UMANO, TROPPO UMANO di G.P.


L’articolo che vi propongo oggi è un antidoto contro il buonismo e i suoi “accidenti”, a favore di una lettura più seria dei vizi e delle virtù che contraddistinguono gli esseri umani e le società in cui essi si organizzano o “sono” organizzati. Si tratta di una vera e propria medicina, forse amara e disgustosa come solo i farmaci più curativi sanno esserlo, ma efficace per allontanare da noi quelle cattive favole umanistiche che descrivono l’uomo come naturalmente buono ed orientato a vivere in pace con i propri simili (a volte accade che sia così, a volte, nella maggior parte delle occasioni direi, proprio no!).
Queste valutazioni ottimistiche sulla natura umana hanno da sempre costituito la stella polare di filosofi, di filantropi e di tutta una genia di progressisti e di benefattori in presunta buona fede, ma anche il faro guida di ogni specie di imbroglioni pubblici e di malfattori di professione, in cattivissima fede, i quali giocando sull’ “equivoco” hanno raggirato gli uomini con belle storie di solidarietà ed empatia tra omologhi allo scopo di gabbarli e coltivare  meglio le proprie speculazioni.
Tutto ciò perché è molto difficile segnare il limite tra le alte intenzioni e i bassi istinti delle persone (termine che viene dal greco e che significa, non a caso, maschera), essendo tali caratteristiche inestricabilmente legate tra loro.
Le qualità umane innate, intese sempre con un’accezione positiva, hanno proiettato in avanti gli ideali dei pensatori “al miele” i quali, immaginando comunità future necessariamente più giuste di quelle esistenti, si sono abbandonati ad ogni tipo di visione ingegneristica oniricamente articolata. Tuttavia, qui cercheremo di mostrare che  anche gli stravizi della gente possono essere qualità estremamente determinanti per la tenuta della società e la sua crescente prosperità. Questo non nega affatto la legittimità della trasformazione sociale, del resto sempre auspicabile laddove il mondo nel quale si vive non è libero e fondato su un odioso sfruttamento del lavoro altrui, ma essa (la trasformazione dei rapporti sociali) non porterà con sé l’annullamento delle proprietà umane più ataviche, qualunque esse siano. Da questa primigenia incomprensione, come ha ben detto anche Gennaro Scala nel suo pezzo pubblicato ieri, si arriva a quella più abnorme per cui l’ideologia nega ostinatamente la piega degli eventi (i quali non seguono le leggi della volontà umana, c.d. Eterogenesi dei fini), tanto che “ogni tentativo di dar vita ad un ordinamento sociale finisce per non determinarsi, perché sempre insoddisfacente rispetto all' ‘ideale’. I comunisti ne sanno appunto qualcosa.
A questi filosofastri (come li chiamava Schopenhauer) dell’Uomo, rigorosamente scritto con la maiuscola, io dico che vedo gli uomini ma non l’ “Umanità” (nel senso di quel sentimento spasmodico verso il bene e il giusto di cui essi parlano), o almeno, quest’ultima riesce a nascondersi benissimo tra i difetti di ciascuno di noi dai quali è persino inseparabile. Come diceva B. Mandeville, spesso i vizi privati sono il terreno dove crescono i benefici pubblici. Di questo paradosso dovremmo parlare ai nostri simili perché “Una delle ragioni principali per cui così poche persone comprendono sé stesse è che la maggior parte degli scrittori insegnano agli uomini sempre quello che dovrebbero essere, e quasi mai turbano le loro teste dicendo loro quello che sono realmente”.
Già Carlo Marx rimase affascinato dai discorsi del medico olandese e li fece suoi come ho scritto altrove (Senza l’acqua della scienza l’albero della vita inaridisce, ripensaremarx.it) e come riporto anche qui integralmente:
 
“Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore compendi, eccetera. Un delinquente produce delitti. Se si considera più da vicino la connessione che esiste fra questa ultima branca di produzione e l'insieme della società, si abbandoneranno molti pregiudizi. Il criminale non solo produce crimini, ma anche il diritto penale e quindi anche il professore che tiene cattedra di diritto penale, e l'inevitabile manuale in cui questo stesso professore getta sul mercato generale i suoi contributi come 'merce'. Ciò provoca un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale che, come ci assicura un testimonio competente, il professor Roscher, la composizione del manuale procura al suo autore. Il criminale produce inoltre tutta l'organizzazione poliziesca e la giustizia penale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati, eccetera, e tutte quelle differenti professioni che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano le differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuove maniere di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche, e nella produzione dei suoi strumenti ha dato impiego a una massa di onesti lavoratori. Il delinquente produce un'impressione, sia morale che tragica, secondo i casi, e rende così un “servizio” al movimento dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto penale, codici penali e legislatori penali, ma produce anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie, come dimostrano non solo 'La colpa' di Müllner o 'I masnadieri' di Schiller, ma anche l''Edipo' e il 'Riccardo Terzo'. Il criminale rompe la monotonia e la calma tranquillità della vita borghese. Egli la preserva così dalla stagnazione e provoca quella inquieta tensione, quella mobilità senza la quale lo stimolo della concorrenza verrebbe smussato. Egli dà così uno sprone alle forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della eccessiva popolazione al mercato del lavoro, diminuendo così la concorrenza fra gli operai e impedendo, in una certa misura, la caduta del salario al di sotto del 'minimum', la lotta contro il delitto assorbe un'altra parte della stessa popolazione. Il criminale appare così come uno di quei fattori naturali di equilibrio, che stabiliscono un giusto livello e aprono tutta una prospettiva di 'utili' occupazioni. Si potrebbe dimostrare fin nei dettagli l'influenza del delitto sullo sviluppo della forza produttiva. Le serrature sarebbero giunte alla perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? E così la fabbricazione delle banconote, se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe forse trovato impiego nelle comuni sfere commerciali senza le frodi nel commercio? La chimica pratica non deve altrettanto alla falsificazione delle merci e agli sforzi per scoprirla, quanto all'onesto fervore produttivo? Il delitto con i suoi mezzi, sempre nuovi di attacco alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi mezzi di difesa, dispiegando così un'azione produttiva del tutto simile a quella esercitata dagli scioperi sull'invenzione delle macchine. E, abbandonando la sfera del delitto privato, senza delitti nazionali sarebbe forse sorto il mercato mondiale, o anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo, l'albero del peccato non è nello stesso tempo l'albero della conoscenza? Mandeville, nella sua Fable of the bees (1705), aveva già mostrato la produttività di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: 'Ciò che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto q
uello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base, la vita e il sostegno di tutti mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione[…]; è in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e […] nel momento in cui il male venisse a mancare, la società sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta”. Sennonché Mandeville era, naturalmente, infinitamente più audace e onesto degli apologeti filistei della società borghese”.
 
Sicuramente Mandeville era meno moralista di quanti oggi, comodamente sprofondati con i loro pesanti culi nel salotto di casa, ci propinano frugalità assoluta e ritorno alla morigeratezza dei costumi per salvare l’Uomo da un’inversione antropologica che sta divorando la sua natura deliziosa e quieta. Ma se l’uomo si è irrimediabilmente perduto, come ci dicono i filosofastri di prima, tanto da esser mutato antropologicamente, non si capisce perché dovrebbe essere possibile rendere reversibile il processo perverso,  peraltro semplicemente imponendo loro delle privazioni monacali. Ho letto anch'io gli scritti di pensatori come Adorno e Anders ma nonostante i tormenti e l'obsolescenza della razza, l'uomo mi sembra ancora uguale a sé stesso, disperso o ritrovato  a seconda delle epoche storiche.
Il fatto è che spesso gli intellettuali invece di pensare sognano, invece di sognare delirano e con i loro incubi ad occhi aperti salgono sul pulpito ad annunciare l’apocalisse a quelli che non vedono perché resi ciechi dalla crapula.
Seguiamo ancora Mandeville in questa lunga argomentazione:
 
“La prodigalità che chiamo nobile peccato non è quella che ha per sua compagna l’avarizia, e rende gli uomini irragionevolmente prodighi a favore di alcuni di ciò che hanno ingiustamente estorto ad altri, ma quel vizio amabile e di buona natura che fa fumare i camini e sorridere tutti i mercanti; parlo della genuina prodigalità degli uomini noncuranti e manti dei piaceri, educati nell’abbondanza, che hanno orrore per il vile pensiero del lucro e dissipano soltanto quello che altri si sono affaticati ad accumulare, indulgendo alle loro inclinazioni a proprie spese, che hanno di continuo la soddisfazione di scambiare oro vecchio per piaceri nuovi, e per la grandezza del loro spirito generoso sono accusati di disprezzare troppo ciò cui moltissimi danno un valore eccessivo. Quando parlo di questo vizio in termini così onorevoli, e lo tratto con tanta tenerezza e cortesia, ho a cuore la stessa cosa che mi ha fatto dare tanti epiteti pesanti al suo opposto, cioè l’interesse pubblico. Mentre infatti l’avaro non fa del bene a sé stesso, ed è dannoso per tutti gli altri, tranne che per il suo erede, il prodigo è una benedizione per l’intera società, e non danneggia altri che sé stesso. È vero che, molti dei primi sono furfanti, così come i secondi sono tutti degli sciocchi: ma sono dei bocconi con cui il pubblico può banchettare deliziosamente, e, allo stesso titolo con cui i monaci sono chiamati dai francesi le pernici delle donne, possono essere detti le beccacce della società. Se non fosse per la prodigalità, nulla potrebbe compensarci per la rapina e l'estorsione dell'avarizia al potere. Quando muore un avido statista, che ha passato l'intera vita a farsi grasso con le spoglie della nazione, e che con i furti ha ammassato un tesoro immenso, ogni buon membro della società dovrebbe gioire, contemplando la prodigalità del figlio. Costui restituisce al pubblico quanto gli era stato rubato. Riprendersi ciò che era stato concesso significherebbe spogliarlo in modo inumano, e non sarebbe bello rovinare un uomo più in fretta di quanto stia facendo, soprattutto se vi ci si è messo con tanta serietà. Non alleva un numero immenso di cani di ogni razza e taglia, pur non andando mai a caccia, non mantiene più cavalli di qualsiasi nobile del regno, pur non cavalcandoli mai, non concede ad un brutta sgualdrina una somma che manterrebbe una duchessa, pur non giacendosi mai con lei? Non è ancora più dispendioso per le cose di cui fa uso? Allora, lasciatelo in pace, o lodatelo, chiamatelo un signore pieno di spirito pubblico, nobilmente liberale e splendidamente generoso, e in pochi anni si spoglierà da solo. Finché la nazione riceve indietro il suo, non dovremmo stare a discutere circa il modo in cui il bottino viene restituito. So che molti uomini moderati, mi diranno che la frugalità potrebbe benissimo prendere il posto dei due vizi di cui ho parlato; che se gli uomini non dissipassero in tanti modi la ricchezza, non sarebbero indotti a tante pratiche cattive per metterla insieme; e quindi che lo stesso numero di uomini, evitando entrambi gli eccessi, potrebbero rendersi più felici e meno viziosi. Chiunque sostenga questo, si dimostra migliore come uomo che come politico. La frugalità, come l'onestà, è una virtù mediocre e malnutrita, adatta soltanto a piccole società di uomini buoni e pacifici, disposti ad essere poveri pur di stare tranquilli; ma in una nazione grande e indaffarata, presto non saprete più che farvene. È una virtù oziosa e sognatrice che non dà lavoro, e quindi è del tutto inutile in un paese commerciale, dove sono in molti a dovere essere messi in un modo o nell'altro al lavoro”.
 
Paradossi? Può darsi, ma non è stato proprio uno di questi filosofi dell'Uomo e della Comunità a sostenere che è sempre meglio un paradosso invece della reiterazione di concetti banali e false verità politically correct?
Il discorso di Mandeville, nonostante quello che possa apparire, non è una semplice rassegna dei vizi umani e della loro inestirpabilità dalla natura delle persone. L’autore dà una dimensione sociale al suo ragionamento, in primo luogo puntualizzando che la grandezza e la potenza delle nazioni è inseparabile da dette storture, quindi poichè gli uomini dimostrano di  apprezzare nei fatti le comodità della vita, non possono poi lamentarsi troppo delle “esternalità negative” dell'abbondanza di cui godono, né battersi il petto come degli ossessi per la deriva deleteria delle società umane che, a causa dell’inquinamento o della corruzione dei costumi, starebbero per affogare in un mare di nequizia. Se alla gente venisse in mente che “ciò che li disturba è il risultato dell'abbondanza, del grande traffico e dell'opulenza di queste grandi città, allora, purché abbiano a cuore il suo benessere, difficilmente vorrebbero che le sue strade [l'autore si riferisce alla Londra della prima metà del '700] fossero meno sporche…Ora vorrei sapere se un buon cittadino, in considerazione di quanto si è detto, non possa affermare che le strade sporche sono un male necessario, inseparabile dalla felicità di Londra, senza che ciò costituisca il minimo impedimento a che si puliscano le scarpe o si spazzino le strade, e quindi senza alcun danno per i lustrascarpe o gli spazzini”. Mandeville è talmente sincero, al contrario dei nostri predicatori contemporanei, che aggiunge anche quest’altra argomentazione al suo discorso: “Ma se mi si chiedesse, senza considerare l'interesse o la felicità, in quale luogo io consideri più piacevole passeggiare, non si può dubitare che alle strade maleodoranti di Londra preferirei un giardino profumato o un boschetto ombroso. Allo stesso modo, se mettendo da parte ogni grandezza e vanità mondana, mi si chiedes
se dove penso che gli uomini abbiano maggiore probabilità di godere della vera felicità, anteporrei una piccola società pacifica in cui gli uomini, né invidiati né stimati dai loro vicini, vivono contenti del prodotto naturale del luogo in cui abitano, ad una grande moltitudini ricca e potente, sempre intenta a fare conquiste con le armi fuori dalle frontiere, e a corrompersi col lusso straniero in patria”.

Non vado oltre poiché se curiosità avrebbe dovuto nascere in chi non ha ancora letto queste note di Mandeville essa sarà di certo sorta in maniera poderosa e chi vorrà potrà completare il percorso leggendo interamente “La favola delle Api”. Infine, mi sia consentita l'ultima citazione che rincalza quanto scritto da La Grassa nel suo ultimo pezzo presente nel blog “Meno (BASTIAT)LITE’, per favore”, ma presente in tutta la teoria degli agenti strategici, circa il pugno invisibile della politica che si agita dietro la mano invisibile del mercato. Ecco cosa ne pensava Bernard Mandeville:
 
“Gli affari esteri devono essere condotti con prudenza, e il ministero di ogni nazione deve disporre di un buon numero di spie e di informatori all'estero, ed essere a conoscenza degli atti pubblici di tutti i paesi che per vicinanza, forza o interessi possono essere di vantaggio o di danno, per poter prendere di conseguenza le misure necessarie, ostacolando alcuni e favorendo altri, secondo che la politica o l'equilibrio delle forze richiedono…queste sono le arti che conducono alla grandezza terrena”.
 
Ecco come si fanno funzionare le leggi del mercato allorquando la “prepotenza politica” ha già stabilito, imponendo determinati rapporti di forza tra i paesi e le “classi” sociali, le apparenti regole del gioco che dovranno valere in tempo di pace e di stabilità mondiale. Fino alla prossima fase di disordine che rimescolerà ancora le pedine della grande partita a scacchi delle Potenze. Noi viviamo precisamente in questo periodo.