IL CAPITALISMO DI STATO ITALIANO: TRA IL “WELFARE” E IL CAPITALISMO USA di G. Duchini

    

    Il crollo in Usa di Wall Street, del ’29,  rappresentò il lato oscuro di una crisi economica più generale, anche se ben visibile nei suoi effetti politici;  una ovvia e conseguente accelerazione di processi storici, già in corso, come quelli del fascismo e del nazismo, e con essi della difesa ad oltranza dei grandi apparati industriali di Stato finalizzati ad una loro (ri)conversione in industrie di guerra.
    Così avvenne con la costituzione dell’Iri (Istituto della Ricostruzione Industriale) durante il fascismo (1933). Si trattò di una reale Ricostruzione industriale che faceva seguito ad una grave crisi dell’industria nazionale, della Prima guerra mondiale, ed in forte difficoltà nei mercati interno ed estero, oltre a quella  finanziaria  per i prestiti di guerra concessi e da restituire agli ex alleati (Usa-Inghilterra); un’esperienza storica non dissimile alla repubblica tedesca di “Weimar”, finita sotto il dominio della  finanza Usa, che poneva sotto assedio l’intero sistema industriale tedesco (degli anni Venti) e poi salvata  dal nazionalsocialismo con il controllo della struttura politica dell’economia (cfr Franz Neumann “Behemonth – Struttura e Pratica del Nazionalsocialismo” )
       Si andò con ciò chiarendo un aspetto esiziale della storia di ciascun paese non più autonomo: quando uno stato ha interessi nazionali  dipendenti  da un altro, la propria economia si può salvare soltanto mettendo la politica al posto di comando, come avvenne nel nazismo o  nel fascismo.  
   Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in tutti i paesi occidentali si andò consolidando l’idea che il capitalismo di stato potesse avere una certa garanzia di sviluppo, grazie ad un maggior controllo pubblico sull’economia in una funzione anticrisi, nel sostenere la domanda e nell’intervenire nei vari aspetti del circuito produttivo; ai fini di una stabilità economica e del processo di crescita, si affermò l’importanza degli strumenti di direzione dell’economia nelle funzioni del Capitalismo di Stato ( inun mix ideologico tra Keynes e Marx).
    Una impostazione che verteva sulla funzione ambivalente dello Stato  nei caratteri del privato/pubblico, così come ci furono trasmesse dalle tradizioni dei governi destra/sinistra europei  fin dai primi del Novecento, e che in Italia, nel secondo dopoguerra, venne a configurarsi, con le strutture industriali lasciate in eredità dal “Ventennio” fascista, in un Capitalismo (Monopolistico) di Stato in grado di surrogare l’idea di un Socialismo di Stato: una  trasfigurazione ideologica del Pci,  che operò con una traslazione ideologica. Il Pci identificò il socialismo con lo statalismo, in derivazione del Lenin in “Stato e Rivoluzione” in cui, “ Il Socialismo non è altro che il passo avanti che segue immediatamente il Monopolio Capitalistico di Stato. O, in altre parole: il socialismo non è altro che il monopolistico capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che in quanto tale ha cessato di essere monopolio capitalistico”.
 
     Il capitalismo Usa, nel mentre si avvaleva, della sua lunga fase espansiva nei confronti dei capitalismi europei, grazie alla sua vittoriosa Seconda guerra mondiale, modellava in essi le funzioni manageriali più confacenti ad proprio predominio, in un irretito disegno politico di Stato Sociale (Welfare) europeo; una sorta di laboratorio sociale  entro cui contemperare i conflitti sociali con un sistema industriale a ridotta  competizione e sempre più a rimorchio del paese predominante; e con una conseguenza non da poco: come far convivere le  motivazioni ideologiche del comunismo novecentesco , con un irreversibile declino dell’industria in conseguenza di “una classe operaia che si fa Stato”,  cioè si fa carico dei sacrifici per ogni partecipazione di governo della sinistra.  
    Su quest’ultimo aspetto, l’Italia ha  rappresentato in Europa  un modello sociale  di  de-industrializzazione ad oltranza e fin dal 1972, anno in cui si registrò la  massima occupazione nell’industria di stato dell’Iri, mai avuta dal dopoguerra in poi e pari al 39%. Un periodo storico che coincide, all’incirca, con l’inizio del “Compromesso storico” tra la Dc e il Pci (1973), che ebbe un significato, non solo simbolico di incontro tra due  politiche diverse, ma di una reale inversione di funzione del Welfare, che fino ad allora  aveva accompagnato  una   crescita  in competizione. Quel “Compromesso” ebbe l’importante funzione di accompagnare il cambio di direzione del Capitalismo di Stato verso una ridotta crescita economica, e grazie soprattutto, al contributo della “mitica classe operaia”  rappresentata dal più forte partito comunista occidentale. Un tema che entrava direttamente entro il problema della rappresentanza politica di entrambi gli schieramenti: da un lato la Dc quale maggior referente politico di un sistema industriale di stato insieme a ceti produttivi e popolari; dall’altro il Pci, con una grande classe operaia, cooperative e un ceto medio diffuso tra pubblico e privato fino a comprendere categorie di lavoratori precari e non.
    E’con l’inizio della de-industrializzazione dell’intero sistema industriale italiano, che si registrò in Italia la prima sonora sconfitta della Cgil Fiat (sostenuta dal Pci di Berlinguer), come conseguenza della  vittoriosa “marcia dei 40 mila quadri dirigenti, di casa Agnelli”; con un conseguente riposizionamento sindacale su richieste di maggiori finanziamenti pubblici da concedere all’industria privata, come contraltare ad un declino inarrestabile dell’industria di stato, pur in presenza di una minore competizione sui mercati internazionali, in quella efficace definizione della “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”, e che contribuì  maggiormente alla formazione della “Grande Finanza e Industria Decotta”; un destino, del resto, non dissimile riservato  all’industria di stato che, con la presidenza di Romano  Prodi, riuscì a collezionare un deficit di bilancio  dell’Iri, pari a 20 mila miliardi di lire (di fine anni ’80),  sostenuto ad oltranza, dal Pci e sindacato, fino alla sua dissoluzione, con il beneplacito americano, attraverso “mani pulite.”(’92).
    Si andò, in pratica,  a configurare una sostanziale differenziazione dei processi organizzativi dell’industria italiana in un gioco al ribasso, non più rivolto ai prodotti innovativi; conseguenza fondamentale di una maggior pervasività finanziaria del Capitalismo Manageriale Usa (con le note Banche d’Affari Usa) nei confronti del capitalismo italiano, con  sempre nuove  duplicazioni societarie in un  perverso gioco delle apparenze, nelle caratteristiche reali di uno sviluppo industriale, non pi&ugrave
; competitivo e/o della “passata rivoluzione industriale”.

    
    Per dar luogo al via libera dei capitali Usa in Europa dai governi europei si invocò fin dai primi anni Settanta, la libera circolazione della Mano D’Opera. Si vennero in pratica a consolidare gli effetti sociali del capitalismo deindustrializzato: su una crescente differenziazione strutturale dell’organizzazione economica (delocalizzazione industriale e dei servizi) si estese sempre più “ una spinta individualizzazione delle condizioni di lavoro e di vita..l’economia tende a produrre nuova individualizzazione vale a dire maggiore diversità, professionalità e responsabilità personale nelle funzioni; sia in quanto produce anche attività dequalificate, precarie, in carriere non cumulative di esperienza…Le politiche eccessivamente liberiste e il ridimensionamento delle protezioni di welfare-state si sommano….A partire dagli anni Settanta le pareti tra economia e società sono diventate porose. Si sono diffusi nuovi attori collettivi fondati su identità più sociali che economiche, come il genere, la razza, l’etnicità, l’età, l’handicap, l’orientamento sessuale. Le azioni che questi attori collettivi pongono in essere ottengono leggi che si applicano direttamente nei luoghi di lavoro, e hanno conseguenze sulla governance delle imprese, si organizzano nei luoghi stessi della produzione,e assumono funzioni una volta riservate ai sindacati. La tesi generale che sta a monte è che il lavoro non è una attività definita e separabile dalle altre. Il lavoro continua certamente a esistere, ma non più nel senso che aveva nel mondo industriale” (cfr, A.Bagnasco, convegno del 5/06/2009 del “Consiglio italiano per le Scienze Sociali”).
    Insomma quanta acqua è passata, da quando negli anni Settanta il sindacato e la sinistra, al riparo di una grande industria di stato, dichiaravano beffardamente,  e con una certa sicumera che “il salario è una variabile indipendente”. Che cosa è rimasto del Capitalismo di stato anticamera del Socialismo? Soltanto una miserabile “economia sociale di mercato” che allude a un ruolo maggiore dello Stato, così come è stato evocato  da Tremonti ministro  dell’etica del mercato, nel significato di un nuovo compromesso sociale da trovare a tutti i costi! (vedi da ultimo il caso Fiat).
 
Gianni Duchini – giugno 2010