CRISI E SMOBILITAZIONE DELL’EUROPA di G.P.

La crisi si sta dimostrando un fardello più pesante di questo previsto per l’Europa intera. Nonostante la stessa abbia avuto origine negli Usa e nel suo sistema finanziario, proprio come accaduto anche per la precedente catastrofe del 1929, sembra che oltreatlantico abbiano trovato il modo di scaricare le conseguenze della debacle sul Vecchio Continente, facendo pagare a quest’ultimo il grosso delle storture e dei guasti del sistema.
Esiste una sintomatologia piuttosto evidente di questo andamento “in picchiata” e le politiche d’austerità proposte in molti contesti europei, dove i tagli alla spesa pubblica si annunciano da lacrime e sangue, sono lì a dimostrarlo.
Vi è in primo luogo un approccio troppo difensivistico da parte dei principali governi continentali rispetto alla grave congiuntura economica, orientamento che viene espresso con cervellotiche decisioni “contabilistiche” non adatte a mettere a fuoco e ad affrontare i due elementi fondamentali alla base del terremoto globale in corso.
Innanzitutto, la crisi è geopolitica e discende dal riposizionamento delle principali potenze nazionali sullo scacchiere mondiale, con conseguente riconfigurazione dei rapporti di forza tra le stesse rispetto alla breve fase monocentrica che aveva visto gli Usa condurre, in solitudine, la partita della predominanza planetaria.
In secondo luogo, e in derivazione della prima circostanza, la crisi è sistemica poiché sfaldandosi, seppur lentamente, una determinata conformazione materiale dei rapporti di forza tra gli Stati (rimasta in auge per poco meno di un ventennio), tutta l’architettura organizzativa dell’economia e della finanza mondiale[1] subisce una pressione trasformativa la quale, con tutta probabilità, nei suoi esiti finali farà emergere più centri regolatori a livello globale. Questo è il multipolarismo, fase intermedia tra monocentrismo e policentrismo.
Altrimenti detto, il predominio Usa non è più sostenibile, laddove il suo campo gravitazionale viene limitato da altri raggi d’interazione scaturenti da corpi dotati di massa ed energia, i quali, esercitando una similare forza attrattiva su ciò che li circonda, allargano la propria sfera egemonica frenando l’espansione di quella americana.
Lo ha capito pure Brzezinski il quale, sebbene utilizzando un linguaggio “criptico”, ha parlato di un grado di risveglio mai visto prima nella storia dell’umanità che metterà in difficoltà qualsiasi potenza. In realtà, sono soprattutto gli Stati Uniti che si troveranno con grandi problemi da risolvere, poiché ogni cambiamento e spostamento delle pedine sulla scacchiera geopolitica comporterà delle reazioni a catena che non sempre sapranno governare proprio perché i destini del mondo non sono più nella loro totale disponibilità. Tutto ciò sposterà l’asse dei rapporti di forza verso una diversa conformazione geopolitica dalla quale potrebbe conseguirne, ma non è un fatto assiomatico, un indebolimento della superpotenza americana a vantaggio di paesi come Cina, Russia, o gruppi di nazioni che si stanno organizzando a livello regionale per esercitare una sovranità “allargata” in antitesi a quella americana.
Quest’epoca di subbuglio, densa di pericoli e di opportunità, non arride però all’Europa la quale essendo un entità  senza consistenza politica, non è capace d’interpretare il flusso della storia e di inserirsi nello spazio geografico in fermento con una propria identità. Prova ne è il fatto che in questa smania di mettere a posto i conti si amputano le spese per la difesa senza ponderarne la portata. Tralasciando il caso delle economie più deboli come quelle di Grecia, Portogallo, Spagna o Austria preoccupa l’atteggiamento di Berlino che sta pensando alla chiusura di basi, alla riduzione degli effettivi militari (si parla di cifre a cinque zeri), al fermo dei Typhoon e bombardieri Tornado, nonché alla dismissione di sottomarini e motovedette. Come si legge in un articolo pubblicato sul Sole24ore, intitolato appunto “Vecchia Europa in disarmo”, questa tendenza alla smobilitazione bellica attraversa un po’ tutti gli ambiti nazionali. Anche la Francia si appresta a ridurre le spese della difesa di qualche miliardo di euro e nemmeno l’Italia si sottrae a questo piano inclinato della demilitarizzazione forzata annunciando, risparmi tra 1 e 1,5 mld di euro con grave nocumento per l’ammodernamento tecnologico dei propri armamenti e l’addestramento dei reparti. Paradossalmente gli unici sforzi che l’Europa non alleggerisce sono quelli per le guerre imperialiste volute dagli Usa (Afghanistan e Iran), scenari dove invece occorrerebbe risparmiare energie, sia per ragioni economiche che squisitamente politiche.
Saltando un po’ di palo in frasca, forse è il caso di criticare anche lo spirito (ma non necessariamente i provvedimenti che ne sono usciti) col quale il governo italiano sta affrontando la fase economica di crisi nazionale. Ciò che non va assolutamente attiene all’idea che, tutto sommato, basta tagliuzzare a destra e a manca per recuperare un po’ di vitalità, almeno fino a quando il trenino della ripresa non si sarà rimesso a “ciuffare” per trainarci oltre il guado. Ma farsi abbracciare da questa mentalità sparagnina, solo per accontentare i  mercati e la dittatura bancaria, potrebbe finire per aggravare  la situazione.
I decurtaggi alla spesa hanno un senso solo se affiancati da misure di bilancio utili allo sviluppo. Spesso sentiamo ripetere che gli italiani hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità, che lo Stato non può più assistere i cittadini dalla culla alla bara o non può far scavare ad essi buche per poi riempirle, sposando acriticamente un'ottica assistenzialistica ormai dannosa. Ma non sono stati gli italiani a far degenerare tali strumenti, piuttosto le responsabilità sono da attribuire a classi dirigenti incompetenti che si sono servite della leva del deficit non per riattivare la crescita ma per creare bacini elettorali e clientele varie a sostegno dei loro appannaggi oligarchici.
Invece, scommettere sullo sviluppo significa saper allargare i cordoni della borsa quando è utile farlo, favorendo le azioni di penetrazione dei mercati esteri da parte delle grandi imprese di punta e di quelle con grandi capacità di innovazione, che pure in Italia esistono. Se, al contrario, qualcuno crede che il nostro futuro dipenda da ciò che farà la Fiat a Pomigliano è inutile anche che continuiamo a spremerci le meningi o a imporci inutili sacrifici.
 
 
[1] ‘La crisi economica (con la finanza “in anticipo” per quanto già sopra rilevato) riguarda la “superficie” del sistema sociale, è un “sintomo”; certo doloroso, che colpisce in modo particolare la popolazione. Tuttavia, è esattamente quanto accade durante i terremoti, “semplici” fenomeni di superficie, sintomo ed effetto di grandi scontri tra placche tettoniche a ben maggiore profondità; sono tali fenomeni ad essere avvertiti come sconvolgimenti, piccoli o invece catastrofici, dalla popolazione delle zone colpite. Le crisi economiche più gravi interessano l’intero globo perché il sistema capitalistico è un sistema mondiale… Le crisi economiche (i “terremoti”) sono dunque effetti di uno scontro tra “placche tettoniche”, cioè fra i diversi paesi, o gruppi di paesi “alleati&rd
quo; (in forma sempre provvisoria), in reciproco conflitto più o meno acuto nelle diverse fasi dello “scorrimento” storico’. Gianfranco la Grassa, La Crisi (uno schema succinto), disponibile sul sito ripensaremarx.it