BASTA CON GLI A.B. NORMAL (di Giellegi 16 mag ’10)
In uno degli ultimi interventi di G.P. si parlava della divisione tra i veri mercatisti, che credono appunto alle virtù del libero mercato il meno possibile intralciato da interventi di autorità ad esso estranee (e viste sempre come almeno potenzialmente negative e ostili), e gli europeisti. Questi ultimi non sono statalisti, non hanno nemmeno una visione particolarmente keynesiana. Sono in fondo essi stessi cultori del mercato, ma lo vogliono pensare quale “alleato” della mirabile costruzione europea, in condizioni pietose soprattutto per merito di questi europeisti, che hanno contribuito alle condizioni demenziali imposte per mettere in piedi questo marchingegno fasullo, di tipo in fondo solo monetario, e con qualche milione di intralci burocratici e di regolamentazioni soltanto in grado di far impazzire chi dovrebbe agire nello “splendido” mercato allargato. Si è arrivati persino a stabilire le dimensioni o il diametro di certi prodotti agricoli, si era cercato di rovinare il nostro meraviglioso lardo di Colonnata per questioni igieniche, la cui stupidità supera ogni limite dell’immaginabile. Ho fatto solo banali esempi, ma chi opera nel mercato europeo può suggerirmi mille altre deformazioni mentali dei membri (pagatissimi) di questi organi superflui.
Non sono d’accordo né con i liberisti puri né con gli affetti da europeismo del tipo appena considerato, privo di qualsiasi concretezza, solo mosso da fumose buone intenzioni venate di idealismo utopico, che è quanto di peggio si possa immaginare per rovinare gli abitanti di un qualsiasi paese della nostra area. In effetti, molto meglio (o meno peggio) un sano liberista, concreto, che questi europeisti da tè delle cinque con biscottini e chiacchiere tra vecchie dame che ricordano i fasti del passato. Per spiegarmi meglio, farò un esperimento ideale.
Ho parlato spesso di come gli Usa hanno preparato le condizioni per la loro ascesa a prima potenza mondiale. L’evento cruciale fu la guerra civile o di secessione del 1861-65 che – l’ho ricordato più volte – è stata sanguinosissima. Si confrontarono l’Unione (del nord) e la Confederazione (del sud). La simpatica e nobile scusa, di cui Abramo Lincoln fu considerato l’idealista portatore, fu la liberazione degli schiavi. In realtà, la questione era molto prosaica. I confederati, agricoltori e produttori di cotone che andava a fagiolo per l’industria inglese, sostenevano le virtù del libero mercato e dunque del commercio internazionale senza intralci tra loro e l’Inghilterra. Questa era l’ideologia – sempre nobilitante i più sostanziali interessi, chiamati “bassi” quando l’evidenza dimostra che, senza soddisfarli, si fa la fame e nemmeno si pensa tanto; e quando si pensa, si dicono delle smisurate scemenze fuori di ogni concretezza – sostenuta, ad es., da Thomas Cooper, mediocre economista.
Il Nord non se ne diede per inteso, voleva sviluppare l’industria, utilizzando il protezionismo necessario per una certa fase iniziale di irrobustimento della stessa. Per ottenere tale risultato, dovette però schiacciare il Sud; e per schiacciarlo fu necessario non incrementare genericamente l’industria, ma in modo speciale quella delle armi, con tutte le innovazioni che questa comporta quando è messa alla frusta. Si ha qui la miglior dimostrazione di due fatti in un colpo solo: a) la politica decide infine circa le scelte da compiere, anche in campo economico, per affermare la potenza del paese; b) la politica (di crescita della potenza) ha il suo prolungamento nella guerra, in cui le scelte, anche nella sfera economico-industriale, conoscono la torsione specifica indispensabile all’efficacia della stessa.
Facciamo adesso il nostro esperimento ideale. Al Nord non vi era al comando un gruppo politico capace di esprimere la presidenza e la decisione di Lincoln. Vi era un rappresentante degli Unionisti che predicava le buone intenzioni di unificare il paese pacificamente, di mediare tra i vari interessi. L’ideale (cioè l’ideologia) di questo gruppo non era la liberazione dei neri dalla schiavitù (si poteva attendere ancora del tempo), ma l’affermazione di un paese che dimostrasse la sua capacità di risolvere pacificamente i problemi interni, pur diviso tra tanti Stati con interessi abbastanza divergenti. Si poteva riassumere questa transazione pacifica in due sostanziali clausole: a) dare soddisfazione al sud non introducendo dazi doganali sui prodotti industriali che avrebbero provocato ritorsioni inglesi a danno appunto dell’economia basata sulle piantagioni di cotone; b) si sarebbero però aumentate le imposte (anche al sud) per dare modo all’industria del nord di essere sovvenzionata in modo da superare il divario di efficienza e di costi rispetto ai concorrenti inglesi (concorrenti nel “libero commercio mondiale”).
Il presidente non Lincoln era veramente soddisfatto di questo accordo, che dimostrava come si fosse stati in grado di raggiungerlo in modo soddisfacente per tutti mettendosi attorno ad un tavolo a discutere in modo pacifico, con la volontà reciproca di non farsi del male e di sentirsi tutti uniti negli….. Stati Uniti. Ah, la meraviglia dell’Unità, fa compiere miracoli. Solo che, una volta raccolte le imposte, bisognava stabilire a quali impieghi dedicare i fondi, quali industrie sovvenzionare. Beh, innanzitutto, in nome dello spirito pacifico, non si sarebbe dato proprio nulla all’industria delle armi; a che sarebbe del resto servito, se l’accordo con il sud era stato siglato in perfetta armonia, tra sorrisi e abbracci e un nuovamente fiorito spirito di armonia e unità dell’intero paese? C’era l’Inghilterra con la sua potente flotta, ma insomma bastava non darle troppo fastidio. Si doveva cercare di lasciar perdere magari alcuni settori industriali fra quelli di punta, di maggior guadagno, ecc. per non infastidire tale paese, concentrandosi invece sugli altri; fra l’altro per questi ultimi esisteva un vasto mercato interno, il consumo delle masse americane avrebbe messo a posto tutto.
Dopo un po’, però, gli effetti delle scelte compiute erano modesti, l’efficienza dell’industria migliorava in modo stentato perché i “mitici” consumatori americani trovavano ancora convenienti i prodotti inglesi sia per qualità che per prezzo. Si decise allora di aumentare di un altro po’ le imposte, onde accrescere i sussidi alla propria industria (dislocata al nord). Si continuò a non centrare gli obiettivi prefissati; nel mentre i cittadini del sud cominciarono a protestare di nuovo perché si vedevano spillare soldi in imposte senza risultati, ma soprattutto senza alcun loro interesse, sempre concentrato sul cotone. Anche al nord più d’uno cominciava a fare le stesse considerazioni. Infine, due-tre concreti liberisti a tutto tondo sbottarono: la si smetta con i sussidi, si lasci che i vari settori economici competano in libero mercato e raggiungano così livelli soddisfacenti di produttività e di conseguente diminuzione dei costi; così facciamo il benessere dei consumatori. Ergo: si abbandonino molti settori industriali e si torni ad una sana agricoltura. Il sud ha il cotone, il nord faccia grano o cosa vuole. Poi ci si trovi attorno ad un tavolo con i “cugini” inglesi, cercando di migliorare i rapporti di scambio delle reciproche merci, sempre però tenendo co
nto della “specializzazione dei prodotti” che il libero interscambio mondiale impone.
Per fortuna degli Usa (non nostra), ci fu il “gruppo” che espresse Lincoln; esso manifestò la nobilissima intenzione di rendere liberi gli schiavi (non sempre trovando poi loro lavoro, a guerra finita, e magari consentendo ancora il razzismo per oltre un secolo) e si scatenò in una bella guerra, mantenendo i dazi, incrementando l’industria di guerra (che oltre che contro il sud serviva anche a livello internazionale, perfino contro i propri “cugini”); si ebbe Gettysburg e le altre varie “belle pagine di storia patria”, “Glory, glory, Allelujah” rese flebile “Dixie”.
Così gli Usa iniziarono la loro secolare ascesa a prima potenza mondiale. La superiorità del gruppo di Lincoln rispetto ai liberisti fu manifesta; ma, se si tiene conto dell’esperimento ideale, si constata anche la pur sempre maggior concretezza di questi ultimi di fronte ai “vorrei ma non posso” dei pacifisti, degli “armonicisti”, dei fautori dell’accordo che rende tutti contenti (all’inizio), insomma di quelli che, se si fosse verificato appunto l’esperimento ideale, sarebbero stati gli antesignani degli europeisti odierni.
Vi ricordate Frankestein junior? Gene Wilder (Frankestein) ordina all’aiutante Marty Feldman di andare in obitorio a trafugare un cervello per metterlo in testa all’automa di carne da rimettere in movimento tramite elettricità. Quando ciò avviene, la “Creatura” comincia a farne di tutti i colori. Gene Wilder “si lamenta” (eufemismo) con Marty e costui dice meravigliato: “ma io ho proprio scelto un cervello di qualcuno che dava garanzie: A.B. Normal”. Quello che successe poi, lo sa chi ha visto il film. Racconto l’episodio perché i mercatisti sono in fondo come Frankestein, credono di manovrare l’economia con metodi impropri. Gli europeisti sono però come Marty Feldman, scelgono sempre A.B. Normal (o forse sono essi stessi A.B. Normal).
Nessuno oggi pensa all’uso dei dazi doganali. Veramente, non troppo tempo fa, qualcuno (che va per la maggiore) pensò di metterli non sui prodotti tecnologici avanzati degli Usa ma sui tessili cinesi: come dire, nell’esempio fatto prima, difendiamo le nostre piantagioni di cotone e mandiamo in malora l’industria. In ogni caso, solo soluzioni politiche che dirigano verso una nostra potenza – o l’alleanza con le potenze in contrasto con l’Inghilterra odierna, cioè gli Stati Uniti – hanno un senso compiuto. Altrimenti, piuttosto che gli europeisti, il meno peggio consiste nei mercatisti, che ci consegnano invero alla subordinazione nei confronti della potenza predominante, ma con l’intento di consentire a quest’ultima di esercitare una preminenza in qualche modo regolatrice dell’interscambio tra settori diversi (e a differente grado di avanzamento), in cui andrebbero a “specializzarsi” i vari paesi succubi “beati” degli Stati Uniti.
Tuttavia, il mondo non è unipolare o monocentrico; e nemmeno bipolare come quello uscito dalla seconda guerra mondiale. Oggi, malgrado apparenti titubanze, del tutto in linea con l’epoca che si sta aprendo, sembra evidente l’incamminamento verso la situazione multipolare. Per di più, si è in presenza di un ancora più potente polo, che vede crescergli contro alcuni altri accanto a un discreto numero di subpotenze dette regionali. Non esiste più un primo mondo e un terzo mondo chiaramente dipendente e semicolonizzato o quanto meno decisamente sottosviluppato (o arretrato). Non esiste più quella situazione, che fece diventare di moda il principio di causazione circolare cumulativa (Myrdal) per cui il divario tra “nord” e “sud” (sviluppo/sottosviluppo) si sarebbe dovuto accentuare. Ormai, simili teorie appartengono ad un passato talmente passato da sembrare perfino “sognato” (e forse in effetti lo fu). In ogni caso, siamo proprio alla ben più concreta e “sanguigna” tesi leniniana circa lo sviluppo ineguale, che riguarda però non le poche potenze imperialistiche di oltre un secolo fa, ma le molte potenze e subpotenze odierne; alcune già formatesi, altre in gestazione.
In questo mondo, anche l’approccio mercatista diventa fortemente dannoso; e tuttavia, ancora una volta, non così negativo come la fiera delle “buone intenzioni” dell’europeismo “guidato” da élites “illuminate”, che assumono sempre più l’aspetto di A.B. Normal. In ogni caso, occorre uno scatto in avanti. E’ necessario imparare a giostrare nel mondo multipolare. In Italia, nulla si vede a questo proposito. Qualche barlume in Berlusconi, e soprattutto in passato, ma troppo debole tanto che non sembra resistere. Forse in alcuni ambienti “trasversali”, del tutto minoritari, si intravedono qua e là barlumi di consapevolezza in tal senso. Troppo deboli però al momento. Spiacevole certo limitarsi ad una sorta di fotografia della situazione, ma non ci si può inventare quanto è ancora inesistente.
Una scelta però è chiara fin d’ora: bisogna liberarsi degli A.B. Normal. Stare attenti a coloro che parlano a bischero sciolto di europeismo, di Unione Europea, di decisioni comuni, ecc. Così come si devono smascherare quegli altri imbroglioni che intendono fondare un partito della Nazione, solo per opporsi alla Lega, per beghe quindi di nessuna rilevanza strategica. Questo ceto politico è ancora schierato per l’essenziale con la predominanza centrale degli Usa. Quest’ultima è finita o sta finendo. Gli attardati, qualsiasi etichetta si mettano (europea, nazionale, ecc.), sono nemici nostri, nemici degli interessi vitali del nostro paese. Le “masse” ancora non se ne accorgono, credono che siamo tuttora debitori dei “Liberatori”, del “mondo libero” contro l’“Impero del male”, ecc. Lo sforzo va prodotto contro i fossili di questa ideologia; in pratica quasi tutto il ceto politico, quasi tutta la grande finanza e l’industria di altre epoche, che gioca il ruolo che fu, centocinquant’anni fa, quello delle piantagioni di cotone della Confederazione. Addosso ai “confederati”, ci sarebbe bisogno di una moderna Gettysburg. E comunque, iniziamo da una critica feroce degli ancora imperversanti A.B. Normal, gli europeisti a bischero sciolto