri rialzano la testa!”, qui sotto) si può capire l’origine servile di questa, diciamo così, “mentalità”.
Il problema politico è che Ueltroni (Uolter Ueltroni) ha fatto questa dichiarazione davanti a una folla notevole senza che si levasse da nessuna parte l’unico grido responsorio ammissibile: “Ma che? Ci sei o ci fai?”.
Poi sono stati passati in rassegna i temi usuali: il solidarismo, i servizi pubblici, l’antifascismo e tutto ciò che è politicamente corretto. E si è parlato – non poteva essere altrimenti – della scuola, senza un accenno di autocritica, neppure formale, sui disastri provocati all’istruzione pubblica dalla sinistra almeno dai tempi del ministro Berlinguer.
Ho letto che c’è stata anche un’incursione del Tonino nazionale che chiedeva firme contro il lodo Alfano, con manifestanti PD commossi che andavano a stringergli la mano ammettendo contriti: “Avevi capito tutto tu: in galera dobbiamo mandarlo!”
Goethe diceva che quando manca un concetto, arriva in soccorso una parola. In questo caso si vede a occhio nudo che quando manca la politica, arriva in soccorso il giustizialismo. E’ sempre stato così e l’Italia non è un’eccezione ma una miserabile conferma.
Per quanto riguarda il nuovo movimento studentesco mi è stato fatto notare che il “prendetevela con Prodi”, come più o meno suggeriva Paolo Barnard “può favorire quel parlare generico che è la linfa di chi da anni si sta spartendo il potere”.
Sono d’accordo che "prendetevela con Prodi" sia una provocazione che va bene – anzi benissimo – una volta per gettare il sasso nello stagno ma che non è produttivo ripetere.
Anche perché quell’invito secondo me è racchiuso implicitamente in quello che a mio avviso è il problema basilare di questo movimento: la difficoltà ad essere autonomo e propositivo.
– Non è autonomo dai baroni e così difende reali posizioni di privilegio, camarille familistiche e sprechi, facilmente attaccabili e odiosi alla maggioranza della gente.
– Non riesce a esprimere una critica all’autoreferenzialità accademica, con ciò lasciando scoperto un fianco grande come una casa.
– Non riesce a esprimere un punto di vista complessivo su come bisognerebbe fare una riforma dell’istruzione in un periodo di vacche magre e, come è stato fatto notare su questo blog, scambia spesso sforbiciate contabili con "attacchi alla cultura", tout court (come se i berluscones fossero strateghi così raffinati, poi).
– Non riesce ad avere una posizione su cosa sia "cultura" e "produzione di cultura" in un sistema capitalistico e, in particolare, in questo tipo di capitalismo, monodimensionale da una parte ma percorso da scontri interni ferocissimi dall’altra.
Si evoca la parola "cultura", come si può evocare l’Araba Fenice, ma non mi sembra che ci sia una politica culturale, esattamente come non ce l’ha la parte avversa – altro che "attacco alla cultura". L’unica politica culturale, in quest’epoca, ce l’hanno i poteri forti della sfera economica e non di quella politica. Questa è l’innaturalità della situazione attuale che fa spesso prendere lucciole per lanterne. E la trasformazione delle Università in Fondazioni è una ratifica quasi notarile di uno stato di fatto, alla quale non si può opporre un no – che in linea di principio io sono pronto a condividere – senza però avere una politica ad ampio raggio, che comprenda se non tutte molte delle parti correlate.
E invece si oppone una politica derivante solo da analisi parziali, filtrate da schermi ideologici politicamente corretti, oppure derivante proprio da quello che si è fatto finora.
Mi sembra che gli studenti stiano opponendo un anticapitalismo general generico statal-assistenzialistico che di fatto va in alleanza con lo spreco degli amici degli amici – basta che siano politicamente corretti e stiano dalla parte giusta – che cercano di tirarsi dietro proprio quelli che hanno vessato e danneggiato fino a ieri, ovvero quelli che cercano di salvare il salvabile e di lavorar duro e seriamente e che per questo motivo contano come il due di briscola e che al momento del tavolo negoziale continueranno a valere come il due di briscola.
Sono stato duro o superficiale? Penso di no e cerco di provarlo con un argomento che a me sembra decisivo. Si evoca la parola "scienza", ma non la si collega in nessun modo col problema della sovranità politica dell’Italia e dell’Europa. Hai voglia poi lamentarti che in Italia non si può fare ricerca. Ma quando mai nella provincia periferica di un impero si è svolta un’attività strategica?
Questi sono i punti nodali. Anzi, a me sembra proprio che quest’ultimo sia il punto nodale.
Eppure erano tutti temi che, più o meno correttamente, più o meno profondamente, sono spesso stati al centro della critica "di sinistra".
Ma al momento del bisogno, voilà, spariscono d’incanto. E la ragione è evidente: il ricatto dell’onnipresente pensiero unico politicamente corretto (anzi, dell’unico pensiero politicamente corretto): "bisogna fare il culo a Berlusconi". Perché è un autoritario, un parafascista, un pararazzista e così via.
Eccola lì pronta la trappola.
Ecco dove sinistra estremista e sinistra riformista filoamericana si saldano.
Ecco la forma mentis che ingessa questo movimento.
Ecco perché, a mio avviso, il nuovo movimento non riuscirà nemmeno ad avere l’effimera egemonia che ebbe quello del Sessantotto. Perché se questo era teso alla modernizzazione culturale di un’Italia cresciuta molto in fretta (per me doveva essere l’anticamera della Rivoluzione, ma era un’illusione mia: in effetti fu solo l’adeguamento culturale al passaggio da un Italia contadina a un’Italia industriale, come è stato fatto notare – la riprova? il fior fiore di questo movimento di modernizzazione è da tempo quasi tutto ai posti di comando, o meglio subcomando, di questa Italia post-contadina: Gianni Riotta, Paolo Mieli, Gad Lerner, Michele Santoro, Lucia Annunziata, Paolo Liguori, … . E questo è il lato dei media, poi ci sono quelli che hanno fatto fortuna nei vari partiti, ecumenicamente (bipartisan), nella ditta di papà, in società di consulenza, alla Banca d’Italia, alla Banca Mondiale, e via crescendo), se questo dunque è stato il Sessantotto, il movimento di oggi rischia seriamente di essere semplicemente un "difendiamo ciò che c’è".
Con tutto che sappiamo che ciò che c’è fa schifo e ce ne siamo sempre lamentati.
Ma il Berlusca non deve metterci le mani, ohibò. Questo è l’essenziale!
E via a giocare di rimessa, mai d’attacco.
P. Pagliani
Comunque ci sono delle cose su cui dovremmo riflettere un po’ meglio e più pacatamente. Ad esempio non valuterei la cultura col metro delle compatibilità contabili, della numerosità dei partecipanti a un corso o con la convinzione che le discipline tecnico-scientifiche debbano soppiantare quelle umanistiche.
Con questi criteri avremmo dovuto chiudere i conventi medievali e impedire così il futuro Rinascimento. O dovremmo mandare al diavolo le scienze pure e privilegiare solo quelle applicate scordandoci così il 70% dei risultati in Matematica e in Fisica, ivi compresi, paradossalmente, quelli con applicazioni pratiche.
Le cose, nella produzione nella sfera culturale, sono più complesse di quel che sembrano e io ci andrei cauto.