LA PARTITA DOPPIA DELL’IDEOLOGIA EUROPEISTA di G.P.
I 750 mld di euro stanziati a sostegno dell’eurozona hanno scatenato la sempiterna battaglia ideologica tra mercatisti e sostenitori dell’intervento istituzionale in economia.
I primi, come al solito, si dicono preoccupati per questa dose da cavallo di soldi pubblici che saranno iniettati nel sistema economico europeo, col rischio di drogare il mercato e produrre alla lunga più guasti che benefici; i secondi, d’altro canto, europeisti fino al midollo, ma nel verso più errato, si aggrappano al discorso unitario e all’importanza di preservare l’attuale impalcatura dell’Europa "inclusiva" per competere economicamente e finanziariamente con i giganti geopolitici ridestasi o emersi nell’epoca contemporanea. Per fare questo, sempre a loro parere, c’è bisogno di una moneta forte disposta a parare e scoraggiare gli attacchi della speculazione anche con mezzi “non ortodossi”, attraverso una flessibilità di regole che tenga insieme tutta la baracca per il bene dei popoli continentali.
Di orizzonte strategico e di discorso politico in questi ragionamenti non vi è quasi nulla e ciò si avverte dalla pletora di pretesti che ciascuna scuola deve inventare per puntellare la propria parziale e riduttiva visione dei processi storici in evoluzione.
Facciamo due esempi per tutti. Nicola Porro (ma anche tanti altri che hanno una medesima impostazione liberista), sostiene che impegnare la Banca Centrale a comprare i titoli di Stati prossimi al fallimento è un errore madornale dal quale conseguirà un avvitamento ed una precipitazione ancor più veloce della situazione dei singoli deficit statali. Questo approccio, sempre secondo il giornalista, incrementerà l’appetito alla spesa pubblica dei governi con il risultato di accrescere la diffidenza dei mercati, fino ad un ancor più devastante tracollo generale. Mario Monti (e tutti quelli che la pensano come lui) invece, più volte membro della Commissione Europea, ha ribadito la giustezza della primigenia scelta di non lasciare fuori dal consesso comunitario anche le nazioni più deboli per impedire che su queste venisse esercitata l’influenza di altre potenze diverse dall’Europa. Principio sacrosanto nell’ottica di una logica di saldamento geostrategico che però egli stesso inficia subito dopo proferendo un’amenità di quelle che fanno drizzare i capelli sulla testa. La sua dichiarazione, che riporto a memoria, è più o meno di questo tenore: “Se non avessimo tenuto dentro anche Stati molto provati economicamente come Polonia, Bulgaria, Romania oggi questi paesi sarebbero tornati sotto il tallone di ferro dell’imperialismo sovietico”. L’economista varesino ha proprio detto “imperialismo sovietico” fingendo di ignorare che ad Est non esiste più una Unione Sovietica la quale, peraltro, anche nei tempi d’oro, di sovietico strictu sensu ha sempre avuto pochissimo (quasi nulla direi), mentre ha agito effettivamente come una Unione geopolitica opposta al blocco occidentale guidato dagli Usa. Questi grandi "padri" comunitari non hanno mai avuto le idee chiare sugli sviluppi evenemenziali che hanno rideterminato gli equilibri mondiali dopo la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Urss; per questo sono costretti a coprire la loro sindrome da “immunodeficienza” storica con un discorso ideologico banalmente anacronistico, nel migliore dei casi, del tutto pretestuoso e servile se lo leggiamo invece nella sua dimensione di attaccamento ad un tipo di alleanze (con gli Stati Uniti in primis), appartenenti ad una fase politica trapassata che tuttavia essi si ostinano a voler tenere in piedi per paura del domani.
Da queste pagine abbiamo criticato tante volte queste due concezioni del mondo, sia quella economicistica che quella "burocraticistica", grazie ad un struttura teorica e categoriale che ci ha permesso di accendere la luce sul vero leit motiv del multipolarismo in gestazione: il conflitto tra agenti strategici per la predominanza mondiale. E’ questo il punto focale sul quale occorre concentrarsi per leggere adeguatamente la dinamica delle “placche tettoniche” e quella dei rapporti di forza nel nuovo contesto globale.
Certo, occorre non cadere altrettanto banalmente nelle manie di persecuzione commettendo un errore speculare ai primi due, soprattutto quando si parla dei danni fatti dalla finanza. Ribadiamo che quest’ultima prende il sopravvento sulla scena sociale quando la decisione politica latita, e lo fa in maniera diversa a seconda degli ambiti nazionali. Nei paesi subdominanti e dipendenti da un centro di potere essa è in grado di creare gravi devastazioni, proprio come sta accadendo in Europa. Ma già negli States essa è stata ricondotta a più miti consigli, mentre sono gli stessi decisori politici americani a sospingerla nell’opera di destabilizzazione dei mercati esteri per far pagare agli altri i bisogni e gli eccessi del loro sistema. Non è dunque un caso se, per citare fatti concreti, le Agenzie di rating americane puntano a riprodurre il caos in casa nostra come ha ampiamente dimostrato la vicenda Greca. E non si può affermare, come ha fatto Federico Rampini su Repubblica del 10 maggio (giornalista che pure fino a questo momento aveva raccontato diligentemente le cause e l’evoluzione della crisi sistemica globale) che dette Agenzie truccano i dati quando hanno a che fare con i privati mentre sono oneste se si tratta di valutare i deficit degli Stati. A me qui sfugge il passaggio logico poichè sono abituato a credere che se uno imbroglia lo fa quasi in tutte le occasioni. Riaffermo che per il benessere e la tranquillità dei popoli europei è meglio mettere alla porta le merchant bank e le agenzie di rating che hanno contribuito a sconquassare e gettare il panico sui nostri mercati. Sarebbe solo un inizio per far capire agli statunitensi che non abbiamo alcuna intenzione di pagare la crisi per tutti, ma soprattutto per fargli entrare nella zucca che la nostra amicizia politica decennale non è più un fatto acquisito.