Imperialismo e sudditanza di G. Gabellini

Nel suo ultimo intervento, Gianfranco La Grassa ha messo in luce le affinità che accomunano l’attuale epoca multipolare, determinata dal sorgere di talune potenze locali e dal parallelo declino degli Stati Uniti, unica superpotenza rimasta dalla disgregazione dell’Unione Sovietica, con quella di fine Ottocento, che vide il tramonto dell’Impero Britannico e l’affermarsi dell’imperialismo. 
Se c'è un risvolto effettivamente tragico sortito dal collasso dell'Unione Sovietica, questo consiste nell'aver fatto venir meno una potenza che fungesse da contraltare allo strapotere economico, militare, finanziario e culturale degli Stati Uniti d'America. Il 1991 fu un anno cruciale, a cui è possibile ricondurre l'effettivo inizio delle sventure che ancora attanagliano l'intero globo terrestre. Il 1991 fu l'anno che segnò la definitiva dissoluzione del carrozzone socialista dopo anni ed anni di "svendite" del premio Nobel (sic!) Mikhail Gorbaciov da un lato, e l'instaurazione di un sistema mondiale monocentrico a guida USA dall'altro. Fu in quel fatidico 1991 che ebbe luogo la prima guerra "imperiale", che gli Stati Uniti condussero contro l'Iraq di Saddam Hussein in seguito all'invasione perpetrata da quest'ultimo ai danni del Kuwait, allo scopo di "ristabilire il diritto internazionale". Seguirono altri vari interventi, tutti riconducibili alla medesima matrice imperialista, fino al 1999, anno in cui la NATO (saldamente guidata dai falchi di Washington) "decise" (impose) l'intervento militare contro la Jugoslavia, allo scopo di interrompere il presunto (molto presunto) "genocidio" che i serbi, secondo gli aggressori, stavano perpetrando a danno della popolazione albanese del Kosovo. Tanto la prima quanto la seconda guerra "imperiale" sono state condotte senza l'autorizzazione del consiglio di sicurezza ONU, bypassato come sempre con la scusa dell'impellenza che richiedevano gli interventi, ma se la prima poteva in qualche lontano modo essere mascherata con bricioli di legittimità, in risposta alla scellerata aggressione dello stato sovrano del Kuwait da parte dell'Iraq, ciò non vale assolutamente per quanto riguarda la seconda. La seconda guerra imperiale fu una brutale aggressione dello stato sovrano jugoslavo, volta ad annientare quel briciolo di autonomia rimasto alla pur subordinata Europa. Il pretesto "umanitario" è il classico specchietto per le allodole, costruito ad arte per distogliere l'attenzione generale da questo enorme, inaudito atto di violenza. Lo stesso discorso è ovviamente valido anche per la prima guerra imperiale, con l'unica differenza che l'obiettivo di questa era il controllo geopolitico del Vicino Oriente. Alcuni osservatori offuscati dal dilagante economicismo moderno si affettarono a catalogare questi due interventi come prosecuzione del colonialismo "classico" ottocentesco; un colonialismo in sostanza mirato alla depredazione totale delle materie prime di un paese straniero occupato forzatamente. Costoro hanno dimostrato, in tutta la loro belluina dabbenaggine, di ignorare i fondamentali  fattori che determinano la dinamica di dominio geopolitico attuale, che non si basa più (solo) sulla disponibilità di materie prime. Contrariamente a quanto sostiene l'attuale "clero" giornalistico e intellettuale, si rende necessario ricorrere alla categoria di "imperialismo" descritta da Lenin per comprendere appieno questa dinamica, come indicato proprio da Gianfranco La Grassa in un suo breve ma intenso saggio risalente a una decina di anni fa. Lenin si accorse tempestivamente, denotando una notevolissima lungimiranza, che la nuova forma di imperialismo che andava delineandosi era caratterizzata dalla lotta tra le grandi classi imprenditoriali interessate da un lato ad accaparrarsi la fetta più grande dell'intero mercato mondiale, dall'altro al controllo delle aree più vaste entro le quali effettuare investimenti a medio e lungo termine. Evitare di prendere in considerazione questo fatto significa avallare, direttamente o indirettamente, la tesi secondo cui ai vertici del dominio mondiale si situino sempre e comunque quelle élite che, forti del potere politico e militare, sono in grado di esercitare un controllo diretto e verticale dello stato e di tutti i suoi apparati, esattamente come avveniva nella defunta Unione Sovietica. Il successo dell'imperialismo statunitense è dovuto al fatto che i meccanismi di riproduzione capitalistici sono in mano a poli imprenditoriali capaci di agire in tutti i settori strategici, che vanno da quello culturale, a quello finanziario, a quello sociale, a quello politico, a quello militare. La pressione che questi poli sono in grado di esercitare sui singoli stati, e che non esitano a mettere in pratica di volta in volta, è finalizzata unicamente al consolidamento dei suddetti meccanismi di riproduzione e alla valorizzazione capitalistica, mentre gli stati soggetti a tali pressioni "lavorano" per ingigantire le proprie aree di influenza entro le quali i poli imprenditoriali in questione possono a quel punto scatenare la terribile aggressività di cui sono capaci. Il vero dominio è quindi saldamente in pugno a questi agenti capitalistici ormai pressoché onnipotenti, ed è alla luce di questo concetto che vanno lette le aggressioni imperialistiche verificatesi qualche anno fa. Lenin ha fornito l'impianto teorico fondamentale per la comprensione di questa drammatica realtà, mentre le due guerre imperiali sopra descritte hanno dato modo di osservarne gli sviluppi pratici. L'Europa, affiancando gli Stati Uniti in entrambi gli interventi "umanitari" in questione, ha decretato il proprio suicidio politico, bissando il medesimo, ignobile risultato ottenuto con la “Pace di Versailles” che concluse Prima Guerra Mondiale. Gli Stati Uniti hanno capitalizzato le loro mire egemoniche sull’Europa  anche per mezzo di una capillare e intensiva campagna propagandistica filoatlantica, condotta in Europa, per loro conto, da un coacervo di sepolcri imbiancati e rinnegati del piciismo; gentaglia come Pierluigi Battista, come Marco Travaglio, come il mostruoso Giuliano Ferrara, come i firmatari del documento in favore del bombardamento sulla Jugoslavia Indro Montanelli ed Eugenio Scalfari (su quest’ultimo ci sarebbe ben altro da dire). Tuttavia, il rapido sviluppo di svariate potenze locali ha messo in scacco il monocentrismo a stelle e strisce. Gli Stati Uniti, in reazione a questo affronto, hanno iniziato da qualche anno a tessere trame neanche troppo oscure, finalizzate al riallineamento delle potenze europee sulla direttrice filoatlantica. Il fomentamento dei battibecchi tra Eni e Gazprom e l’inqualificabile attacco alla Finmeccanica sono infatti singole operazioni che si collocano nel più ampio progetto di smantellamento dei residui di autonomia italiana, progettate e messe in atto esattamente dallo stesso connubio resosi a suo tempo responsabile del golpe giudiziario denominato “Tangentopoli”, che ha utilizzato la corruzione come specchietto per le allodole per perpetrare lo smantellamento del tessuto sociale e industriale italiano, nel generale giubilo della Confindustria agnelliana e della grande finanza d’oltreoceano. Ancora una volta l’Italia si rivela l’oggetto primario del desiderio statunitense, e il suo assoggettamento prelude al dominio integrale americano su tutti gli altri paesi europei. Alcuni sono soliti accusare i sostenitori della necessità di prendere le distanze dallo Zio Sam di nutrire pregiudizi “a
nti – americani”. Altri, come Barbara Spinelli, hanno l’indecenza di sostenere che “L’antiamericanismo è l’humus che alimenta i violenti”. Alain De Benoist ha scritto: "L'antiamericanismo è oggi divenuto "anacronistico", abbiamo letto qualche tempo fa su un settimanale parigino. E' proprio vero. E' sempre "anacronistico" rifiutare l'occupazione del momento, opporsi all'ideologia dominante, non fare come fanno gli altri. Era "anacronistico" fare la Resistenza nel 1940. Era "anacronistico" non essere stalinista negli anni Cinquanta, di estrema sinistra negli anni Sessanta, socialdemocratico negli anni Settanta e liberale negli anni Ottanta. Oggi è ugualmente "anacronistico", Nietzsche avrebbe detto "intempestivo" o "inattuale", non accettare l'egemonia americana. Ma questo "anacronismo" è forse ancora il mezzo più sicuro per arrivare puntuali all'appuntamento con la storia. Cristoforo Colombo ha scoperto l'America un pò più di cinquecento anni fa. E' venuto il momento, per l'Europa, di dimenticarla e di riscoprire se stessa". Difficile dargli torto.