Politica e parole di M. Tozzato
In un articolo, sul Corriere del 19.09.2010, Giovanni Belardelli scrive:
<<Molti anni fa un grande storico, Franco Venturi, definì il fascismo come il «regno della parola», appunto per il peso sempre maggiore che vi aveva acquistato la dimensione oratoria fatta di proclamazioni altisonanti e retoriche. Quella stessa definizione si applica altrettanto bene all’Italia di oggi, alla sua vita politica fatta sempre più di formule e di parole>>.
Effettivamente da parecchi anni lo sfoggio di retorica per lo più rozza, insulsa e banale – di fatto, a guardare i risultati, il suo successo pare legato proprio a queste caratteristiche – ha assunto dimensioni mastodontiche; l’ideologia e la propaganda sono ovviamente necessarie per costruire il consenso attorno ai partiti e ai loro leader ma qualche elemento realistico era comunque richiesto fino a qualche anno fa, adesso basta parlare a vanvera e i risultati nei confronti dell’ “opinione pubblica” sono comunque assicurati, nel “bene e/o nel male”. Belardelli a questo proposito introduce una interessante osservazione di cui non ero a conoscenza:
<<Forse, se nella politica italiana le parole hanno tanta importanza, è anche perché soprattutto dalle parole è nato un secolo e mezzo fa lo Stato nazionale. In un saggio di vari anni fa uno studioso francese distinse le nazioni europee in «classiche» e «romantiche». Le prime erano scaturite dall’azione politica e militare di grandi monarchie, condotta attraverso i secoli; in questo senso, quelle nazioni erano «figlie della realtà». Le nazioni romantiche, invece, nate grazie al ruolo decisivo del dato culturale, grazie spesso a un’opera di vera e propria invenzione artistica e letteraria, gli apparivano «figlie della poesia ». Per i modi e i tempi in cui si è formata come Stato nazionale, l’Italia appartiene evidentemente alla seconda categoria, è figlia di una lunga storia culturale venuta a contatto nell’800 con l’immaginazione del nazionalismo romantico («La messe raccolta da Cavour è quella seminata da Dante», scrisse uno storico del nazionalismo).>>
Sono proprio i “critici” (forse solo apparenti) dell’unità nazionale che sembrano i “migliori” eredi di questa tradizione italica; la Lega Nord continua a raccontare un’ incredibile quantità di “favole”, riguardo quello che la cosiddetta “Padania” dovrà attendersi da un altrettanto “favoloso” federalismo che, pur mantenendo unita l’Italia, trasformerà le regioni del nord in un “paese di Cuccagna”, mentre il meridione sarà costretto finalmente a rimboccarsi le maniche, visto che secondo il “Senatur” e i suoi compari il problema si riduce a questo e gli elementi strutturali e l’ignavia di una classe politica indecente (in primis quella “romana” che ha nella Lega la “terza forza” in termini numerici) sarebbero soltanto fisime intellettualistiche a cui il “popolo Padano” non deve dare nessun credito. Così infine Belardelli conclude il suo articolo:
<<Tutto questo non vuol dire che oggi dobbiamo considerarci condannati a essere governati o da una «cultura del fare», come quella evocata dal presidente del Consiglio, che in realtà appare poco in grado di affrontare i problemi del Paese; oppure da un’opposizione per la quale il riformismo[…] sembra non riuscire a essere altro che una parola.>>
A questo proposito è giusto osservare che il Cavaliere, ormai in declino, è stato l’autentico maestro di quel tipo di comunicazione politica che tutti, alleati o avversari, utilizzano come strumento “di lotta e di governo”; ma come osserva l’editorialista – attraverso un mare di giravolte e di equilibrismi – Berlusconi, imprenditore alquanto atipico, ha comunque – ad esempio nel campo della politica estera – dimostrato di essere l’unico a possedere forse non una “cultura” ma una certa qual “capacità” di fare o tentare di fare qualcosa (magari solo per soddisfare i propri egoistici interessi) che andasse in una direzione diversa da quella indicata e comandata dai pre-dominanti d’oltreoceano.