FIAT NON TI CREDIAMO di G.P.
Non appena arrivato a Potenza, nel 2004, trasferitomi dalla Puglia, incontrai degli amici del posto che mi parlarono con orgoglio delle grandi battaglie alla Fiat Sata di Melfi, dandomi da leggere libri che raccontavano storie di disagio operaio, di sfruttamento della manodopera, di reparti confino per i delegati sindacali e di vessazioni psicologiche per tutti quei salariati che non volevano piegarsi a ritmi lavorativi usuranti e a condizioni di esecuzione delle prestazioni pericolose, per di più effettuate in ambienti insalubri[1]. E’ la fabbrica integrata, in versione casereccia, bellezza! Questo pensai attingendo ai miei studi universitari sul modello della qualità totale, praticata prima di tutto nelle fabbriche giapponesi che ancora nei primissimi anni ‘90 sembravano capaci di esprimere una produttività inarrestabile, grazie alla stavano inondando di propri prodotti i mercati occidentali. Presto però il clima sarebbe cambiato anche lì e tutti gli agiografi del toyotismo e del Giappone, immaginato quale prossima prima potenza mondiale, si sarebbero miseramente defilati a causa della profonda crisi economica che avrebbe scosso il paese del Sol Levante fino ai tempi recenti.
San Nicola, impianto Fiat tra i più produttivi in Italia, aveva reagito all’arroganza della direzione piemontese e al suo “anacronismo innovativo” con un ciclo di lotte passato alla storia come la “Primavera di Melfi”. Quel movimento aveva portato alla luce il grande bluff dell’automazione flessibile, il mito della fabbrica integrata e delle macchine che facevano a meno dell’uomo ecc. ecc. Su questa leggenda il Lingotto si era basato per imporre le sue rivoluzioni di processo, importando anche in Italia, come appena ricordato, l’ohnismo o toyotismo, rigorosamente rielaborato in salsa piemontese con il ricorso ai soliti finanziamenti dello Stato e ai sempiterni ricatti alle maestranze, paventando, anche in quel frangente, la minaccia dell’espatrio (adesso è la Polonia, ieri era il Portogallo) pur di avere le mani libere su turnazioni, pause ed entità degli stipendi degli operai.
Ma il risultato sarebbe stato nuovamente penoso, ancora anni di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, fino ad ulteriori richieste di aiuti pubblici e al rischio di fallimento scongiurato solo per l'ingenuità della General Motors, la quale si vedrà costretta a versare agli Agnelli, per il mancato acquisto del gruppo stabilito contrattualmente, una penale di 1,55 miliardi di euro.
Ora ovviamente ci risiamo, si riparte da Pomigliano dove il referendum ha autorizzato Marchionne ad imporre le sue condizioni ma senza quella larga maggioranza che si aspettava. Sono convinto che dopo la fabbrica campana i vertici di Fiat non si fermeranno e cercheranno, sempre richiamandosi alla concorrenza agguerrita dei competitors stranieri, di fare altrettanto in tutti gli altri impianti del gruppo. Certo esistono delle esigenze reali dietro le richieste del management aziendale ma il suo atteggiamento passato non ci fa confidare sulle presenti intenzioni, propagandate con prepotenza nonché pretestuosamente avvoltolate in una ineluttabilità destinale che verrebbe imposta dai meccanismi della globalizzazione.
Non vi sono segnali concreti che lasciano immaginare una “inversione culturale” di Fiat, a meno che non si voglia davvero dare adito alle chiacchiere del Mago Marchionne il quale, appunto, fino a qualche mese fa seguitava a chiedere allo Stato l’allungamento della rottamazione per tutto il 2010.
Del resto, come ho già scritto altrove, la Fiat investe una miseria sulla ricerca e sullo sviluppo (in un settore dove la tecnologia è fondamentale non essendo più immaginabile una crescita meramente estensiva), solo 3,3 mld di euro rispetto ai 4,4 di Peugeot, 4,6 di Citroen e di Daimler, ai 5,2 di Volkswagen, ai 6,1 di Renault e agli irraggiungibili 12 mld Porsche.
Come li ha usati Fiat i 3 mld di euro che i vari governi gli hanno elargito nel solo periodo 1992-1999? In quale grande iniziativa per il recupero di produttività?
Gli operai hanno dunque ragione di lottare per i propri diritti, di resistere alle coercizioni e alle provocazioni della Fiat che dovrà adesso dimostrare sul campo di essere cambiata (cosa della quale legittimamente si può dubitare). Tuttavia, cerchino gli stessi lavoratori di stare lontano dai sindacalisti invasati che con le loro idee ottocentesche potrebbero spingerli in un ultimo e definitivo baratro. Le loro battaglie sono legittime se finalizzate a migliorare status economico e parametri di sicurezza sul posto di lavoro, ma non sposteranno di un millimetro i rapporti di forza sul piano politico che dipendono da ben altri fattori, checché ne dica la Fiom o chi per essa.
[1] Ho, in quegli anni, visitato l’impianto di Melfi riscontrando molte delle cose descritte dagli operai.