NON LO STESSO STATO, PREGO di Giellegi

Ci sono quelli che preconizzano una Bretton Woods numero due; e quelli che si rifanno alla Pace di Westfalia (1648, fine della guerra dei trent’anni). Cerchiamo di capire che cosa tutto questo significhi. Alla conferenza tenuta a Bretton Woods (cittadina statunitense) nel luglio del 1944 parteciparono, se non erro, 44 paesi dell’area capitalistica (fra cui tutti quelli più avanzati) che istituirono, fra l’altro, il FMI e quella che fu poi la Banca Mondiale; il trattato lì stilato fu poi ratificato nel 1946. Furono gettate le basi del nuovo ordine monetario “internazionale”; in realtà di quello del sistema capitalistico e dei paesi ad esso subordinati. Il dollaro divenne la moneta centrale (e di riserva), l’unica in teoria a poter ancora essere scambiata con l’oro (fino alla inconvertibilità decretata il 15 agosto 1971 dagli Usa sotto la presidenza Nixon). Quello di Bretton Woods non fu affatto un vero accordo, ma una netta subordinazione dell’intero ordine reggente il sistema capitalistico alla supremazia indiscussa degli Stati Uniti. Volere una Bretton Woods n. 2 significa battersi per ristabilire questa supremazia, per di più in tutto il mondo, essendosi dissolto il “campo socialista”. I liberisti sono i reali servi di questo progetto; e di essi ne abbiamo un fottio in questa Italia di leccapiedi; sia a destra sia a sinistra.

Diversa la prospettiva di coloro che si rifanno alla pace di Westfalia, data di effettiva e robusta nascita degli Stati nazionali, quelli di cui si era dichiarata improvvidamente la fine quando si dissolse l’Urss e gli Usa rimasero (per una dozzina d’anni) padroni indiscussi del campo globale. Oggi, il liberismo è entrato in apnea non solo sul piano delle politiche interne dei vari paesi, ma pure su quello dei rapporti internazionali, dove Fondo monetario e Banca Mondiale hanno perso gran parte dell’immeritato prestigio di cui hanno goduto fin troppo a lungo. Gli Stati nazionali sono di nuovo in auge; naturalmente laddove riaffermano con forza le loro prerogative, opponendosi alla preminenza americana. In ogni caso, pure all’interno della “serva” Europa, i vari Stati giocano i loro ruoli, fingendo che esista una Unione Europea, e tirando invece ognuno l’acqua al suo mulino (in modo nemmeno più tanto mascherato).

Alcuni pensano ad una sorta di pendolo della Storia. Dal liberismo imperante fino alla grande crisi del 1929 saremmo progressivamente passati alle prerogative del “pubblico” (e dello Stato erogatore di spesa) fin verso gli anni ’80; poi è tornato il liberismo (vittoria della Thatcher nel 1979 e di Reagan nel 1980); oggi, soprattutto grazie alla grave crisi odierna, rivincerebbe il “keynesismo” della spesa “pubblica”, dell’interventismo statale. E’ proprio così?

 

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Ho già sostenuto più volte che è stata un’autentica menzogna (ideologica) quella secondo cui la grande crisi del ’29 fu risolta con politiche di spesa pubblica; questa non fu altro che una misura-tampone incapace di risolvere durevolmente la situazione, rimasta per tutti gli anni trenta sull’altalena della sostanziale stagnazione fino alla seconda guerra mondiale, vero elemento decisivo; e non per la produzione di beni che consentivano l’innalzamento del reddito prodotto, e quindi dei consumi, nel mentre non andavano in offerta nel mercato, essendo impiegati (e “felicemente” distrutti) nello scontro bellico. La crisi fu risolta dalla nascita del mondo bipolare, ma in modo del tutto particolare dalla fase monocentrica del “campo capitalistico” con regolazione da parte dei predominanti Usa (e vi contribuì appunto Bretton Woods).

Oggi torna l’ubbia di poter contrastare la crisi aumentando la domanda, soprattutto – e questa è proprio la parte più debole di simile falsa credenza – quella di consumo. Aumentare i salari e le pensioni più basse (a più alta propensione al consumo come recita la credenza in questione), o detassare le tredicesime, può ben essere una misura di equità sociale (e soprattutto di conquista del consenso di spezzoni popolari), ma non è nulla più che una boccata d’ossigeno ai fini della crisi. A questo punto poi, se non si vuol approfondire il solco tra lavoratori salariati e autonomi – con grande gaudio dei dominanti – è indispensabile essere favorevoli anche alla detassazione delle piccole attività dei lavoratori del secondo tipo, che favorirebbe – a dir la verità, soprattutto in teoria – l’aumento della domanda dal lato degli investimenti, l’aumento della produttività (e abbassamento dei costi) con vantaggi, sempre molto “teorici”, per la competitività di queste piccole attività.

Dalla crisi si uscirà però con la stessa “celerità” con cui si uscì da quella del ’29 trascinatasi per tutti gli anni trenta fino al decisivo regolamento dei conti finale. Naturalmente, né mi auguro né prevedo debba accadere qualcosa di analogo. In ogni caso, non mi sembra che siamo entrati ancora in una vera fase policentrica o multipolare; per cui, per quanto possa essere grave questa crisi, non credo sia paragonabile a quella del 1929. Sia chiaro, non ne faccio una questione di parametri economici. L’attuale crisi potrebbe perfino manifestarne di più negativi rispetto a quelli del ’29 (in realtà del 1931-32, momento di massima caduta dell’economia reale, almeno negli Usa). Tuttavia, quello che ancora manca, per rendere praticamente irrisolvibile la crisi se non con il “regolamento dei conti”, è un effettivo e pressoché “perfetto” multipolarismo. Malgrado tutto, credo che molti stiano esagerando il declino degli Usa, ancora in grado per un po’ di tempo di mantenere una sufficiente supremazia. In particolare, la Cina – considerata oggi (come lo fu il Giappone nei primi anni novanta) la principale aspirante al futuro posto di massimo antagonista degli Usa – sta spesso funzionando più che altro da aiuto a questi ultimi.

E’ in questo momento la Russia a creare maggiori grattacapi (geopolitici) agli Stati Uniti; e quindi a praticare politiche che potrebbero accelerare il policentrismo. Il quale, poi, non è affatto la nascita di un antagonista storico del paese oggi predominante, bensì la formazione di più centri – in sviluppo ineguale – che dovranno, per una lunga fase storica, abilmente giostrare le loro politiche delle sfere di influenza prima che si arrivi realmente ad una decisione in merito a chi prenderà il sopravvento. C’è gente che non si rassegna a ragionare nei termini delle epoche in cui predomina una grande potenza (“imperiale”); per cui non riesce a considerare altro che il passaggio “di testimone” da un paese all’altro, trascurando proprio tale passaggio. In realtà è questa la fase storica interessante, in cui si aprono le diverse direttrici che la Storia potrebbe prendere.

E’ la fase monocentrica – predominio di una potenza – ad essere una temporanea transizione, relativamente stabile ed univoca, tra due turbolente fasi (quelle policentriche appunto) che sono aperte a molte potenzialità, aleatorie, di sviluppi molteplici. La fase turbolenta già passata, ormai terminata (ma non per “leggi” necessarie e decidibili in anticipo) nel predominio di una data potenza (oggi gli Usa), ha ovviamente esaurito le sue potenzialità; ma la nuova, in fase di avvio, è quella in cui l’azione di vari gruppi sociali – a livello interno dei vari paesi, come sul piano dello scontro internazionale – inciderà su tali potenzialità che aprono nel complesso sociale mondiale un ventaglio di possibili direzioni di sviluppo.

Noi chiamiamo Stato, con i suoi vari apparati, questa possibilità di incidere sull’aleatoria direzione di sviluppo che prenderà effettivamente la Storia del complesso sociale in questione (in definitiva, il mondo intero). E parliamo di Stati “nazionali” per indicare che tali apparati precipitano, si condensano, nell’ambito di formazioni sociali (particolari) da identificarsi ancora con i vari paesi già conosciuti, salvo modifiche più o meno di dettaglio; e comunque non riguardanti i più importanti fra essi, quelli divenuti, o in via di divenire, nazioni-potenza. Questi apparati, cioè nel loro insieme lo Stato, hanno in effetti la possibilità di influire – sotto la pressione di vari gruppi sociali in conflitto – sulle aleatorie direzioni di sviluppo storiche, nella misura in cui si dotano della potenza necessaria a modificare i rapporti di forza tra detti gruppi, e quindi le loro sfere di influenza nel mondo globale.

 

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C’è un elemento (un “nocciolo”) di verità nelle concezioni liberali (e liberiste). Gli Stati non sono, nella loro “essenza”, adibiti (e adatti) a regolare le questioni inerenti alla sfera economica dei paesi cui sono pertinenti. L’impressione contraria – e tutta l’ideologia “keynesiana”, trasformata in concezione dello Stato sociale – è nata dal fatto che, finita con la seconda guerra mondiale la grande depressione iniziata nel 1929, nel campo detto capitalistico esisteva un sistema-paese che fungeva da regolatore centrale dell’intero campo. Questa regolazione – essenzialmente esercitata mediante potenza, cioè con la subordinazione del campo in questione al sistema-paese, e dunque all’economia, degli Stati Uniti – è stata presa come efficacia dello statalismo, che fu detto sociale, in funzione anticrisi economica. In realtà, lo Stato era realmente assistenziale come accusavano i liberisti; solo che per molto tempo la regolazione da parte del paese predominante impedì eccessivi sprofondamenti delle economie subordinate (ma sviluppate; diversa fu la sorte di quelle “sottosviluppate”).

E anche le prime difficoltà, visibili negli anni ’70 e ’80, non potevano dare vittoria stabile ai liberisti; certo vennero in evidenza i limiti dello statalismo “sociale” (in realtà appunto “assistenziale”), ma il successivo liberismo fu solo il tentativo di sanare le prime crepe della regolazione globale statunitense, credendo – anche in buona fede – alle fole della "virtuosa mano invisibile” in quanto capace di ripristinare la preminenza americana con vantaggio per tutti. Il “felice” (per i liberisti) evento della dissoluzione del socialismo e dell’Urss – evento trattato con sbornia ideologica e attribuito al confronto perdente con il capitalismo statunitense, mentre fu invece un problema del tutto interno, ancora da analizzare senza pregiudizi filo o anticomunisti, e da cui è comunque emersa una nuova forma capitalistica dotata di efficacia – dette la testa ai vincitori, determinò l’affondamento degli avversari “keynesiani” e il dilagare, anche e soprattutto nella politica degli organismi internazionali dominati dagli Usa, di una dissennata politica che oggi conosce la sua fine e la débacle.

In simile frangente, cercano di riassumere l’iniziativa i semplici statalisti assistenziali, i “keynesiani”; e se si permette loro di rialzare la testa, andremo a fondo tanto quanto con i liberisti. Intendiamoci: quando scoppia un incendio o si scatena un terremoto, capisco che si prendano delle misure d’urgenza che servono (o non servono) là per là. Non considero quindi illecito o dannoso che “tecnici ed esperti” si diano da fare per rattoppare qualche falla. Semmai, trovo irritante che continuino a far finta di capire tutto quando fanno previsioni in un senso, oggi, e nel senso contrario, domani. Ammettano che vanno a braccio e che si arrangiano come possono. Non c’è nessuna colpa in questo, è del tutto normale. Il grave è che, quando invece si fa finta di avere le ricette giuste per risolvere in poco tempo la crisi, si impedisce a chicchessia di impostare un ragionamento di più lungo periodo e di mettere in luce le coordinate più essenziali di una possibile politica.

E’ antipatico, lo so, dire: “l’avevo detto”. Tuttavia, non posso non essere incazzato per essere sempre stato silenziato – e non semplicemente dalla stampa ufficiale dei dominanti, ma anche e soprattutto dai radical chic di ultrasinistra – quando, fin dall’inizio, ho dato degli imbecilli (ed erano più che imbecilli) a coloro che parlavano della fine degli Stati nazionali e delle masse in rivolta contro un acefalo e informe Impero; concezione che era frutto o di una mente malata o di un vero “cattivo maestro” al servizio dei dominanti. Questa gentaglia continua tuttora a imperversare senza un minimo di autocritica. Ho pure sostenuto che non sarebbe mai sussistita alcuna Europa Unita quale possibile nuova potenza mondiale. Al massimo, se avvenivano profondi rivolgimenti politici all’interno dei suoi principali paesi componenti, tali da far fuori radicalmente e destra e soprattutto sinistra, potevano riemergere alcuni Stati (tipo Germania o Francia, e in fondo anche l’Italia se si verificassero movimenti particolarmente feroci al suo interno). Oggi, che gli Stati nazionali sono nuovamente in auge, che la UE non conta pressoché nulla quale “area unificata” (solo nell’immaginazione), tali fatti sono ammessi un po’ da tutti, salvo che dai ritardatari più scemi o più pagati dai settori capitalistici parassitari nei diversi paesi europei.

Bisogna però impedire che ci si ritrovi ad inneggiare nuovamente allo Stato in quanto salvatore dell’economia. Sarebbe una iattura se si entrasse in questa sciocca forma mentis. Lo ripeto: nella contingenza, si cerchino pure misure occasionali nel tentativo di attutire i peggiori scossoni. In una prospettiva di carattere strategico, però, bisogna avere il coraggio di affermare che lo Stato – in quanto insieme di apparati, condensazione di un conflitto tra vari gruppi sociali – deve portare la sua azione a sostegno della fuoriuscita, la meno peggiore possibile, dalla crisi; in particolare da quella reale (che però non è certo isolata dalla finanziaria), a seconda della gravità, tuttora incerta, che essa assumerà nel prossimo futuro. Il discorso strategico non può fondarsi sui problemi della domanda (né di investimento né di consumo), che è misura estemporanea cui si ricorre in corso di terremoto o incendio già scoppiato. E’ necessario impostare quel discorso che, nei suoi termini generali, può essere sintetizzato con la parola potenza; con tutto ciò che ne consegue, fra cui l’allargamento o consolidamento delle sfere di influenza.

Non entro adesso in un’argomentazione più particolareggiata in merito a tale questione. Proprio perché non si tratta di misure temporanee (misure tampone), è necessaria una riflessione – anche e soprattutto teorica – su che cos’è in realtà lo Stato. Qui basti dire che liberismo e statalismo (detto keynesiano) sono le due aberrazioni di un pensiero che ci porterà al disastro. Magari non nell’attuale crisi – che è scoppiata quando ancora il policentrismo è assai imperfetto – ma in tempi non secolari. Storicamente, ci siamo vicini, il tempo scarseggia. Eppure, tutti si crogiolano nelle misure tampone di cui detto, mentre il pensiero strategico langue: o quanto meno resta nascosto ai più, non se ne fa oggetto di vero dibattito nell’ambito di un ceto intellettuale tra i più dementi della Storia. Accanto alla sviante coppia liberismo/statalismo (assistenziale), esiste quella corrispondente tra “democrazia” (per definizione quella “occidentale”) e centralismo autoritario (Russia e Cina). Si tratta di discorsi formalistici, di gente priva della volontà di faticare per pensare, che si facilita il compito aderendo immediatisticamente a questo o quello schema mentale, di una superficialità sconfortante.

Abbiamo bisogno che si vada verso uno Stato diverso da quelli oggi esistenti, cioè verso apparati effettivi della potenza. Uno Stato che non creda di poter regolare autoritativamente l’economia – salvo le misure tampone già ricordate, quando è in corso il terremoto – e nemmeno però si limiti alla “leggerezza” di un blando intervento a puro sostegno della “virtuosa mano invisibile”. E’ proprio di uno Stato tutto diverso che vi è bisogno. Altrimenti, prima o poi, non potrà non arrivare lo stato d’eccezione: l’unico sostituto delle carenze teoriche e politiche di liberisti e “keynesiani”. Non ci si lamenti poi, perché – quando arriverà la vera crisi, quella che esige comunque il regolamento dei conti tipico della fase policentrica “perfetta” – tale stato d’eccezione si renderà inevitabile e necessario in una serie di nazioni-potenza, in mancanza di “meglio” (o di meno peggio).

Cominciamo quindi, fin da subito, a pensare e discutere un diverso Stato, differenti politiche; e non tanto le politiche economiche (puramente contingenti) ma quelle strategiche, che sono politiche al 100%, politiche politiche, anche se investono, questo è ovvio, i settori della sfera economica della società; ma non semplicemente per sostenere la domanda o per aumentare la competitività delle imprese nel mercato globale, bensì per accrescere la potenza di quel dato sistema-paese nel mondo. Basta con gli Stati odierni! Basta con il puro economicismo oppure con le fumose ideologie delle “masse” o degli “uomini” alla ricerca ….. “dell’araba fenice”!