IL "NUOVO" OBAMA a cura di Giellegi

Questo è un articolo di G. De Bellis sul Giornale. Non contano i commenti, peraltro scarsi, bensì le notizie in sé e per sé; in particolare, direi, la riconferma di Gates a Ministro della Difesa. Non si vuol con questo sostenere che ormai i giochi sono fatti, che Obama sarà una copia di Bush. Nessun intento del genere. Solo ricordare agli scemi che hanno inneggiato alla vittoria del “nero” – ed infatti non hanno minimamente guardato alla politica dell’uno o dell’altro candidato, ma solo all’affermarsi del “politicamente corretto”, il nuovo conformismo odierno fatto di tanto buonismo verso i “diversi”, che vengono così relegati alla loro diversità (questo il “progressismo” di questi autentici reazionari e veri razzisti) – come la politica non dipenda da scelte personali di un Presidente o meno, ma da gruppi dirigenti. Quelli statunitensi, comunque tesi a mantenere la loro supremazia mondiale la più larga possibile e il più a lungo possibile, hanno però capito che occorrono mutamenti strategici; ma con molta prudenza e soprattutto non rinunciando al fattore nel quale gli Usa resteranno ancora per decenni il paese nettamente più forte: quello militare, e in subordine quello scientifico-tecnico. Si avrà spesso modo in futuro di fare i conti con la delusione dei deficienti che pensano ad una grande e potente nazione come fosse amministrata secondo i criteri di “un buon padre di famiglia”.

Giellegi  

i

 

ChicagoEcco la prova. Serviva una carta bollata, una certificazione ufficiale, un banco, un palchetto con lo stemma del presidente eletto, una lista di nomi conosciuta: l’America di Obama all’estero somiglierà a quella di Bush. La vuole forte, aggressiva, indipendente dalle organizzazioni internazionali, interventista, pronta persino a farsi nuovi nemici. Sinistra? Obama guarda al centro. Solo lì. Vuole governare, adesso. Nessuno poteva davvero credere all’illusione europea della svolta pacifista: il presidente eletto non è mai stato una verginella, non ha mai ceduto all’idea dell’internazionalismo, di una nuova era di chiacchiere all’Onu e di bei discorsi sul dialogo. L’ha fatto solo una volta in campagna elettorale e s’è leccato le ferite per mesi. «Sono pronto a trattare con alcuni dittatori», disse. All’epoca Hillary Clinton era la sua rivale nelle primarie democratiche e lo aggredì: «Dimostra la sua ingenuità e la sua inesperienza». Adesso Obama per gli esteri ha scelto proprio la donna che l’aveva messo in un angolo mostrandosi più presidenziale di lui. Messaggio? Di più. È la dichiarazione muta di uno che ha deciso di volere che l’America faccia ancora i suoi interessi nel mondo. Imperialista, nel caso. E individualista. «Siamo e sempre saremo gli Stati Uniti»: Obama lo ripete e non significa solo il mix di razze di idee, vuol dire anche che crede nel ruolo che gli Usa hanno avuto negli ultimi decenni. Per certi versi comprende anche la dottrina Bush che ha attaccato in campagna elettorale, ma che adesso dimostra di approvare almeno in parte. Robert Gates è stato confermato al Pentagono anche per questo, perché è considerato l’uomo migliore per portare avanti nei primi mesi del mandato la campagna in Irak e Afghanistan. Perché Obama ha scandito i tempi di ritiro da Bagdad e però vuole continuare a esportare il modello iracheno del generale Petraeus anche a Kabul. Ci vogliono più militari: li chiederà anche ai paesi alleati. Vuole vincere la guerra e vuole provare a prendere Bin Laden.

Vale anche per l’interno. Chi ha scelto alla sicurezza Nazionale? Niente giochi di partito, l’uomo è James Jones, ex comandante supremo delle forze Nato in Europa, amico fraterno del repubblicano John McCain. Jones ha persino cercato di aiutare McCain ad arrivare alla Casa Bianca partecipando a un comizio con lui. Jones è un altro personaggio che sarebbe stato perfetto anche per la presidenza Bush: Condoleezza Rice lo ha usato come inviato in Medio Oriente. Gates e Jones, Jones e Gates: secondo molti analisti Obama ha fatto una scelta che molto probabilmente avrebbe fatto anche McCain in caso di vittoria. Così il presidente si accredita con i repubblicani e fa irritare i liberal del suo partito. Non è un caso che il New York Times, il giornale che interpreta i pensieri dell’ala più sinistrorsa dei democratici sia stato il primo a mettere in dubbio le scelte della amministrazione obamiana: «Sta programmando di governare dal centrodestra del suo partito». Ai liberal concederà il trionfo dell’uscita dall’Irak, cioè il cavallo di battaglia che gli ha permesso di vincere le primarie contro Hillary che aveva appoggiato la campagna. Poi tornerà a farsi consigliare dalla parte più interventista dei democratici. Centro è l’idea. Centro è anche l’obiettivo. La politica estera è soltanto il punto più visibile. La convergenza arriverà anche altrove e Obama l’ha fatto già capire: non c’è aria di cambiamenti alla Corte suprema, cioè nell’unico posto dove un’amministrazione può cambiare l’orientamento politico e sociale del Paese. Oggi comandano i conservatori e Obama non se ne fa un problema. Non può farci nulla, perché la carica dei giudici è a vita, ma la verità è che a lui va bene una corte così com’è.