UN LETAMAIO DEMOCRATICO a cura di G.P.
Vi proponiamo, in serie, tre articoli che secondo noi mettono ben in evidenza qual è lo stato delle cosiddette forze democratiche di sinistra in Italia. L’ecatombe politica, morale, programmatica e ideale di tutta la sinistra, da quella “normalista” a quella pseudo radicale, è il punto di arrivo di una tendenza rafforzatasi a partire dai primi anni ’90 (in questo preciso momento storico giunge a compimento, senza ombra di dubbio, un processo di metamorfosi radicale dell’arco politico italiano, sulla spinta della palingenesi degli assetti internazionali dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda), con la solita manina d’oltre-atlantico a giocare un ruolo decisivo per la sostituzione della vecchia classe dirigente democristiana con i nipotini più imbecilli di Togliatti, nonchè figli diretti delle lacrime di coccodrillo occhettiane.
Le parole d’ordine sulla modernizzazione e sulla maggiore aderenza della classe politica di sinistra ai totem ideologici dominanti (globalizzazione, democrazia diffusa, pacifismo ad oltranza, ambientalismo ecc. ecc.) ha segnato una vera e propria variazione antropologica – dai mezzi uomini quali erano ai vermi striscianti che sono attualmente – della sinistra che ha potuto de-zavorrarsi di tutto il suo passato mistico-moralistico berlingueriano (questo per far capire che la sinistra in Italia è sempre stata un verminaio di traditori i quali, tuttavia, erano in passato capaci di un po’ d’intelligenza politica) per consegnarsi al pieno post-modernismo di matrice anglobalizzata e completamente svuotato di contenuto politico. Il primo articolo è tratto da Il Giornale ed è a firma di Marcello Foa. Questi disegna puntualmente lo spettacolo di devastazione al quale la sinistra sottopone sé stessa e l’intero Paese, ma non è certo Obama – il creolo che rende appena più presentabili i sempiterni e ineradicabili poteri forti americani (il solito rinnovamento di facciata al quale il mondo servo degli Usa abbocca come il più stupido dei pesci) – che porterà nuova linfa alla sinistra internazionale e alla politica criminale a stelle e strisce (basta guardare ai consiglieri di quest’ultimo per farsi un’idea di come tutto cambi per restare perfettamente uguale a prima). L’unico vero regalo che Barack Obama ha fatto al mondo è stato quello di nominare Hillary Clinton quale Segretario di Stato. Almeno, la moglie di Bill non è precisamente un’aquila rapace come
n. 281 del 2008-11-23 pagina 1
UNA DÉBÂCLE EUROPEA
di Marcello Foa
Ma dov’è la sinistra? Che cos’è la sinistra? Qualcuno risponde: è Obama. Sì, in America. Ma in Europa no e in queste ore proprio Obama sta dimostrando che non ha nulla da spartire con il socialismo europeo. Per chi conosce gli Usa non è una sorpresa: da tempo la sinistra americana ha imboccato la strada del pragmatismo, del mercato, di una gestione ragionevole dello Stato. Barack è stato eletto promettendo il cambiamento, ma nel costruire la squadra del governo ha scelto l’esperienza, l’affidabilità, la tradizione. Due terzi dei collaboratori selezionati finora provengono dall’Amministrazione Clinton, inclusa Hillary che guiderà la diplomazia Usa. E la nomina più significativa è quella del ministro del Tesoro, che non è un intellettuale anti-sistema e men che meno no global, ma il giovane presidente della Federal Reserve di New York, Timothy Geithner. Un uomo dell’establishment che dovrà far uscire l’America dalla crisi non rivoluzionando il sistema, ma correggendo le sbandate, riportando la barra leggermente al centro, ma di certo non a sinistra. La missione è chiara: Barack Obama non vuole essere un Chavez, né un Morales e nemmeno un leader socialdemocratico scandinavo; semmai un nuovo Bill Clinton, il presidente della rinascita economica degli anni Novanta. La rotta è definita ed è in piena sintonia con l’identità di un moderno partito riformista anglosassone.
Ed è questa la differenza con le sinistre europee continentali, che in questi giorni non solo dimostrano la loro inadeguatezza, ma sprecano l’occasione di una vita, perché una crisi economica violenta come quella che stiamo vivendo, avrebbe dovuto favorirle. E alla grande. Invece no. Spinge il centrodestra europeo, che anziché affondare, risorge; con dinamismo, immaginazione, flessibilità. E il centrosinistra? Tace, al più borbotta con lo sguardo rivolto al passato più che al futuro.
Il Partito socialista francese ha un nuovo leader. È una donna, bene. Ma si chiama Martine Aubry ed è colei che inventò le 35 ore settimanali. Sì, è l’icona della «gauche plurielle» di Jospin, che andava di moda dieci anni fa. È questo il nuovo corso di Parigi? Ma se avesse vinto Ségolène Royal, sconfitta per un manciata di seggi, il quadro non sarebbe stato molto diverso, perché «Ségo» rappresenta un cambiamento di sola immagine: le idee latitano; oggi, come un anno fa.
E dov’è finito il Partito socialdemocratico tedesco? Da un mese ha un nuovo leader, il ministro degli Esteri Franz-Walter Steinmeier, ma non ancora un programma, né una visione della società, né una vera ambizione politica, se non quella di rinverdire i fasti della vecchia socialdemocrazia.
La sua è una crisi identitaria grave, ma certo non paragonabile a quella del Partito democratico italiano, che non ha nemmeno una tradizione a cui richiamarsi. Anzi, il problema del partito di Veltroni è che non ha ancora fatto i conti con il proprio passato. A quale famiglia ideologica appartiene? A quella socialista o a quella democristiana? La lite sull’adesione al Partito socialista europeo non è strumentale, né episodica, ma forse è la più seria tra le tante che da mesi tormentano il Pd. Perché riguarda i valori, riguarda l’appartenenza, ovvero l’anima di un partito convinto fino a ieri che l’antiberlusconismo fosse una ragione sufficiente per vivere e che ora, per non sparire, si aggrappa a un altro mito: quello di Obama, il simbolo di un riformismo proiettato in un futuro indefinito le cui radici non sono né rosa, né biancocrociate. Come se davvero bastasse l’intenzione per trasformare un Pd cacofonico e debilitante in una realtà coesa ed evoluta guidata da un leader credibile, anziché dal solito Barack de noantri.
http://blog.ilgiornale.it/foa
Rive gauche Guerra civile in un partito ormai finito
di Peppino Caldarola
La guerra civile divampa nel Pd. Come negli stati africani post-coloniali disegnati a tavolino o nella Cecenia post-sovietica. Le etnie, faticosamente costrette negli stessi confini nazionali, si separano e si fanno guerra sanguinosamente. La pace nel Pd è impossibile. Il sogno dell’unico grande partito riformista è lacerato ormai da uno scontro senza precedenti. Villari, il senatore ribelle a capo della Vigilanza Rai, ha acceso la miccia. L’etnia veltroniana lo accusa di aver favorito il clan dalemiano. Quest’ultimo aveva sperato, infatti, che l’incursione del soldato Villari avrebbe fatto saltare lo stato maggiore avversario.
Come in tutte le guerre civili è difficile stabilire chi abbia sparato il primo colpo. Solo gli antropologi conoscono la risposta sul perché della guerra. Le due etnie, quella veltroniana e quella dalemiana, a cui si aggiungono gli irrilevanti clan di derivazione post-democristiana, si sono contrapposte fin dagli anni in cui erano tenute assieme nell’ultima stagione della grande entità comunista. L’etnia veltroniana si alimenta del mito della «diversità» inventato dal gran sacerdote Enrico Berlinguer per tenere assieme, di fronte all’assalto della modernità, un impero ormai a pezzi. Per l’etnia veltroniana il nome non conta, neppure la storia ha un senso, tutto viene frullato nel disegno di un popolo puro che si separa dagli altri perché ha una guida al di sopra delle altre. Fuori di metafora, il mito veltroniano supera il dilemma comunismo-anticomunismo in nome di una superiorità morale talmente prepotente da distruggere le proprie radici. Prima ancora di diventare un mito di popolo, si afferma come mito delle classi dirigenti del Paese, alcuni gruppi editoriali in primis, che vedono nella leadership di Veltroni il superamento della vecchia sinistra e la condanna morale della nuova leadership berlusconiana. Intellettuali di rango, cineasti, giornalisti televisivi, magistrati, lobby economiche della finanza cattolica individuano in Veltroni il sogno della messa fuori gioco sia della vecchia sinistra sia della nuova destra di governo.
L’etnia dalemiana rintraccia le proprie radici nella storia del popolo di sinistra. Offre a questa storia una leadership che persino nel suo tratto psico-fisico – asciuttezza dei modi, aristocrazia nel carattere, ieraticità, autoritarismo pronunciato – fa risuonare tutte le vecchie corde. L’etnia dalemiana rivendica l’essere di sinistra, ma lo declina con gli strumenti della modernità e si avventura lungo i territori impervi dell’economia moderna, le banche, il potere economico, l’intellettualità tecnico-scientifica. L’etnia dalemiana sa di non poter vivere senza l’altro da sé ed elabora strategie per stringere alleanze o per venire a patti anche con gli avversari più riottosi. Le due etnie cercano invano un punto di accordo. Il breve regno di Romano Prodi, che ora si allea con l’uno ora con l’altro, sembra trovare un fragile equilibrio. Caduto Prodi, la guerra civile divampa. Spietata e irrefrenabile.
Non stiamo assistendo in queste ore a uno scontro per la segreteria del Pd. C’è anche questo in ballo. La guerra civile ha un’altra posta in gioco. Se restiamo nella metafora cecena o dello Stato africano post-coloniale, stiamo assistendo alla fase finale della guerra per il nuovo assetto della sinistra. Il Pd, o comunque si chiamerà, è finito dopo appena un anno. Chiunque vinca costruirà un partito diverso da quello progettato. È probabile che non ci sarà neppure un vincitore stabile fino a che i due clan resteranno costretti nei medesimi confini. Ha ragione Baget Bozzo, lo ha scritto su questo giornale, solo una scissione salverà la sinistra.
Oggi si fronteggiano una ipotesi neo-socialdemocratica che fa capo a Massimo D’Alema e il partito radicale di massa a forte impronta dipietrista di Walter Veltroni. Non possono stare assieme, ma neppure possono sciogliersi pacificamente. Se lo scontro fosse tra una parte radicale e una moderata sarebbe più facile una separazione consensuale. Tuttavia le due etnie sono distinte ma vivono da troppo tempo sul medesimo territorio, troppi i matrimoni misti e il meticciato, per separare un organismo siamese. È per questo che la soluzione più probabile è una guerra civile prolungata, che si accenderà e si spegnerà in continuazione. Non ci sarà pace e non c’è spazio neppure per i «caschi blu». L’auto-epurazione deve fare il suo corso. La storia, si sa, è cinica.
Peppino Caldarola
Finalmente abbiamo capito a cosa serve Liberazione!
Da tempo ci chiediamo a cosa serva Liberazione. Non che sia in cima ai nostri pensieri, ma neppure siamo i soli ad interrogarci sul mistero di questo giornale. Informazione poca, riflessione punta, italiano zoppicante, grafica da orticaria: a cosa serve Liberazione?
Molti lettori qualche risposta se la sono data, ed infatti hanno smesso di acquistarla. Al momento risultano soltanto 7mila acquirenti del Sansonetti-pensiero, ma il trend è tuttora verso il basso. La testata porta ancora la dicitura “giornale comunista”, ma il suo direttore dice espressamente che “si deve andare oltre”. Più che essere l’organo di Rifondazione, lo è della sua minoranza vendolian-bertinottiana. A cosa serva se lo stanno perciò chiedendo anche Ferrero e soci, che però devono tener conto degli equilibri interni, ed anche recentemente hanno deciso di allargare i cordoni della borsa per gettare un bel po’ di soldi nella voragine di questo quotidiano fallimentare.
A cosa serve, dunque, Liberazione? Finalmente, il 19 novembre, lo abbiamo capito.
Ed abbiamo anche capito che questi non hanno perso solo le elezioni. Hanno perso – ed è più grave – anche il senso del ridicolo.
“Vladimir Luxuria in finale all’Isola dedica il successo a chi l’ha criticata”. Con questo titolo Liberazione ci informa: a) di un successo politico-culturale che ci era sfuggito, b) del valore culturale e sociale dell’Isola dei famosi (ed anche questo ci era sfuggito), c) del torto marcio che ricade su chi aveva osato criticarla.
Il pezzo porta la firma di un certo Boris Sollazzo, ma se ricordiamo bene tesi analoghe erano già state sostenute mesi fa dalla più nota Rina Gagliardi.
E così il programma più spazzatura della Tv spazzatura viene elevato al rango di evento culturale e democratico. Culturale, perché Luxuria sarebbe stata “capace di rompere schemi e moralismi”, “portando sull’Isola temi forti”, proponendo la sua identità sessuale “in una tv ed in una nazione omofoba”. Democratico perché il televoto, a differenza del voto di aprile, ha premiato Luxuria.
Ci sarebbe da restare di stucco: il voyeurismo televisivo esaltato anziché criticato, la partecipazione diretta anziché la presa di distanza, i ben retribuiti sottoprodotti dell’industria dello spettacolo (i “famosi”, appunto, tra i quali va certo ricompresa l’ex parlamentare del Prc) presi a modello e mezzo per “avanzate” operazioni culturali!
A volte siamo distratti, ma avevamo già avuto un vago sentore del degrado avanzante che pervade la “sinistra” e da tempo sappiamo che al peggio non c’è limite, ma l’elogio di questa porcheria ci pare davvero insopportabile.
A qualcuno “porcheria” sembrerà troppo, a noi sembra troppo poco. Ieri Lina Wertmuller, parlando della conduttrice della trasmissione Simone Ventura, l’ha definita come una che “si occupa egregiamente in televisione di cose che ritengo abominevoli”. Ben detto!
Sollazzo, ad un certo punto del suo articolo, deve ammettere che Luxuria si è prestata alla perfezione ad un copione guardonesco e pettegolo (e per cosa l’hanno pagata, altrimenti!), ma è davvero divertente come l’argomenta.
Leggere per credere. Luxuria, scrive, “è anche caduta in qualche trabocchetto del gioco – nessuno è perfetto – come la gazzarra da cortile con la nemica Belén, in cui Luxuria si è fatta veicolo del pettegolezzo sul presunto adulterio della giovane sudamericana con Rossano Rubicondi, terzo marito di Ivana Trump, riproponendo l’irritante stereotipo dell’Eva contro Eva. Lo ha fatto per stanchezza, scarsa lucidità, irritazione. Ma proprio in quel frangente, forse, ha raccolto il suo maggior successo”.
Già, chissà perché proprio in quel frangente….!
Usare il cervello è un’attività che non ha mai fatto del male a nessuno, ma ci rendiamo conto che non possiamo pretenderla da un giornalista di Liberazione.
Ci rimane però un’inquietudine. Quel “dedico questa finale a chi mi ha criticato”.
Per favore, non ci dedichi niente. Intaschi la dovuta ricompensa (si dice circa 100mila euro già incassati per la partecipazione ed altri 200mila in caso di vittoria) e se ne vada su un’altra isola (con la minuscola). Per sempre.
In quanto al giornalista, comprendiamo che deve lavorare, ma il capitalismo per quanto orribile sia offre lavori senz’altro più dignitosi.
Siamo generosi e non vogliamo domandargli troppo: non gli chiediamo perciò di essere comunista, basterebbe fosse soltanto un po’ più serio. Ma dobbiamo essere onesti, il problema non è questo povero scribacchino, ma il giornale per cui lavora, degno prodotto del partito che ancora lo finanzia.
Detto questo, un merito glielo dobbiamo riconoscere. Sapevamo quanto Liberazione lavori al progetto vendolian-bertinottiano della “rifondazione della sinistra”. Già, ma quale sinistra? Ora lo sappiamo, quella dell’Isola dei famosi: a chi gli va, si accomodi.