I MITI DI QUESTO SECOLO (Contro quelli che sparano cazzate su decrescita e bontà umana) di G.P.

 
Oggi come ieri ci troviamo ad affrontare un esercito di imbonitori sociali che con le loro idee balzane e fuori dalla realtà tentano di spostare l’attenzione dai fatti preponderanti e cruciali della fase storica verso utopie e proiezioni oniriche a buon mercato, adatte alle rappresentazioni favolistiche ma non al mondo concreto. Non a caso, la maggior parte di questi demagoghi si mostra al pubblico con l’aura del profeta incorrotto ma poi si scopre quasi sempre che, sotto sotto, cova in lui lo spirito truffaldino del venditore di pentole delle televendite che ci vuole rifilare a tutti i costi oggetti inutili.
Di questi pensatori dal sogno facile e reiterato è piena la storia, soprattutto quella dei periodi di decadenza e di crisi economica che generalmente annunciano il disfacimento delle vecchie strutture sociali e delle convinzioni ideologiche che sulle prime concrescono, le quali vengono appunto colpite a morte o almeno si trasfigurano irrimediabilmente in seguito al cambiamento dei tempi e della situazione politica.
In passato erano i veri socialisti, gli agitatori delle bisacce dei mendicanti, gli utopisti incalliti, i vessilliferi di queste idee vuote che inondavano di amore la società per costringerla, senza mai riuscirci, a ripiegare nostalgicamente su un passato inevitabilmente perduto.
Marx ed Engels ebbero per costoro sentimenti misti di commiserazione e di disgusto ma non rinunciarono mai a sbarrare loro il passo, a criticarli impietosamente in quanto le loro teorie di cartapesta rischiavano di avvelenare e di distogliere i proletari dalla necessaria trasformazione sociale che richiedeva un’analisi rigorosa dei rapporti di forza nell’ambito di un sistema capitalistico dal cui seno doveva emergere una nuova forma di organizzazione collettiva, non più sospinta dallo sfruttamento e dall’estorsione del pluslavoro nella forma del plusvalore.
E tutte le classi sociali, anche se con una partecipazione preponderate di quelle che rischiavano di perdere i propri privilegi, creavano e diffondevano profezie social-religiose per rallentare o esorcizzare il loro ineluttabile declino.
Il Manifesto del 1848 rappresenta, da questo punto di vista, un documento prezioso valevole allora ma anche, mutatis mutandis, ai giorni nostri. Sebbene le forme e le manifestazioni di questi inganni collettivi si siano ovviamente modificate resta la sostanza di un discorso critico che può ben essere calato sul nostro tempo.
Se in quella contingenza i nemici erano i legittimisti francesi o gli aderenti alla Giovine Inghilterra, da par nostro abbiamo a che fare con gli adulatori della legalità o i propugnatori dell’immobilità dei principi costituzionali eretti a verità assoluta. Quelli come questi alternano i lamenti per la corruzione dei costumi e delle leggi con i libelli che riecheggiano la grandezza del passato e lo spirito dei padri fondatori della Repubblica,  un andare avanti camminando all’indietro o, come direbbe Marx, una invocazione del passato come minaccia del futuro.
Ma i paragoni non finiscono qui ed anche noi siamo alle prese, proprio come i pensatori scientifici del secolo scorso, con un altro stuolo di piagnucolosi naturalisti appellanti le forze della natura sulla cattiveria sviluppista di un uomo che ha perso definitivamente il senno. Nell’ottocento si chiamavano socialisti piccolo-borghesi oggi si chiamano decrescisti o sostenitori della vita campestre e del cibo biologico. Entrambe queste categorie sociali però hanno un punto in comune, pretendono, dopo aver criticato le varie contraddizioni del sistema (che non comprendono mai a fondo), “di restaurare gli antichi mezzi di produzione e di traffico (per i propugnatori della decrescita si tratta di tornare all’economia di nicchia, alla filiera corta, alle produzioni biologiche tradizionali ecc. ecc.) e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, [per] rinchiudere di nuovo, con la forza, entro i limiti degli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione e di traffico, che li han fatti saltare in aria, che non potevano non farli saltare per aria” (Marx, Il Manifesto). Insomma, un misto di utopismo e di conservatorismo al quale auguriamo la stessa sorte che il Moro predice al socialismo piccolo borghese: “la depressione dopo l’ebrezza” (pare che ieri sia uscito un articolo intitolato “Marx e la decrescita”, non l’ho ancora letto ma non oso nemmeno immaginare che obbrobrio esso sia, considerando, in primo luogo, quale opinione nutriva Marx su certe sciocchezze utopistiche proferite nella comodità dei propri caldi salotti).
Un ulteriore approccio chimerico che qui vogliamo criticare viene messo in scena (o si mette in scena da sé) con tutto un carico pesante di sottigliezze dotte e di riferimenti culturali trasversali. Quest’ultimo si serve della grande filosofia e dei racconti comunitari per riscaldare i cuori dei dominati ai quali serve piatti ricolmi di cibo dell’anima che non riempiono la pancia ed indeboliscono le membra.
Questa assurda filosofia ci propugna un comunitarismo della fiacca e dell’esodo sociale che non sposta di un solo millimetro i rapporti di forza attraversanti il corpo sociale. E’ la filosofia della veste intessuta con i fili della speculazione aulica “ricamata di fiori retorici di begli spiriti, impregnata di rugiada sentimentale febbricitante di amore, questa veste di esaltazione”[rubo a Marx la sua impareggiabile capacità ironica nella descrizione di questi fenomeni ] comunitaria che pone l’UOMO al centro dell’universo (un uomo che esiste solo nella testa di questi pensatori e che non ha nulla a che vedere con quello fatto di carne ed ossa), è la filosofia arrogante, scienza delle scienze, che pretende di “librarsi sopra tutte le scienze speciali e darne la sintesi” (Engels). Di quale assurda sintesi si tratti lo vediamo con i nostri occhi e lo paghiamo sulla nostra pelle. Questa filosofia per divenire la prima delle discipline umane richiede un sacrificio troppo elevato, richiede che la Scienza, in tutti i campi del sapere, riconosca di essere un’ancella della filosofia dalla quale si deve far guidare per acquisire un superiore senso morale. Sarebbe la fine della scienza e delle scoperte che ci hanno migliorato la vita, quindi come afferma La Grassa“…la scienza, quella vera, vada comunque avanti senza porsi tanti problemi; tanto meno quelli morali che spesso nascondono ben altri inconfessabili motivi di potere.” G. La Grassa)
Parafraserò ancora Engels il quale aveva già visto giusto su questi temi affermando che se al posto della coscienza scientifica si mette la frase letteraria, al posto dell’emancipazione sociale mediante trasformazione economica (oggi aggiungeremmo soprattutto politica) si mette l’ “amore”, tutto deve sprofondare nella letteratura ampollosa che non conosce quel di cui parla così pretenziosamente e che, pertanto, deve ricorrere agli artifici della verbosità per celare la sua inconsistenza.
Peggio ancora, i suddetti filosofi dell’Uomo e dell’amore comunitario citano i grandi saggi dell’economia e della politica ma solo dopo averli svuotati della loro grandezza. Hegel, per esempio, pur essendo un idealista non concedeva nulla a questo falso moralismo buonista: “Si crede di dire una cosa grande quando si afferma che l’uomo è per natura buono; ma si dimentica che si dice una cosa ancor più grande quando si afferma che l’uomo è per natura cattivo”. Questa frase di Hegel viene così commentata da Engels “Per Hegel il male è la forma in cui si manifesta la forza motrice dell’evoluzione storica. E questo in un doppio senso: da un lato nel senso che ogni nuovo progresso si presenta necessariamente come un atto sacrilego contro qualcosa di sacro, come una rivolta contro il vecchio stato di cose che sta morendo, ma è santificato dall’abitudine; dall’altro lato nel senso che, a partire dal momento in cui appaiono i contrasti di classe [e quelli tra gli stessi dominanti], sono precisamente le cattive passioni degli uomini, l’avidità e la brama di dominio, che diventano le leve dell’evoluzione storica…”. Ed in questi termini Engels rivolge la propria critica anche contro Feuerbach il quale pur essendo stato il primo filosofo a riportare l’uomo sulla terra cade nella trappola dell’amore: “Ma l’amore! Sì, l’amore è dappertutto e sempre il dio miracoloso che deve aiutare a superare tutte le difficoltà della vita pratica: e ciò in una società che è divisa in classi con interessi diametralmente opposti…Amatevi reciprocamente, gettatevi gli uni nelle braccia degli altri senza distinzioni di sesso e di classe. L’illusione della riconciliazione universale!” Queste dottrine così esposte, sostiene Engels,  sono adatte a tutti i tempi, a tutti i popoli, a tutte le circostanze e proprio per questo non sono applicabili in nessun tempo e in nessun luogo e sono, rispetto al mondo reale, altrettanto impotenti quanto l’imperativo categorico di Kant.
C’è poco altro da aggiungere, da Hegel a Marx a Engels, passando anche per Balzac e Zola, tutti questi grandi pensatori hanno sostenuto che è nel male la forza motrice della storia, ciò che spinge l’uomo oltre i confini dell’esistente a raccogliere l’impulso inarrestabile al cambiamento. I nostri buonisti diventano pulviscolo insignificante di fronte a questi giganti ma restano ancora molto fastidiosi. Prima ce ne liberiamo meglio è per tutti.