CONSIDERAZIONI DEL 12 SETTEMBRE (di G. Gabellini)
Tra miriadi di disgrazie, il collasso dell'Unione sovietica ebbe quantomeno il merito di rischiarare il paesaggio. Il passaggio dal bipolarismo USA/URSS al monocentrismo unipolare con epicentro a Washington segnò infatti l'avvento di un nuovo ordine mondiale, al cospetto del quale la stragrande maggioranza dei vecchi alleati di Mosca decise opportunisticamente di adeguarsi.
La portata dell'evento spinse molti inguaribili ottimisti "globalizzatori" alla Francis Fukuyama a proclamare l'avvenuta "Fine della Storia", che avrebbe sancito il trionfo della democrazia in ogni angolo del mondo, mentre altri, con un briciolo di sale in zucca, ritennero questa teoria del tutto campata in aria, e invitarono a diffidare delle possibilità di successo di questo tipo di "occidentalizzazione" forzata del resto del mondo. L'11 settembre 2001 fu il vero banco di prova per questi due opposti punti di vista, il primo molto più ideologico e universalista, il secondo estremamente realista e scevro di condizionamenti sovrastrutturali. Le destre e le sinistre occidentali, distanti nella forma ma fedeli nella sostanza alla teoria della "Fine della storia", reagirono all'evento replicando le loro consolidate idiosincrasie: a destra si sbottò, puntando il dito contro il lassismo e propugnando una politica più rigida e inflessibile nei confronti del "pericolo islamico", mentre a sinistra ci si limitò a condannare l'accaduto, bollato come conseguenza inevitabile dell'esasperato "estremismo religioso". Si tratta di due prese di posizione sterili, apparentemente divergenti ma in realtà perfettamente convergenti, in tutto e per tutto funzionali alla costruzione di un’ideologia nuova di zecca. Per la prima volta gli Stati Uniti apparivano infatti inermi, indeboliti e profondamente segnati dal colpo ricevuto. Le retoriche e accorate parole spese presidente Bush per commemorare le vittime portarono immediatamente molti interessati romanticoni a corrente alternata, anche nostrani, a dichiarare al mondo che "Siamo tutti americani", mentre Oriana Fallaci, malauguratamente risvegliatasi dal suo decennale letargo, scriveva un articolo volgare, aggressivo e delirante sulla faccenda, e Jean Baudrillard dava alle stampe un opuscolo in cui si interrogava sul significato simbolico dell'accaduto. Nel mentre, Samuel Huntington si faceva grasse risate nel prendere atto della massiccia opera di distorsione della realtà operata dai grandi media allo scopo di accreditare la sua teoria apocalittica da "Scontro di civiltà". Lo "Scontro di civiltà" è un saggio scritto su commissione da Huntington nel 1996 e portatore di un'ideologia particolarmente funzionale alle mire dell'amministrazione statunitense di allora, retta da un manipolo di fanatici neoconservatori, propugnatori di una versione degenere di trotzkijsmo rivisitato e corretto. Come gran parte delle ideologie, quella dello "Scontro di civiltà" mantiene un legame, anche se vago ed effimero, con la realtà. Si tratta di una costruzione arbitraria e intrinsecamente superficiale, ma sostanzialmente logica e accattivante, i cui cardini fondamentali sono alla base di rilevanti interessi politici ed economici. In sintesi, quella dello "Scontro di civiltà" è stata la copertura ideologica fondamentale, mediante la quale la più potente nazione al mondo, con un curriculum di tutto rispetto quanto a tutela degli interessi propri e particolarissimi con ogni mezzo possibile, ha acquisito lo status di vittima. Questo grottesco status di vittima ha garantito agli USA molti considerevoli vantaggi, tra i quali l'assoluta immunità alle critiche strutturali e non di facciata, a prescindere dalla loro fondatezza. Un'immunità che ha consentito a Bush di lanciare agli alleati indecisi sull'eventualità di affiancare gli USA nelle varie guerre imperiali in cui stavano andando ad invischiarsi, quell'arrogante ultimatum incentrato su un sostanziale "O con noi o contro di noi" che non era altro che una maniaccia, neanche troppo velata, a guardarsi bene dal mettere i bastoni tra le ruote a Washington. A molti gonzi americani e nostrani, abituati a guardare la realtà con le spessissime lenti dell'ideologia, piace ancora credere che le due guerre intraprese dall'amministrazione Bush siano una risposta concreta agli attacchi terroristici dell'11 settembre, laddove le cose stanno in maniera ben diversa. Ancora una volta, l'analisi marxista, che si prende la briga di individuare e valutare gli interessi in gioco, risulta lo strumento più utile per comprendere le dinamiche scaturite dall'11 settembre. A beneficiare direttamente delle due guerre, catalogabili senza dubbio come imperiali, sono state le lobbies belliche e petrolifere, tradizionalmente legate al partito repubblicano. Nel quinquennio che va dal 2002 al 2007, i fondi che l'amministrazione Bush destinò alle spese militari ammontarono a 2000 miliardi di dollari, cifra stratosferica ineguagliata da quarant'anni a questa parte, nonostante l'evidente asimmetria che separava l'esercito regolare statunitense dalle milizie resistenti afghane e irachene, mentre l'Halliburton guidata dall'allora vicepresidente Dick Cheney chiudeva contratti da capogiro per la trivellazione della ricchissima area del Kurdistan. Tra l’altro, la decisione di destinare quella stratosferica cifra alle spese militare, anche in relazione agli ambiziosissimi progetti relativi al potenziamento delle "Armi spaziali", andrebbe letta esclusivamente in chiave intimidatoria nei confronti delle potenze emergenti di Cina e Russia, altro che Osama Bin Laden. In ogni caso, smaltita la sbornia "islamica", molti osservatori hanno iniziato anche ad avanzare dubbi piuttosto concreti in merito alla ricostruzione ufficiale dei fatti, anche in relazione alle numerose, strane coincidenze e ai molti fatti che non tornavano. Roba da specialisti, sia chiaro, ma molti, molti interrogativi aleggiano ancora sulla reale "fattura" del disastro. Una ricostruzione più che plausibile dei fatti, l’ha data l’abile stratega reazionario Edward Luttwak, nel suo saggio “Colpo di stato”, pubblicato negli usa nel lontano 1968. Spigoliamone allora un passaggio: "Se fossimo dei rivoluzionari, intesi a cambiare la struttura della società, il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di distruggere il potere di alcune delle forze politiche, e il lungo e spesso sanguinoso processo di attrito rivoluzionario potrebbe ottenere ciò. Il nostro proposito, tuttavia, è abbastanza diverso: noi vogliamo prendere il potere nel presente sistema, e potremo rimanere al potere soltanto se incarniamo qualche status quo sostenuto proprio da quelle forze che una rivoluzione cercherebbe di distruggere. Volendo conseguire cambiamenti sociali fondamentali lo potremmo fare dopo esser diventati il governo. Questo è forse il metodo più efficiente (e di certo meno doloroso) rispetto alla classica rivoluzione". Il messaggio esplicito di Luttwak descrive un colpo di stato silenzioso, da effettuare all'interno del pasoliniano "Palazzo" e tenendo la popolazione all'oscuro. Si tratta pur sempre di ipotesi, ma che faremmo molto male a sottovalutare. Intanto, la radicalizzazione dello schmittiano “stato di eccezione” instaurato negli USA all’indomani dell’11 settembre non accenna battute d’arresto; molti cittadini americani e non continueranno ad essere spiati con il benestare degli asservitissimi governi europei, che si limiteranno a glissare ad ogni
sortita estera (con tanto di “extrordinay redition”) compiuta dagli agenti della CIA; il pacchetto di misure (il famigerato “Patriot Act”) varato dal “guerrafondaio” Bush è infatti stato puntualmente confermato dall’angelico democratico Barack Obama, cosa su cui i beoni scribacchini di corte che cianciavano di “cambiamento” farebbero bene a riflettere. Altrimenti continuino pure ad inquietarsi ogni volta che, in perfetta corrispondenza degli inevitabili cali di popolarità che un qualsiasi presidente degli Stati Uniti si troverà a fronteggiare, salterà puntualmente fuori dal cilindro la classica videocassetta in cui l’ologramma del barbuto Osama Bin Laden minaccerà di distruggere l’Occidente, proprio come accadde alla fine di maggio, quando si profilò la possibilità di eventuali attentati in occasione dei mondiali di calcio in Sud Africa. Con i ben noti esiti che sappiamo.