CHE MALINCONIA! di Giellegi

Ricevo (fin troppo) spesso documentini sul comunismo e sull’anticapitalismo, analisi sulla crisi (su cui ho appena letto qualcosa nell’ultimo numero dell’Ernesto), polemiche tra gruppetti vari che si attaccano come ai “bei tempi” della III Internazionale, mail varie da parte di un sito che si spaccia per marxista, ecc. Credo, per carità, alla buona fede di chi mi invia il materiale; un po’ meno a quella di alcuni dei partecipanti a questi sterili dibattiti da “antiquariato”. Cattedratici, gente con posti più che “decenti” in banche, apparati “pubblici” (e altri, anche all’estero), con finanziamenti per i loro istituti, per mettere in piedi riviste, personaggi che pubblicano con Laterza, Boringhieri, Carocci, Jaca Book, ecc. Conosco bene l’ambiente e i veri critici non trovano troppa udienza. Da noi si dice: “qui non s’imbarcano cucchi”; non mi interessa però nulla scoprire l’inghippo, mi basta pensarlo.

Resto invece stupefatto per l’arretratezza di queste discussioni, di questi articoli, di queste analisi. Ho vissuto ormai abbastanza a lungo e mi sono avvicinato al comunismo nel 1953 (era settembre e, scherzosamente, dicevo ai compagni che volevo sostituire Stalin morto il 5 marzo di quell’anno). Quello che mi si sta inviando – e che solo in parte leggo (anzi adesso sempre meno) – ripete esattamente quanto si scriveva in quegli anni; il tempo si è fermato! Così, a volo d’uccello, ricordo che invece nella seconda metà degli anni ’60 ci fu un forte risveglio dal sonno dogmatico. Nel 1970-71 andai a Parigi a studiare con Bettelheim, e seguii tutta la scuola althusseriana; un vero “salto” in un’“altra dimensione”. Tornato in Italia, mi rammento del dibattito organizzato nel 1972-73 da “Critica marxista” intorno ai concetti di modo di produzione e formazione economico-sociale. E poi ancora riunioni, incontri; due convegni organizzati da “Il Manifesto” (a Milano e a Venezia) con grande partecipazione, fra cui quelle di Althusser, Bettelheim e tanti altri. Nel 1984 al Dipartimento di Studi Storici di Venezia (cui appartenevo allora), si organizzò un convegno, intitolato appunto 1984 (da Orwell), con l’intervento di Sweezy, Bettelheim e Aldo Natoli. E finisco qui, anche perché, pian piano, tutto è andato in seguito degradando.

In ogni caso, nelle occasioni di cui parlo, si tenne un livello di discussione che oggi parrebbe stratosferico; su argomenti che appaiono tuttavia irrimediabilmente datati e superati. Che cosa accade invece in questi documenti, siti e altro che insistono sul comunismo, l’anticapitalismo, ecc.? Siamo tornati indietro agli anni ’50! Qualcosa di assolutamente incomprensibile e inaccettabile. Fra l’altro, nei dibattiti degli “anni d’oro” di cui ho appena parlato, si era andati molto avanti nel criticare il comunismo così com’era stato inteso dalla tradizione. Diventava abbastanza evidente – anche se non fu chiarito come si doveva fino in fondo – che il comunismo di cui parlava Marx non aveva molto a che fare con quello di cui trattavano i comunisti (da me denominati piciisti) “ufficiali”, i quali lo vedevano quale semplice statalismo in forma hard (i socialdemocratici erano per quella soft). Una specie di ritorno a Lassalle più che a Marx. Inoltre, Althusser aveva ben chiarito l’ideologia sottesa alla coppia “pubblico/privato”, cavallo di battaglia di tutti i piciisti che identificavano appunto la “via al socialismo” quale estensione del “pubblico”, ecc. Adesso, mi trovo ancora di fronte a perfetti cretini – e ignoranti del dibattito di quegli anni – che riparlano dell’intervento di tale settore quale base per una politica che dovrebbe rilanciare le forze “comuniste”; e vogliono riorganizzarle su tali basi ormai squalificate dalla storia, fallite oltre ogni possibilità di dubbio.

Certo, non ci fu nemmeno allora la consapevolezza che la Classe (per antonomasia) non era per Marx quella in senso stretto operaia, quella di fabbrica (nemmeno si capì bene la differenza tra questa e l’impresa, esistente ormai da un secolo). Marx parlava di operaio combinato “dall’ingegnere all’ultimo manovale”, cioè di un “lavoratore collettivo cooperativo”, in cui si sarebbe ricomposta – ma non più in un singolo individuo – la scissione tra potenze mentali della produzione e lavoro manuale, e tra direzione ed esecuzione nel processo di lavoro, che in origine erano riunite nell’artigiano (e nel contadino). Tuttavia, lo ripeto, molti passi in avanti erano stati compiuti; tutti persi da questi dementi che oggi riparlano di comunismo e anticapitalismo in termini da età della pietra.       

Si pensi inoltre a come viene trattato Marx. Mi sono opposto a quei banaloni, per non dire di peggio, che lo vogliono relegare tra gli utopisti. Egli era uno scienziato, e come tale ha formulato una teoria geniale, stimolante, ma che deve essere ad un certo punto rivista e riformulata radicalmente proprio per continuare a sollecitare nuovi stimoli. Il grande filosofo (della scienza) Whitehead, nella sua importante opera Processo e realtà, riprese a piene mani il Timeo di Platone (non soltanto un’opera filosofica, bensì la summa delle conoscenze di quell’epoca), calandolo però nella realtà dei primi del novecento, fatta di un enorme cumulo di ulteriori acquisizioni della scienza moderna, fra cui la teoria della relatività. Così si trattano i grandi pensatori, così li si rivitalizzano. Se si fosse fatto un collage di citazioni dal Timeo (commentate con atteggiamento di pura deferenza e senza una visione critica), un lettore sprovveduto avrebbe esclamato: ma quante sciocchezze andava pensando questo Platone, così tanto incensato e studiato! Questi antiquati e limitatissimi pseudomarxisti odierni fanno passare per imbecille Marx; come minimo, consentono ai banaloni (o peggio) di cui sopra di sostenere impunemente che era un inguaribile utopista.

Quindi basta con questo falso marxismo – di gente che ha la stessa stoffa degli aristotelici antigalileiani – e basta con questo falso comunismo, un retaggio di Lassalle (o di Dühring). Con simili ottusi non si parla più. Anche perché questi gruppetti di pseudocomunisti e pseudomarxisti sono talmente arretrati – e hanno talmente azzerato i risultati del dibattito cui ho sopra appena accennato, tornando ad un primitivismo scolastico decisamente incredibile – che i loro piccoli leader “o ci sono o ci fanno”. Alla mia età e con la mia esperienza, io penso male (come Andreotti) e credo di cogliere nel segno. Abbiamo a che fare con furbastri, dediti a crearsi piccole enclaves di pensiero e azione falsamente critici, in realtà sterili e ridicoli, cosicché suscitano l’irrisione dei più e, intanto, impediscono che cresca una critica più moderna e avveduta. I dominanti – ma proprio i più parassiti e arretrati, in Italia quelli della GFeID con annessi i loro gruppi di sinistra moderata, che tengono i legami con quella “estrema”, sopportando le critiche di quest’ultima in un ignobile “gioco delle parti” – sanno bene come finanziare queste enclaves, come premiare i loro leaderini con onori universitari, editoriali, giornalistici e mediatici in genere, ecc.

Basta con le prese in giro. Tra i seguaci di questi gruppetti, quelli in buona fede si documentino circa la storia dei cinquant’anni passati, abbandonino questi furbastri e acquisiscano una nuova mentalità critica. C’è senz’altro bisogno di loro, ma lascino perdere certi incalliti intrallazzatori e strombazzatori “ultrarivoluzionari”, che sono sempre lì a cianciare intorno alla ricostituzione della prospettiva comunista. Se qualcuno crede ancora a simili tromboni per eccesso di fiducia e generosità, sempre pronti alla discussione. Altrimenti, per favore, ognuno per la sua strada; e sia chiaro che non ci s’incontrerà mai più! Il tempo stringe.